Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Documento aggiornato al: 1999

 
Sommario

Emerge al livello della "legge dei popoli" il nesso tra diritti umani, democrazia e pace. Il riconoscimento e la tutela dei diritti, infatti, stanno alla base degli Stati costituzionali democratici e la pace costituisce il presupposto necessario per l'effettiva protezione di tali diritti dentro le organizzazioni statali e nel sistema internazionale.

 
Indice dei contenuti
 
1. Per una moralità dei diritti umani

2. La "legge dei popoli" come idea regolativa nell'ambito delle relazioni internazionali

3. Fini e mezzi

4. Quale ingerenza nell'età dei diritti?

5. Comunità umana e responsabilità Note

Riferimenti bibliografici

 
Abstract
 

1. Per una moralità dei diritti umani

Nella nostra epoca - segnata, tra l'altro, dal trionfo della tecnica, da forme sempre più ampie di interdipendenza e dall'emersione di "particolarismi tribali" (che le vicende della "pulizia etnica" delle genti del Kosovo come pure i tanti altri conflitti in altre regioni del mondo, drammaticamente vivi ma assenti dalla "scena" dell'informazione, mostrano nei loro aspetti più orrendi) - i diritti umani si caratterizzano come struttura portante di una moralità che implica l'assunzione di una logica universalistica. Per "moralità" qui si intende l'assetto generale della pratica morale, talché i diritti umani operano come elementi legittimanti di un'etica pubblica, partecipando costitutivamente alla legittimazione delle organizzazioni gius-politiche, sia a livello nazionale che a livello internazionale. La logica universalistica richiede che la rivendicazione di un diritto è possibile solo in quanto colui che la propone la riconosca come valida, in linea di principio, per chiunque venisse a trovarsi nella medesima situazione in cui egli si trova (1).

I diritti umani rappresentano il più rilevante ed accomunante sistema di valori degli ultimi due secoli. Essi tratteggiano quegli aspetti costitutivi della dignità degli esseri umani che rimandano alle dimensioni essenziali dello sviluppo della persona, nelle sue esigenze basilari e potenzialità. Tali esigenze e potenzialità convergono con i contenuti espressi nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del dicembre 1948, dalