1. Introduzione
L'inadeguatezza del sistema delle Nazioni Unite è ormai, e non da poco, un luogo comune. Ciò vale con riferimento non solo a quello che dovrebbe essere il principale ambito d'impegno delle Nazioni Unite - il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale -, ma anche per quanto riguarda l'affermazione e la protezione dei diritti umani, finalità comprensibilmente percepita come prioritaria nella società civile, molto più di quanto non sia effettivamente perseguita nell'azione concreta degli Stati (a prescindere dalle affermazioni di facciata e di propaganda).
La diffusa convinzione in ordine all'inadeguatezza del sistema ONU di garanzia dei diritti umani - e il conseguente senso di sfiducia nei confronti dell'organizzazione mondiale nella sua attuale configurazione - sembrano per lo più trovare ragioni (specie nella letteratura non specializzata, nell'editorialistica divulgativa e nei dibattiti ospitati dai mass media) nella situazione politica mondiale dell'attuale periodo storico, seguito alla fine del c.d. bipolarismo.
Tale situazione - caratterizzata fra l'altro dalla presenza egemone degli Stati Uniti d'America, dall'aumento del numero e della violenza dei conflitti interni in molte aree geopolitiche, da una tensione crescente tra una parte del "mondo" arabo islamico e una parte del "mondo" occidentale, dall'escalation del terrorismo internazionale - condizionerebbe in modo esiziale lo svolgimento da parte dell'ONU del suo ruolo di controllo imparziale dell'attuazione dei diritti umani nel mondo, impedendo altresì che gli organi delle Nazioni Unite si sviluppino pienamente in vere e proprie "istituzioni" mondiali di garanzia dei diritti fondamentali.
Per esemplificare questo modo di affrontare il problema, ci sia consentito evidenziare due soltanto fra le circostanze che vengono frequentemente richiamate quando si vuole denunciare la crisi del sistema ONU di protezione dei diritti umani.
Ci riferiamo, per un verso, alla nota diffidenza degli USA nei confronti degli organi delle Nazioni Unite a partecipazione allargata, caratterizzati dalla regola "uno Stato, un voto", la cui composizione si contraddistinguerebbe spesso per la presenza di Stati dalla scarsa credibilità sul piano del rispetto dei diritti umani e dall'atteggiamento pregiudizialmente ostile nei confronti della Superpotenza americana e degli interessi occidentali[1].
E, per altro verso, ci riferiamo invece alla altrettanto nota critica della selettività con cui vengono attuati (o non attuati) i meccanismi di controllo e di "sanzione" a disposizione dell'ONU: per cui nei confronti di certi Stati (in particolare, degli Stati Uniti e dei loro più fedeli alleati, ma anche delle altre Potenze dotate del c.d. diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza, Cina e Russia su tutte) sembrerebbe non potersi fare nulla per richiamarli ed indurli concretamente al rispetto dei diritti umani, quasi che fossero non solo immuni dai meccanismi di garanzia e di attuazione, ma addirittura esenti dalla destinatarietà delle regole sostanziali[2].
L'approccio consistente nel fare riferimento alle condizioni politiche che determinerebbero il fallimento - o la crisi, o l'inadeguatezza, a seconda dei gusti - del sistema ONU viene inoltre sviluppato spesso nel contesto di una concezione (più o meno consapevole) tendente a raffigurare le Nazioni Unite come un embrione di "governo mondiale" - un "super-Stato" o un complesso di "super-istituzioni" - incaricato di custodire una sorta di "Costituzione" dell'umanità, basata sui valori sanciti nella Carta di S. Francisco o affermatisi a partire da questa (fra i quali, in primo luogo, quello del rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona umana).
Questa falsa rappresentazione della natura e della realtà delle Nazioni Unite contribuisce evidentemente ad ingigantire le illusioni su quello che dovrebbe e potrebbe essere il ruolo dell'ONU (anche) nel campo dell'affermazione e della protezione dei diritti umani, rendendo di conseguenza ancora più cocenti le disillusioni e radicali i giudizi negativi sul modo in cui l'organizzazione starebbe interpretando il proprio ruolo e attuando i propri compiti.
Siano queste od altre le motivazioni principali alla base del "luogo comune" della crisi, o del fallimento, del sistema ONU di tutela dei diritti umani, molto meno spazio viene invece riservato di solito, nei ragionamenti diffusi al livello dell'opinione pubblica (ed anche nelle valutazioni di studiosi "non addetti ai lavori" del diritto internazionale), ai contenuti e alle caratteristiche normative e istituzionali di tale sistema, nonché ai suoi limiti intrinseci e, per così dire, congeniti. Così come poca attenzione ha pure ricevuto, in questi ultimi mesi, la riforma del sistema stesso, varata definitivamente dall'Assemblea generale il 15 marzo scorso.
Proprio di ciò vorremmo invece occuparci nelle pagine che seguono, nella duplice convinzione che senza un corretto inquadramento dei profili giuridici essenziali del sistema ONU di garanzia dei diritti umani, qualsiasi discorso sulla "crisi" o sulla "inadeguatezza" del sistema finisca per essere inevitabilmente pressapochistico (se non addirittura poco sensato), e che una riflessione realistica su qualsiasi riforma o eventuale "rivoluzione" del sistema in questione debba partire da un'immagine dei dati giuridici attuali non viziata da false concezioni di fondo.
2. La Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite e l'attività di controllo sul rispetto dei diritti umani
a) La Carta delle Nazioni Unite e la Commissione dei diritti umani
Una descrizione per grandi linee del sistema di protezione dei diritti umani delle Nazioni Unite deve necessariamente partire dalla rilevanza assegnata ai diritti umani nello Statuto dell'ONU.
Nella Carta di S. Francisco tale rilevanza non è per la verità particolarmente enfatizzata. Oltre al significativo riferimento nel Preambolo al fine di "riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nelle dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne", i diritti umani sono menzionati nel paragrafo 3 dell'art. 1, laddove si afferma che uno dei fini delle Nazioni Unite è per l'appunto "conseguire la cooperazione internazionale ... nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, sesso, lingua o religione".
Tale finalità è poi ripresa nel Capitolo IX della Carta, intitolato "Cooperazione internazionale economica e sociale". Precisamente, all'art. 55 si riafferma che "le Nazioni Unite promuoveranno [fra l'altro] il rispetto e l'osservanza universale dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione"; ciò "al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni".
E, nell'art. 56, si sancisce l'impegno per gli Stati membri "ad agire, collettivamente o singolarmente, in cooperazione con l'organizzazione per raggiungere i fini indicati all'art. 55".
Si tratta, a ben vedere, di disposizioni che non risultano né particolarmente perentorie per gli Stati membri, per quanto riguarda il loro dovere di rispettare i diritti umani, né attributive di poteri incisivi agli organi dell'ONU, per quanto riguarda la promozione, il controllo o l'attuazione del rispetto dei diritti umani da parte degli Stati. Inoltre, non può non rilevarsi il fatto che "le disposizioni della Carta ... si ispirano alla convinzione che il rispetto dei diritti umani sia da considerarsi essenzialmente come un mezzo per la salvaguardia della pace"[3].
E' dunque sulla base di questo dato normativo - alquanto generico, poco perentorio e non particolarmente aperto alla possibilità di sviluppi concreti sul piano dei meccanismi di garanzia dei diritti dell'uomo (oltre che, ovviamente, di natura squisitamente contrattuale interstatale, e non costituzionale in senso giuspubblicistico) -, che si è sviluppato il sistema di protezione dei diritti umani delle Nazioni Unite.
Tale sistema è ruotato finora, com'è noto, attorno all'azione della Commissione dei diritti umani, organo non permanente, sussidiario rispetto al Consiglio economico e sociale, composto dai rappresentanti di 53 Stati eletti per un periodo di due anni. Alle sedute annuali della Commissione hanno potuto inoltre partecipare, prendendo la parola ma senza diritto di voto, i rappresentanti di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, anche se non membri della Commissione, e i rappresentanti delle organizzazioni non governative (ONG) cui fosse stato riconosciuto lo status consultivo presso il Consiglio economico e sociale. La Commissione è stata a sua volta assistita, nei propri compiti, dalla "Sottocommissione per lo sviluppo e la tutela dei diritti umani", composta da 26 esperti designati dai Governi ed eletti dalla Commissione.
Compito un tempo esclusivo e anche recentemente assai rilevante della Commissione è stato quello di discutere e adottare risoluzioni su questioni di carattere generale, di commissionare studi e di elaborare progetti di dichiarazioni o di convenzioni da trasmettere al Consiglio economico e sociale ed eventualmente, in seguito, all'Assemblea generale: di promuovere, in altre parole, lo sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani nel quadro delle Nazioni Unite.
E' proprio nel contesto di tale attività normativa che la Commissione ha predisposto, fra l'altro, la "bozza" della storica e tuttora fondamentale Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, come anche dei due Patti internazionali del 1966, dedicato l'uno ai diritti civili e politici, l'altro ai diritti economici, sociali e culturali.
A partire dalla fine degli anni sessanta dello scorso secolo, tuttavia, la Commissione non si è limitata al compito di elaborare atti a carattere generale. Ha iniziato altresì ad occuparsi in modo concreto della questione della garanzia del rispetto dei diritti umani da parte di singoli Stati membri delle Nazioni Unite.
E sono stati a tal fine istituiti meccanismi di controllo che la stessa Commissione ha gestito in concreto: i meccanismi noti come procedura pubblica, procedura confidenziale e meccanismi a tema (o tematici)[4].
b) La procedura pubblica
La procedura pubblica, istituita nel 1967, consiste - banalmente - nella discussione in seduta pubblica di informazioni relative a gross violations of human rights in un determinato Stato, e nella eventuale adozione di risoluzioni in merito[5].
Per gross violations - o, come anche le si usa definire, consistent patterns of violations of human rights - s'intendono le violazioni dei diritti umani gravi e sistematiche.
E' stato spesso sostenuto che le violazioni non rientranti in tale categoria - le violazioni per così dire singole o "ordinarie" dei diritti umani - fossero escluse dall'ambito delle possibili competenze degli organi delle Nazioni Unite, in quanto rientranti nella sfera del c.d. dominio riservato degli Stati membri, preservata da ogni possibile forma di ingerenza in virtù dell'art. 2, paragrafo 7, della stessa Carta[6].
Questa opinione non è tuttavia condivisibile.
Il limite del dominio riservato non va infatti considerato, secondo il modo d'intenderlo che ci sembra più corretto, quale limite fra materie "riservate" e materie "non riservate" (le violazione singole o "ordinarie" dei diritti umani, da una parte; le questioni generali e astratte e, da un certo momento in poi, le violazioni gravi e sistematiche, dall'altra); bensì come limite verticale, mirante a mantenere separati due ambiti relazionali differenti - quello interstatale e quello interindividuale -, ad impedire cioè qualsiasi frapposizione autoritativa degli organi dell'ONU nel governo diretto che ciascuno Stato esercita sulla comunità territoriale sottostante.
Ciò non vieta però, evidentemente, che gli organi dell'ONU interloquiscano e interagiscano sul piano internazionale con gli Stati membri (intesi ciascuno nella rispettiva "unitarietà monolitica" di soggetto internazionale) in tutti gli ambiti di pertinenza dell'attività delle Nazioni Unite, ivi compreso quello delle violazioni dei diritti umani, sistematiche o individuali che siano[7].
La scelta della Commissione di occuparsi in un primo momento soltanto di violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani è pertanto da intendersi come scelta esclusivamente politica, e non come scelta determinata da inesistenti limiti giuridici.
Del resto, a essere politicamente condizionata, in assenza di standards che consentano di individuare con precisione il limite "inferiore" della categoria, è anche la eventuale qualifica di una situazione come gross violation - qualifica di cui nelle risoluzioni della Commissione vi è ben poca traccia. E in effetti, a fronte di una preoccupazione iniziale, tutta politica, di circoscrivere l'oggetto della sua prima procedura di controllo, la Commissione si è poi occupata di situazioni fra loro molto diverse dal punto di vista sia della gravità, sia del numero delle violazioni, finendo con il non tenere conto del limite che essa stessa si era inizialmente posta.
Di carattere politico, e spettante agli stessi Stati membri della Commissione, è anche la decisione di avviare in concreto una discussione pubblica in ordine a pretese violazioni dei diritti umani in un determinato Stato.
Tale decisione presuppone che uno o più Stati abbiano deciso di presentare una proposta di risoluzione avente per oggetto una situazione concreta o abbiano comunque ottenuto che di una situazione specifica la Commissione discuta. Poiché la Commissione è un organo in cui siedono delegati di governi, è inevitabile che tale scelta sia condizionata dai rapporti esistenti tra gli Stati membri: in concreto, dalla maggiore o minore influenza che lo Stato eventualmente oggetto di esame sotto il profilo dei diritti umani è in grado di esercitare sugli altri.
La procedura pubblica si conclude di regola con l'adozione da parte della Commissione di una risoluzione composta di due parti.
La prima contiene una valutazione che trova espressione in una gamma di sostantivi - "deplorazione", "condanna" e altri ancora - miranti a segnalare il diverso livello di "preoccupazione", di concern, che la Commissione vuole manifestare.
Nella seconda, le risoluzioni contengono di solito un invito alle autorità dello Stato coinvolto affinché rispettino gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e collaborino con gli organi delle Nazioni Unite nel prevenire e porre rimedio alle violazioni.
Può accadere che la collaborazione richiesta dalla Commissione alle autorità statali consista nella disponibilità ad accogliere la visita di un proprio rappresentante e a tenere conto delle raccomandazioni specifiche da questi formulate. Avviene infatti con frequenza che la Commissione nomini dei "relatori" aventi il compito di seguire in maniera continuativa, ricevendo e raccogliendo informazioni, l'evoluzione della situazione, nonché di intrattenere, se possibile, un dialogo con il governo.
Uno degli aspetti più interessanti dell'attività dei "relatori su paese" - i country rapporteurs - consiste nella possibilità che questi effettuino visite sul territorio dello Stato coinvolto. Tali visite in loco, peraltro, e a differenza delle altre modalità di svolgimento del controllo internazionale, consistono in attività che inevitabilmente vanno a svolgersi in quell'ambito di rapporti interindividuali, in cui si esplica l'attività di "governo" delle comunità umane, rientrante - questo sì, come s'è detto - nella sfera del c.d. dominio riservato degli Stati.
Le visite sono pertanto possibili solo a condizione che vi sia il consenso delle autorità dello Stato territoriale, consenso che viene richiesto ed eventualmente ottenuto di volta in volta e che gli Stati sono liberi di negare, a prescindere dagli eventuali costi in termini politici di un atteggiamento di chiusura.
A volte, la discussione in seno alla Commissione sulla situazione dei diritti umani in uno Stato specifico viene trasferita dal punto all'ordine del giorno dedicato alla "procedura pubblica" a quello relativo agli advisory services. E' quanto avviene nell'ipotesi che in uno Stato, già oggetto di attenzione, si verifichi un mutamento da cui si ritiene che possa derivare un miglioramento della situazione dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. In questi casi, più che di garanzia dei diritti umani mediante controllo del loro rispetto vi sarebbe, sempre secondo la valutazione della Commissione, necessità di assistenza da parte degli organi delle Nazioni Unite.
Le considerazioni svolte in ordine al condizionamento politico dell'avvio della procedura pubblica valgono anche rispetto al momento conclusivo di questa. La nomina o il rinnovo del mandato di un relatore sta a indicare una valutazione alquanto severa e la volontà di esercitare un controllo più incisivo di quello che può risultare dalla mera discussione della situazione in occasione delle sessioni annuali della Commissione. Al contrario, la scelta di trasferire l'esame di una situazione dal punto dedicato alle discussioni pubbliche a quello dedicato agli advisory services viene di solito intesa come una sorta di ritiro della "censura", trattandosi in sostanza di una decisione di riduzione, se non proprio di cessazione, dell'attività di controllo internazionale.
Esistono peraltro diverse opzioni intermedie: dalla "deplorazione" per le violazioni dei diritti umani in uno Stato accompagnata semplicemente dalla decisione di mantenere la questione al proprio ordine del giorno, all'invito a permettere lo svolgimento di una visita in loco da parte di un "relatore su paese". E' da sottolineare che a ciascuna delle opzioni che la Commissione ha davanti a sè corrisponde un diverso grado di pressione che i suoi Stati membri intendono esercitare sullo Stato coinvolto.
E la scelta relativa, al pari della scelta iniziale di mettere in moto la procedura pubblica, non può che essere condizionata dalla natura di organo di Stati, rappresentati dai propri delegati governativi, propria della Commissione stessa.
Dal punto di vista formale, le risoluzioni con cui si conclude l'iter della procedura pubblica della Commissione dei diritti umani hanno, come la maggior parte degli atti di organizzazioni internazionali, natura di raccomandazione. La procedura in questione appartiene infatti a quella categoria di garanzie che vanno sotto il nome di controlli internazionali, o international monitoring procedures, le quali non producono di regola alcun effetto giuridicamente vincolante. Ciò non significa tuttavia che le risoluzioni della Commissione non producano effetti in assoluto.
In primo luogo, così come politicamente condizionati sono sia l'avvio che la conclusione della procedura, così pure di natura politica sono gli effetti che derivano dalla pressione che la adozione di una risoluzione di "condanna" produce nei confronti delle autorità dello Stato coinvolto.
La pressione esercitata da un organo internazionale mediante la adozione di un atto contenente una riprovazione o una "censura" può ben configurarsi come sanzione sociale, che arreca indubbiamente un danno al prestigio e alla credibilità di quello Stato presso gli altri Stati e presso l'opinione pubblica interna e internazionale.
Gli sforzi che molti degli Stati potenzialmente oggetto di una risoluzione della Commissione compiono al fine di evitare che questa sia adottata, o anche solo di ammorbidirne il contenuto, confermano il fatto che una risoluzione di "condanna" è da questi percepita come una forma di sanzione.
A questo genere di sanzione sociale possono aggiungersi poi taluni ulteriori effetti indiretti, derivanti in sostanza dal rinvio che alle prese di posizione della Commissione venga fatto nel quadro della politica di cooperazione allo sviluppo o, più in generale, della politica estera di alcuni Stati. In ordine a tali eventuali effetti indiretti va, tuttavia, riconosciuto, da una parte, che esiste una chiara tendenza degli Stati a subordinare l'adozione di misure di ritorsione nei confronti di Stati che violano i diritti umani a valutazioni proprie, valutazioni nelle quali la questione del rispetto dei diritti umani viene spesso strumentalizzata a scopi politici, economici o strategici estranei. D'altra parte, anche valutazioni che non provengono dalla Commissione dei diritti umani, e neppure da altri organi delle Nazioni Unite (quali, ad esempio, quelle delle più note organizzazioni non governative), possono costituire il presupposto da cui può essere fatta dipendere l'adozione di ritorsioni contro gli Stati autori di gravi violazioni dei diritti umani.
Si tratta, infatti, pur sempre di elementi di fatto, e non di presupposti giuridici, da cui uno Stato è libero di far derivare la scelta di tenere una data condotta sul piano delle relazioni internazionali. Le prese di posizione critiche, da chiunque esse provengano, rilevano unicamente per il loro contenuto, per la loro maggiore o minore autorevolezza, o, più realisticamente, per il rilievo che ogni Stato sceglie liberamente di attribuirvi.
Per quanto riguarda, infine, l'attività posta in essere dai "relatori su paese", allorché nominati, questa ha talvolta contribuito a rendere più incisivo il controllo effettuato dalla Commissione: ciò si deve in parte alla circostanza che i relatori tendono a subire in maniera meno diretta, rispetto alla ipotesi in cui il controllo sia affidato unicamente alla stessa Commissione, il condizionamento degli Stati. La nomina di un relatore non muta, tuttavia, i termini fondamentali della questione, né dal punto di vista della natura delle scelte della Commissione (a cominciare proprio da quella di nominare o meno un relatore), né dal punto di vista del tipo di effetto che le risoluzioni adottate da questa, eventualmente su proposta del relatore, possono produrre.
c) La procedura confidenziale
A partire dal 1970, con una risoluzione del Consiglio economico e sociale[8], alla procedura pubblica è stata affiancata la procedura confidenziale, destinata a funzionare a porte chiuse. Oggetto di esame nell'ambito di quest'ultima sono, secondo la risoluzione istitutiva, quelle "communications which appear to reveal a consistent pattern of gross and reliably attested violations of human rights and fundamental freedoms".
La formula, se si esclude il riferimento alla circostanza che le violazioni debbano essere "reliably attested", è simile a quella utilizzata per la procedura pubblica tanto da fare ritenere che non vi siano sostanziali differenze di oggetto tra l'una e l'altra procedura.
Per la procedura confidenziale valgono,pertanto le considerazioni già svolte con riferimento alla procedura pubblica in ordine all'assenza di parametri giuridici di riferimento e a come ciò favorisca la politicizzazione dell'attività di controllo svolta dalla Commissione.
Sotto il profilo delle modalità di avvio, la procedura confidenziale differisce invece in modo sensibile dalla procedura pubblica. Viene infatti messa in moto a seguito di "comunicazioni" provenienti sia da individui che si pretendano vittime di violazioni dei diritti umani (o che abbiano conoscenza diretta di violazioni dei diritti umani) sia da organizzazioni non governative. In qualche modo, dunque, si dà per la prima volta attuazione, nella materia dei diritti umani, al "diritto di petizione" degli individui agli organi delle Nazioni Unite, di cui si era discusso, senza che venisse previsto in quell'atto, già nel contesto dell'elaborazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.
Il significato che assume la attivazione individuale della procedura confidenziale non va, tuttavia, frainteso. Oggetto della comunicazione deve essere pur sempre un systematic pattern of gross violations dei diritti umani, ovvero una situazione complessiva, non la violazione specifica eventualmente subita dall'autore della comunicazione.
La comunicazione, in altre parole, non è un ricorso, come tale finalizzato alla riparazione dell'eventuale torto subìto dall'individuo che ne è l'autore. Va intesa, piuttosto, come una mera segnalazione, nel senso che l'individuo (o la ONG) funge da strumento idoneo ad attirare l'attenzione della Commissione su una situazione più o meno diffusa di mancato rispetto dei diritti umani. Alla diversa modalità di avvio della procedura confidenziale rispetto alla procedura pubblica non corrisponde dunque una diversità nell'oggetto o nello scopo.
Nondimeno, la possibilità che individui e organizzazioni non governative segnalino l'esistenza di violazioni dei diritti umani all'attenzione di un organo delle Nazioni Unite rappresenta, almeno sulla carta, uno sviluppo positivo, se non altro in quanto permette di sottrarre alla iniziativa dei soli Stati l'avvio di controlli internazionali in una materia rispetto alla quale è tradizionalmente assente un loro interesse specifico.
La procedura confidenziale ha uno svolgimento piuttosto articolato, del quale non vale la pena dare conto in questa sede. Basti dire che essa si svolge interamente a porte chiuse e che solo nella fase finale del procedimento la confidenzialità della procedura può in qualche misura attenuarsi. Precisamente, al termine di ciascuna sessione della Commissione dei diritti umani, il Presidente della Commissione rende noto l'elenco degli Stati considerati, segnalando quali situazioni siano state "abbandonate" e quali invece siano rimaste oggetto di considerazione da parte della Commissione. In presenza di circostanze particolarmente allarmanti o riprovevoli, la Commissione può inoltre chiedere al Consiglio economico e sociale di rendere pubblica una situazione oggetto di esame.
Dal punto di vista dell'esito cui conduce, anche il controllo del rispetto dei diritti umani attuato nella cornice della procedura confidenziale incontra dunque quel limite della mancanza di effetti vincolanti a cui già s'è visto andare incontro la procedura pubblica. L'elemento della confidenzialità, peraltro, comporta differenze significative, che tendono a trasformarsi in un limite ulteriore.
Non soltanto, infatti, la circostanza che le discussioni della Commissione abbiano luogo a porte chiuse esclude ogni ulteriore coinvolgimento dell'opinione pubblica; l'improbabilità che l'iter giunga a una conclusione pubblica comporta altresì che le autorità dello Stato coinvolto non subiscano o subiscano in misura assai ridotta quella forma di pressione che risulta dalla eventualità di una "censura". Viene di fatto meno, in altre parole, la possibilità che sia inflitta quella sanzione sociale di cui si è detto trattando, appunto, della procedura pubblica.
L'eventualità assai ridotta di una "censura" pubblica, a sua volta, fa sì che lo scopo della procedura confidenziale tenda a ridursi a quello della mediazione, da realizzarsi attraverso lo strumento del dialogo; mentre rimane sullo sfondo la finalità di accertamento e valutazione, sia pure politica, della situazione dei diritti umani. Non è un caso che non sia prevista in questo contesto la nomina di relatori con il compito, inter alia, di svolgere indagini. Tutto ciò non produce altro, in molti casi, che un dialogo alquanto sterile, fine a sé stesso, fra autorità degli Stati coinvolti e Commissione, con il risultato che l'attività di controllo non contribuisce ad alcun miglioramento sostanziale della situazione.
In conclusione, il carattere confidenziale di questa procedura, riducendo i costi della eventuale mancanza di collaborazione degli Stati con gli organi delle Nazioni Unite, finisce spesso per disincentivare la necessaria disponibilità da parte delle autorità degli Stati coinvolti, incoraggiandole piuttosto ad attuare una collaborazione di pura facciata. Il fatto di rimanere, pur sempre, una procedura politicamente gestita, senza tuttavia che sia contemplata la possibilità di una sanzione sociale (esclusa dal carattere confidenziale), ne determina insomma la scarsa incisività.
d) I meccanismi a tema
Nel 1980 la Commissione ha inaugurato una nuova forma di controllo del rispetto dei diritti umani, riguardante anche - a differenza delle procedure sin qui esaminate - violazioni "singole".
Si tratta dei cosiddetti meccanismi a tema (o tematici), finalizzati, da una parte, alla analisi dei distinti fenomeni presi in considerazione e, dall'altra, allo svolgimento di attività intese a porvi fine: finalizzati, in altre parole, alla raccolta e alla verifica di informazioni sia su situazioni complessive che su casi specifici di violazione, nonché alla formulazione di raccomandazioni indirizzate sia agli Stati coinvolti sia alla stessa Commissione.
Istituendo nel tempo un numero via via crescente di meccanismi a tema, la Commissione ha voluto affermare l'esistenza di un international concern relativo a taluni tipi di violazione dei diritti umani, anche quando se ne verificano casi singoli o sporadici.
Questo fatto, pur presentando un certo rilievo politico, non comporta modifiche nella distribuzione di competenze giuridiche fra organi internazionali e organi statali nella materia dei diritti umani. Non comporta, in altre parole, una erosione del c.d. dominio riservato degli Stati (che, come abbiamo ricordato, non costituisce un limite "per materia" all'attività degli organi delle NU).
Alla estensione del mandato dei meccanismi a tema a casi singoli di violazione si accompagnano - per un verso - la disponibilità, in linea di massima, di parametri di riferimento sostanziali più precisi e - per altro verso - un condizionamento politico minore in ordine sia all'avvio che allo svolgimento dell'attività di controllo.
L'insieme di questi elementi fa sì che i meccanismi tematici della Commissione costituiscano una sorta di "ponte" tra le procedure tradizionali della Commissione, ad alto tasso di politicizzazione, da una parte, e le procedure - giuridicamente impostate - che fanno capo ai vari comitati istituiti nel quadro di specifici accordi internazionali, alle quali faremo cenno più avanti.
Il meno recente fra i meccanismi a tema è il Gruppo di lavoro, istituito nel 1980, sulle sparizioni forzate e involontarie. Sono seguiti, nel 1982, il Relatore speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie, e quindi, nel 1986, il Relatore speciale contro la tortura. Attualmente sono in funzione oltre 25 meccanismi a tema.
Fra i più recenti segnaliamo il Gruppo di lavoro sui mercenari, il Relatore speciale sulla protezione dei diritti umani nella lotta al terrorismo, il Rappresentante speciale sui diritti umani e la responsabilità delle imprese multinazionali e l'Esperto indipendente sulle minoranze.
L'attività dei meccanismi tematici può essere sollecitata da una segnalazione individuale o proveniente da un'organizzazione non governativa.
Anche in questo contesto, individui e ONG sono da intendersi quali strumenti di avvio del controllo, utili al superamento dell'ostacolo derivante dalla mancanza di un interesse "governativo" nella materia dei diritti umani e, in questo senso, decisivi in vista del relativo successo dell'attività condotta dai relatori e dai gruppi di lavoro a tema. Rispetto alla procedura confidenziale vi è tuttavia una differenza.
Mentre, infatti, l'operare di questa presuppone necessariamente il ricevimento di una o più comunicazioni, i meccanismi a tema possono ricercare attivamente informazioni su eventuali violazioni dei diritti umani rientranti nei loro rispettivi mandati. Sono abilitati, in altre parole, "to seek", oltre che "to receive" informazioni su pretese violazioni.
Una volta ricevuta una segnalazione o entrati altrimenti in possesso di informazioni rilevanti, i meccanismi tematici le prendono in esame e le sottopongono all'attenzione delle autorità dello Stato coinvolto.
I relatori e gruppi di lavoro tematici possono inoltre effettuare visite in loco, finalizzate sia ad attività di fact-finding sia al dialogo con le autorità statali. In proposito vale quanto già chiarito con riferimento all'altra categoria di special procedures della Commissione, ossia ai relatori su paese, e cioè che le visite in loco, essendo destinate a superare il limite verticale (o relazionale) del dominio riservato degli Stati, non possono prescindere dal consenso di questi ultimi.
Delle visite in loco i meccanismi a tema danno conto in rapporti ad hoc oppure nel quadro dei loro rapporti annuali, i quali contengono, oltre alle notizie relative alle violazioni dei diritti umani negli Stati visitati, anche una serie di raccomandazioni.
Tra i pregi dell'azione dei relatori e dei gruppi di lavoro a tema va certamente incluso il fatto che, mediante essa, vengano innanzitutto analizzati in maniera complessiva i fenomeni oggetto dei rispettivi mandati e le circostanze che ne rendono possibile o favoriscono il diffondersi e, quindi, indirizzate alla Commissione raccomandazioni di carattere generale su come prevenirli.
Ad esempio, le analisi e le raccomandazioni del Gruppo di lavoro sulle sparizioni hanno dato un contribuito significativo in vista, in primo luogo, dell'elaborazione della Dichiarazione sulle sparizioni adottata dall'Assemblea generale (che è diventata un punto di riferimento imprescindibile per la attività dello stesso Gruppo di lavoro) e, in seguito, per l'adozione di una vera e propria Convenzione internazionale in materia.
Oltre che per l'oggetto, non limitato alle sole violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani, i meccanismi tematici si differenziano dalle altre procedure gestite dalla Commissione anche sotto il profilo degli obiettivi.
Particolarmente significativo è l'obiettivo di favorire il raggiungimento di una soluzione in ordine alle violazioni "singole" dei diritti umani oggetto di segnalazione. A tal fine viene ad esempio rivolta alle autorità dello Stato coinvolto la raccomandazione di porre termine alla violazione - se questa ha carattere continuato - ed eventualmente di riparare il danno, vuoi mediante l'adozione di provvedimenti a titolo di riparazione in forma specifica, vuoi mediante il versamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento.
Nel contesto della attività finalizzata a favorire una soluzione dei casi singoli di cui vengono a conoscenza, i meccanismi tematici si rivolgono direttamente alle autorità degli Stati coinvolti, senza passare attraverso il filtro della Commissione. In questo si distinguono dai "relatori su paese", i quali tendono a svolgere piuttosto una attività di carattere istruttorio, che deve trovare il suo necessario completamento da parte dell'organo principale, chiamato a fare eventualmente proprie le proposte formulate dal relatore.
Anche le attività dei meccanismi tematici vanno incontro, peraltro, a certi limiti comuni alle altre attività di controllo gestite, direttamente o indirettamente, dalla Commissione dei diritti umani. Ci riferiamo soprattutto al limite che deriva dal carattere di organo politico della stessa Commissione, la quale ha il potere di scegliere i relatori e i membri dei gruppi di lavoro, stabilire il loro mandato e di attribuire loro le risorse necessarie all'adempimento di quest'ultimo.
Certo, la circostanza che i meccanismi tematici abbiano un mandato "diffuso", non relativo ad uno Stato soltanto, li rende meno suscettibili di condizionamenti politici. Ciò non elimina tuttavia la possibilità che, qualora un meccanismo tematico risulti sgradito alla maggioranza degli Stati membri della Commissione, finisca per non venire rinnovato o quantomeno per essere privato delle risorse indispensabili allo svolgimento delle proprie funzioni.
Neppure il secondo limite comune ai vari meccanismi di controllo della Commissione, quello derivante dalla necessità della collaborazione degli Stati direttamente coinvolti nel facilitare lo svolgimento dell'attività di controllo, dialogando con gruppi di lavoro e relatori ed eventualmente autorizzandoli a compiere visite in loco, è estraneo all'attività dei meccanismi a tema: accade con relativa frequenza che un relatore a tema segnali gravi difficoltà derivanti dalla insufficiente collaborazione di alcuni Stati.
Come quelli della procedura pubblica e di quella confidenziale, anche gli effetti dell'attività dei meccanismi a tema si collocano in buona misura sul terreno politico; ciò a maggior ragione se si considera il fatto che risulta comunque decisiva la disponibilità degli Stati - spontanea o indotta dalla pressione esercitata dalla stessa Commissione - a prendere in considerazione e a seguire le raccomandazioni loro indirizzate. Agli effetti in questione possono inoltre aggiungersi quegli effetti indiretti di cui abbiamo detto e che si verificano quando alle risultanze della attività di inchiesta, svolta nel contesto di un meccanismo a tema, uno Stato rinvii al fine di orientare in un senso o nell'altro la propria politica internazionale e di attuare, eventualmente, ritorsioni sul piano economico-commerciale.
Per ciò che invece riguarda in modo specifico i meccanismi tematici, vale la pena sottolineare ancora come questi, oltre a prevedere lo svolgimento di indagini e l'indirizzo di raccomandazioni agli Stati, abbiano anche contribuito alla conoscenza generale dei fenomeni oggetto dei rispettivi mandati, che prima della creazione di un meccanismo ad hoc erano spesso poco conosciuti nella loro specificità e dunque contrastati con un'azione poco efficace.
3. Caratteri e limiti del sistema di garanzia dei diritti umani delle Nazioni Unite
a) Natura politica dei controlli e "politicizzazione" del sistema. Il ruolo delle ONG
La principale critica che è stata mossa al sistema di garanzia dei diritti umani delle Nazioni Unite riguarda l'eccessiva politicizzazione dell'organo con competenze specifiche nella materia, la Commissione dei diritti umani; una critica largamente condivisa da quanti si sono posti il problema di un'adeguata protezione dei diritti umani nell'ambito delle Nazioni Unite.
Secondo il rapporto intitolato A more secure world: our shared responsibility,elaborato dal High-level Panel on Threats, Challenges and Change istituito dal Segretario generale Kofi Annan nel 2003, "the Commission's capacity to perform [its] tasks has been undermined by eroding credibility and professionalism.
Standard-setting to reinforce human rights cannot be performed by States that lack a demonstrated commitment to their promotion and protection"[9].
Lo stesso Segretario generale, nel suo rapporto intitolato A larger freedom: towards development, security and human rights for all, del marzo 2005, pur formulando proposte di riforma diverse da quelle suggerite dal Panel, mostra di condividere questa parte dell'analisi[10].
Anche le principali organizzazioni non governative per i diritti umani hanno puntato da tempo il dito sulle strumentalizzazioni e la selettività che hanno caratterizzato il modo in cui gli Stati membri della Commissione hanno affrontato la questione delle violazioni dei diritti umani. Secondo la UN Advocacy Director di Human Rights Watch, Joanna Weschler, il rapporto del High level panel, giudicato inadeguato nella parte propositiva, "is on target in recognizing that gross human violators seek seats on the Commission to protect themselves from criticism"[11].
Ed Amnesty International ha sostenuto che tra i "long-standing problems faced by the Commission" vi sarebbe in primo luogo il fatto che "its members routinely resort to double-standards in addressing country situations and that membership is too often used to shield the Commission members from human rights scrutiny instead of to protect and promote human rights"[12].
La descrizione che abbiamo fatto dell'attività di controllo internazionale sul rispetto dei diritti umani svolta dalla Commissione ha in effetti evidenziato la natura essenzialmente politica delle procedure esaminate.
Sia pure in misura variabile da procedura a procedura e da situazione a situazione, sono politicamente condizionate le scelte relative all'eventuale avvio, quelle relative alle modalità di gestione e le decisioni in ordine al tipo di conclusione di ciascuna attività di controllo del rispetto dei diritti umani gestita dalla Commissione.
Hanno carattere essenzialmente politico, del resto, anche gli effetti che tale attività di controllo può produrre - che consistono principalmente in quella sanzione sociale che, quantomeno in presenza di talune condizioni (alle quali si farà cenno in seguito), può rappresentare un mezzo relativamente efficace di pressione sulle autorità di governo affinché pongano fine alle violazioni dei diritti umani e diano seguito alle raccomandazioni della Commissione.
Aggiungiamo che ben difficilmente, a nostro avviso, potrebbe essere diversamente. La composizione stessa dell'organo che nel sistema delle Nazioni Unite ha il compito di vigilare sul rispetto dei diritti umani - un organo formato da Stati, rappresentati dai rispettivi governi - comporta inevitabilmente che le decisioni siano assunte tenendo conto di interessi statali. Di questa situazione non si può non prendere realisticamente (e criticamente) atto.
Tuttavia, se è vero che nel sistema delle Nazioni Unite - organizzazione che, è bene ricordarlo, è nata e tuttora si caratterizza non già come istituzione in senso giuspubblicistico di una comunità politica integrata, bensì come organizzazione intergovernativa in senso stretto, in cui gli eventuali effetti giuridici obbligatori delle decisioni degli organi riposano esclusivamente sul "contratto" fra gli Stati membri[13] - i controlli sul rispetto dei diritti umani sono di natura essenzialmente politica, ciò non significa che la "politicizzazione" dei meccanismi di garanzia non sia da criticare. Utilizzare in vista del fine del rispetto dei diritti umani gli strumenti politici messi a disposizione dal sistema delle Nazioni Unite è infatti cosa ben diversa dall'abusare del carattere politico, e dunque ampiamente discrezionale, dell'attività dell'organizzazione; soprattutto quando si ha come fine unico o prevalente quello di sottrarre sé stessi o i propri alleati al controllo internazionale e alla "condanna" cui quell'attività di controllo condurrebbe.
Un possibile freno, una sorta di limitato correttivo alla degenerazione del sistema può peraltro individuarsi - già con riferimento al sistema finora in vigore e dunque a prescindere dagli effetti della recente riforma - nell'attività svolta, nel contesto dell'operare della Commissione dei diritti umani, dalle organizzazioni non governative.
Le organizzazioni non governative, strumenti di collaborazione fra individui appartenenti a comunità statali diverse, hanno sviluppato in misura crescente la capacità di utilizzare, al massimo delle loro potenzialità, tutti gli spazi messi loro a disposizione dal sistema, finendo con lo svolgere un ruolo complementare rispetto ai meccanismi intergovernativi di controllo.
A cominciare dalla più nota fra esse, Amnesty International, hanno contribuito in misura notevole ad alimentare le special procedures (sia "su paese" che "a tema") della Commissione, rendendo disponibili le informazioni da esse raccolte e verificate ai relatori e ai gruppi di lavoro che, a causa delle risorse limitate di cui dispongono, possono svolgere attività di fact-finding in misura del tutto insufficiente rispetto alle necessità.
Ad alcune organizzazioni non governative attive nel settore dei diritti umani è stato inoltre riconosciuto, come si è accennato, lo status consultivo presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, contemplato dall'art. 71 della Carta delle Nazioni Unite[14].
A queste è consentito di intervenire, vuoi oralmente vuoi mediante comunicazioni scritte, nei lavori della Commissione. In tal modo le ONG riescono talvolta a condizionare le scelte della Commissione nel senso di una migliore protezione dei diritti umani, contrastando i condizionamenti di segno contrario.
Tali interventi, frequenti soprattutto nel contesto della procedura pubblica, vanno inquadrati del resto nella più ampia attività di lobbying o di advocacy delle ONG, consistente nel promuovere e nell'organizzare la pressione dell'opinione pubblica sui governi al fine di ottenere un maggiore rispetto dei diritti umani e, più specificamente, a far crescere i costi politici della mancanza di collaborazione di questi con i meccanismi della Commissione.
I limiti del presente scritto non consentono evidentemente di approfondire la questione del ruolo complessivo svolto dalle ONG nella protezione dei diritti umani. Basti dire che tale ruolo può utilmente integrare - sia per il tramite del collegamento formale dello status consultivo, che attraverso contatti di tipo informale - il sistema istituito nel quadro delle Nazioni Unite, e che un giudizio complessivo su quest'ultimo non può non tenere conto del rafforzamento che gli deriva dal contatto con le ONG e, tramite queste, con l'opinione pubblica.
I principali effetti dei meccanismi di controllo si collocano, del resto, su quello stesso terreno politico in cui si inserisce l'attività delle organizzazioni non governative: l'interazione fra controllo del rispetto dei diritti umani attuato in un quadro intergovernativo e quello che potremmo definire "controllo non governativo" risulta essere pertanto quasi naturale, anche se non priva di tensioni e problematicità.
b) I limiti del sistema dei controlli politici delle Nazioni Unite e la cornice più ampia in cui vanno inquadrati
Una seconda considerazione di ordine generale è che il sistema di controllo sul rispetto dei diritti umani affidato alla Commissione dei diritti umani, con le sue caratteristiche e i suoi limiti, non può essere valutato in modo avulso rispetto al contesto in cui s'inserisce. I limiti propri dei meccanismi descritti in precedenza vanno, in altre parole, valutati nella prospettiva più ampia dell'insieme degli strumenti di garanzia del rispetto dei diritti umani internazionalmente riconosciuti.
Dal momento che le procedure della Commissione, considerate nel loro insieme, costituiscono uno soltanto degli elementi di un sistema più complesso, sarebbe fuorviante valutarle come se non esistessero anche gli altri.
Non possiamo, per ovvie ragioni di spazio, descrivere in dettaglio gli altri elementi del sistema complessivo cui abbiamo fatto cenno. Possiamo solamente menzionarli, nel tentativo di facilitare la comprensione della questione specifica che più direttamente ci interessa.
i. Innanzitutto, è bene ricordare che il ruolo di garanzia dei diritti umani svolto dalla Commissione ha, come avviene in generale per tutti i meccanismi propriamente internazionali di garanzia, carattere sussidiario o quantomeno complementare rispetto alle garanzie interne. In ordine sia logico sia cronologico, si può ben dire infatti che "vengano prima" le garanzie interne dei diritti internazionalmente riconosciuti. Le stesse norme internazionali sostanziali in materia di diritti umani impongono agli Stati non solo di astenersi dal tenere determinate condotte bensì, anche, di avere un sistema giuridico e amministrativo statale di garanzia di quei diritti che le norme internazionali riconoscono. Il rapporto di sussidiarietà e/o di complementarietà fra garanzie internazionali e garanzie interne dei diritti umani internazionalmente riconosciuti può realizzarsi in varia maniera. Basti dire, in questa sede, che anche le procedure della Commissione dei diritti umani s'inseriscono in una cornice in cui sono gli Stati a essere chiamati, in prima battuta, a rimediare essi stessi alle eventuali violazioni dei diritti umani commesse nell'ambito della loro jurisdiction.
ii. In secondo luogo, del sistema delle Nazioni Unite inteso in senso lato, oltre al "monitoraggio politico" della Commissione, fanno parte anche i controlli dei vari comitati istituiti nell'ambito di specifici accordi internazionali. Tali procedimenti di controllo sono caratterizzati da un'impostazione più "giuridica", che trova espressione sia nella composizione degli organi cui è affidato il controllo (una serie di "comitati" formati da esperti indipendenti), sia nell'esistenza di precisi standards di diritto sostanziale cui fare riferimento, sia nel carattere rigoroso, quasi-giurisdizionale, che contraddistingue le modalità di svolgimento del procedimento di controllo, sia - infine - nell'esito cui attraverso quel procedimento si perviene. In breve, esiste - anche se è ovviamente applicabile soltanto agli Stati parti di ciascun accordo - un sistema di controllo pattizio, parallelo e più efficace rispetto a quello gestito dalla Commissione (previsto e disciplinato, peraltro, da accordi che la stessa Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite, nel suo ruolo di organo di promozione di atti generali in materia, ha in genere contribuito a elaborare). L'esempio più noto ed importante è quello del Comitato dei diritti umani, istituito in virtù del Patto sui diritti civili e politici del 1966.
iii. In terzo luogo, una valutazione del sistema di garanzia dei diritti umani delle Nazioni Unite deve tenere conto dell'esistenza di sistemi regionali di protezione dei diritti umani in almeno tre diversi continenti: l'Europa, l'America e l'Africa. Non entreremo qui nel merito dei meccanismi di coordinamento tra protezione universale e protezione regionale dei diritti umani. Ci limitiamo a ricordare come proprio le procedure di accertamento previste dalla Convenzione europea del 1950, da quella interamericana del 1969 e, più di recente, dal Protocollo aggiuntivo alla Carta Africana dei diritti umani e dei popoli, adottato nel 1998, siano assai più evolute ed efficaci di quelle introdotte nel quadro delle Nazioni Unite e come esse tendano a essere preferite, per ragioni differenti, sia dagli Stati appartenenti a tali regioni sia da chi si pretenda vittima di una violazione dei diritti riconosciuti in quegli accordi.
iv. Infine, soprattutto a partire dalla fine del c.d. equilibrio bipolare, e nel contesto delle conseguenze che questa ha avuto sul sistema di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale facente capo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, non possono trascurarsi alcuni importanti sviluppi che sono tra l'altro serviti a colmare (in modo più o meno condivisibile) taluni limiti propri del sistema di garanzia dei diritti umani fondato sull'azione della Commissione. Tali sviluppi attengono, da una parte, alla valorizzazione del collegamento tra il fine della protezione dei diritti umani e quello del mantenimento della pace internazionale e, dall'altra, al rinnovato impulso dato alla creazione di tribunali penali internazionali.
I limiti cui facciamo riferimento sono legati in particolare alle caratteristiche dell'esito cui giungono i meccanismi di garanzia istituiti dalla Commissione, delle quali già si è detto. Questi meccanismi, per poter funzionare efficacemente e produrre effetti utili nei confronti e all'interno di un determinato Stato, presuppongono la sussistenza di una di due possibili situazioni. In primo luogo, non deve essersi in presenza di un sistema politico fondato sulla repressione sistematica, la cui stessa sopravvivenza presuppone il perdurare di violazioni dei diritti umani, o di una situazione di conflitto interno in cui le violazioni dei diritti fondamentali della popolazione sono elemento del conflitto, quasi strumento di condotta delle ostilità. E' infatti ben difficile che, in tali condizioni, venga dato ascolto alla voce - per quanto autorevole ed espressione degli orientamenti prevalenti nella c.d. comunità internazionale - della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite. In secondo luogo, è chiaro che le procedure di controllo della Commissione non possono verosimilmente riuscire nel loro scopo laddove si sia in presenza di una di quelle situazioni di collasso della struttura statale che sono tali da rendere difficile persino l'identificazione degli eventuali interlocutori degli organi internazionali.
L'analisi dei vari meccanismi gestiti dalla Commissione conferma, in altre parole, l'esigenza che si riscontri quantomeno un livello minimo di volontà e/o di possibilità di rispettare i diritti umani da parte delle autorità statali, affinché abbia senso procedere alla effettuazione di un'attività di controllo. In mancanza di ciò viene infatti meno quella collaborazione che risulta indispensabile allo svolgimento del controllo. Inoltre, occorre che le autorità degli Stati coinvolti vogliano e possano tenere conto degli atti politicamente rilevanti ma privi di effetti giuridici vincolanti in cui consiste l'esito delle procedure di controllo della Commissione. Quantomeno, occorre che le autorità di quegli Stati siano sensibili agli effetti che l'adozione di una risoluzione di condanna da parte della Commissione può a sua volta suscitare sul piano sia interno che internazionale.
L'assenza di tali presupposti, divenuta più frequente con lo scoppio di numerosi conflitti interni seguiti alla fine dell'equilibrio bipolare, ha per l'appunto contribuito a determinare che venissero per la prima volta tratte implicazioni concrete dal nesso tra diritti umani e pace, fino a quel momento affermato in maniera soltanto ideale e astratta.
In particolare, sulla base di un'idea di pace (e di mantenimento della pace) diversa da quella fino ad allora accolta nella prassi degli organi delle Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza e talvolta l'Assemblea generale hanno ritenuto di affidare compiti di garanzia dei diritti umani ad una serie di missioni c.d. di peace-keeping.
A questa novità, il cui significato non può essere approfondito in questa sede, se ne affianca un'altra, anch'essa di notevole importanza. Ci riferiamo alla creazione da parte del Consiglio di sicurezza (mediante l'adozione di decisioni per la verità dubbie sotto il profilo della legittimità del potere esercitato in quelle occasioni dal Consiglio stesso) dei due tribunali penali internazionali ad hoc, per la ex Iugoslavia e per il Ruanda, nonché all'istituzione della Corte penale internazionale, il cui scopo - com'è noto - è di processare gli individui accusati di gravissime violazioni dei diritti umani (quali il genocidio, i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra).
L'uno e l'altro sviluppo, l'inclusione della protezione dei diritti umani fra le attività operative delle missioni di pace delle Nazioni Unite e l'istituzione di tribunali penali internazionali, rappresentano un ulteriore elemento della cornice complessiva entro la quale va collocato il tradizionale sistema di garanzia dei diritti umani delle Nazioni Unite, essendo almeno in parte finalizzati proprio a colmare i limiti di quest'ultimo.
4. La recente riforma: il nuovo "Consiglio dei diritti umani"
a) Principali elementi di novità introdotti dalla riforma
Alla luce dunque delle caratteristiche specifiche e dei limiti intrinseci, nonché del contesto più ampio di garanzie internazionali ora richiamato[15], è più agevole dar conto, per quanto brevemente, della riforma del sistema di protezione dei diritti umani appena approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
L'ultima fase della discussione che ha portato a tale risultato ha avuto come punto di partenza le proposte contenute nel già citato rapporto intitolato A more secure world del High-level Panel on Threats, Challenges and Change[16].
La parte propositiva di tale rapporto, come si è detto, è stata criticata da più parti e non è stata seguita dal Segretario generale nel suo rapporto In a larger freedom del marzo 2005[17].
Precisamente, il Panel suggeriva di allargare la composizione della Commissione dei diritti umani a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite[18], e di affiancarla con un comitato consultivo di 15 membri a titolo individuale, con mandato triennale[19]. Fra le altre proposte vi era quella di prevedere un rapporto annuale dell'Alto Commissario, a cui si aggiungeva la richiesta di rafforzamento di questo, mettendo in luce tra l'altro l'attuale scarsità delle risorse a sua disposizione[20].
Soltanto in prospettiva, il Panel suggeriva la creazione di un Human Rights Council quale organo principale delle Nazioni Unite[21].
La proposta di riforma della Commissione ONU dei diritti umani avanzata dal Panel era in effetti discutibile per alcuni aspetti fondamentali.
In primo luogo, risultava difficilmente condivisibile l'idea che una membership estesa ai 191 Stati membri delle Nazioni Unite avrebbe potuto contribuire a sottrarre la questione dei diritti umani a quella politicizzazione eccessiva indicata come principale limite del sistema vigente.
In secondo luogo, un organo non permanente, che si riunisce per una sola sessione annuale della durata di alcune settimane (come avrebbe continuato a essere la nuova Commissione), sarebbe andata incontro alle stesse difficoltà a cui è andata incontro in passato la Commissione nell'affrontare le vere e proprie crisi dei diritti umani, che scoppiano periodicamente e che richiedono risposte tempestive. In terzo luogo, non sarebbe cambiato, nelle proposte del Panel, il rango della Commissione dei diritti umani, attualmente organo subordinato al Consiglio economico e sociale: un rafforzamento dell'azione delle Nazioni Unite per tutelare i diritti umani non può invece che passare attraverso un "upgrading" del principale organo con competenze nella materia (upgrading che il rapporto A more secure world si limitava a ipotizzare, senza tuttavia proporne una realizzazione immediata).
Nel rapporto intitolato A larger freedom, il Segretario generale Kofi Annan, sulla base della convinzione che i diritti umani debbano essere, assieme alla sicurezza e allo sviluppo, uno dei tre "pilastri" delle Nazioni Unite, ha invece proposto di creare subito, quale organo permanente delle Nazioni Unite, un Human Rights Council[22].
In tale rapporto si suggeriva in particolare che l'organo avesse una composizione più ristretta di quella dell'attuale Commissione, e che fosse composto da Stati membri eletti dall'Assemblea generale a maggioranza di due terzi.
L'organo in questione avrebbe inoltre dovuto porsi, secondo la proposta del Segretario generale, quale organo principale delle Nazioni Unite, oppure quale organo sussidiario dell'Assemblea generale, e non più del Consiglio economico e sociale[23].
L'Outcome Document approvato al termine di un'intensa fase di negoziazione dal World Summit del settembre 2005 ha per l'appunto deciso la creazione di un nuovo Human Rights Council[24], affidando al Presidente dell'Assemblea generale, lo svedese Eliasson, il compito di condurre un negoziato "with the aim of establishing the mandate, modalities, functions, size, composition, membership, working methods and procedures of the Council"[25].
Quel negoziato, che è andato incontro a non poche difficoltà, si è appena concluso con l'approvazione a larghissima maggioranza di una risoluzione dell'Assemblea generale, che accoglie il blue-print presentato da Eliasson[26]. Vediamone gli aspetti salienti.
Innanzitutto, il nuovo organo sarà un organo sussidiario dell'Assemblea generale e non del Consiglio economico e sociale.
Viene dunque a realizzarsi - almeno in buona sostanza - quell'"upgrading" visto da più parti come condizione indispensabile per rafforzare l'azione di protezione dei diritti umani delle Nazioni Unite.
I suoi 47 membri - sei in meno di quelli della Commissione - saranno eletti, ciascuno separatamente, dall'Assemblea generale a scrutinio segreto, essendo richiesta per ognuno la maggioranza assoluta (ovvero almeno 96 voti su 191). La modalità di nomina segna un distacco notevole rispetto al sistema precedentemente in uso, che vedeva i membri della Commissione, una volta conclusa la trattativa sulla composizione di questa, nominati collettivamente per acclamazione.
Il mandato dei membri del Consiglio continuerà a essere di tre anni, com'era per la Commissione. Tuttavia, mentre sino ad oggi non vi sono stati limiti alla rieleggibilità, in futuro il mandato non potrà essere rinnovato per più di una volta, portando il periodo massimo di membership del Human Rights Council a sei anni. Inoltre - e questa ci sembra essere una novità piuttosto significativa, quantomeno sulla carta - l'Assemblea generale potrà, a maggioranza qualificata di due terzi, sospendere qualunque membro della Commissione che si sia reso responsabile di violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani.
Il Council si riunirà in sessione ordinaria tre volte all'anno, per un tempo di almeno 10 settimane. Inoltre, potrà tenere sessioni speciali ogni volta che se ne ravvisi la necessità. In sostanza, viene fatto passo avanti notevole rispetto all'unica sessione annuale della Commissione dei diritti umani, anche se non si arriva a creare un organo permanente.
Infine, è previsto il mantenimento di quelli che gli osservatori considerano i principali punti di forza del sistema preesistente: le c.d. special procedures (che diventano procedure speciali del Human Rights Council), e il rapporto di collaborazione, fondato sull'istituto della status consultivo, con le organizzazioni non governative.
b) Luci e ombre della riforma: prime riflessioni
Al termine di questa sommaria illustrazione della riforma del sistema di protezione dei diritti umani delle Nazioni Unite, e tenendo conto della descrizione dei caratteri fondamentali del sistema che l'ha preceduto, quali conclusioni possono trarsi?
Una valutazione equilibrata della riforma testé approvata comporta, a nostro avviso, che si eviti di cadere nella tentazione di avere, per così dire, aspettative troppo alte. Ogni aspettativa che non tenga conto delle specificità intrinseche e ineliminabili del sistema è un'aspettativa irrealistica e, in quanto tale, destinata a essere delusa.
Ciò non comporta, evidentemente, che non possano esservi miglioramenti, anche significativi, sia pure nell'ambito di talune coordinate non modificabili. Alcuni di questi miglioramenti sono effettivamente presenti nella recente riforma.
Fra questi segnaliamo in particolare la circostanza che il nuovo Consiglio avrà un rango più elevato di quello dell'attuale Commissione nella gerarchia delle Nazioni Unite. Positiva, in secondo luogo, è la scelta di prevedere che il Human Rights Council sia di fatto in sessione permanente, in modo da potere affrontare in maniera tempestiva ed efficace le "crisi dei diritti umani" (senza per questo perdere di vista il fatto che tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, e non solo quelli in cui hanno luogo violazioni particolarmente gravi e massicce - e forse anche più visibili - dei diritti umani, devono poter essere oggetto di un'attività di controllo "di routine").
Quanto alla composizione del nuovo organo, condivisibile è stata la scelta di non aumentare la sua membership rispetto a quella della vecchia Commissione. Tuttavia, sarebbe a nostro avviso opportuno garantire nel tempo agli Stati la più ampia partecipazione possibile all'organo stesso.
In questo senso, sarebbe forse stata preferibile - rispetto alla regola della rinnovabilità del mandato per una sola volta, prevista dalla riforma - la soluzione proposta da Amnesty International di escludere del tutto la possibilità di più mandati consecutivi[27].
Ancora, è senz'altro essenziale che il nuovo organo non disperda quel patrimonio di esperienze positive che la Commissione dei diritti umani, nonostante le giuste critiche al suo operato di cui si è riferito in precedenza, ha potuto accumulare nel tempo. Fra queste si segnalano in particolare le varie special procedures, sia su paese che a tema, che dovrebbero essere mantenute e possibilmente rafforzate nel quadro dell'operare del Council, e lo status consultivo riconosciuto alle ONG, sul cui ruolo ci siamo ampiamente soffermati.
Infine, last but not least, - e a prescindere dalla precisa configurazione che avrà il nuovo sistema di organi delle Nazioni Unite con competenza in materia di protezione dei diritti umani - , la credibilità degli attuali sforzi di riforma dipende anche dalle risorse che verranno attribuite all'ufficio dell'Alto Commissario per i diritti umani, ovvero di quella parte del Segretariato dell'ONU da cui dipende, in buona misura, la quantità e la qualità dell'azione dell'organizzazione nell'ambito di cui ci occupiamo.
Se sono questi in definitiva gli elementi alla luce dei quali dovrà essere valutato il successo o l'insuccesso dell'attuale tentativo di riformare i meccanismi ONU di protezione dei diritti umani, non può tuttavia non rilevarsi come il limite congenito essenziale del sistema non sia stato affatto superato né messo in discussione dalla riforma. Ci riferiamo evidentemente alla natura "interstatale" del nuovo organo - il "Consiglio dei diritti umani" - cui risulta attribuita la competenza principale nel settore.
Senza illudersi sulle possibilità - a breve o medio termine - dell'istituzione, nel sistema ONU di tutela dei diritti umani, di organi collegiali individuali, dotati di competenze giurisdizionali o quasi-giurisdizionali (del tipo di quelle spettanti in ambito europeo alla Corte europea dei diritti dell'uomo, o - in ambito universale - al Comitato dei diritti umani, previsto dal Patto sui diritti civili e politici e dal Protocollo addizionale a tale Patto), sarebbe comunque stato auspicabile, a nostro avviso, che la riforma appena varata prevedesse un maggior ruolo per un organo collegiale composto di esperti, nominati a titolo personale e non in quanto rappresentanti dei rispettivi governi (quale in effetti è la Sottocommissione per lo sviluppo e la tutela dei diritti umani, esistente già nel sistema precedente alla riforma).
Un ruolo più incisivo avrebbe potuto ad esempio essere previsto sotto il profilo di un "potere indipendente d'iniziativa" da attribuire a un tale organo, cui facesse seguito l'obbligo per l'organo interstatale "maggiore" di esaminare le situazioni e le questioni portate alla sua attenzione dall'organo di esperti. Una simile possibilità avrebbe in parte attenuato per un verso la tradizionale e incontestabile mancanza di interesse governativo nei confronti dell'applicazione delle norme internazionali in tema di diritti umani, e - per altro verso - i rischi di un uso politicamente selettivo delle procedure previste dal sistema.
Dal momento che non è invece stato realizzato alcun progresso sotto il profilo in questione, non resta purtroppo che affidarsi per il futuro alla sensibilità e al senso di responsabilità dei governi che a turno siederanno nel Human Rights Council (oltre che - ovviamente - all'encomiabile, ma non decisiva, attività di stimolo delle ONG operanti nel settore).
In questo senso non possono che sottoscriversi, con riferimento alla recente riforma, le caute parole di commento pronunciate dal Segretario generale Annan:
"No technical fix can make all the difference ... Indeed, how different the Council is from the Commission will depend in large part on how committed Member States are to make it better, and how they act on that commitment in the weeks and months ahead"[28].
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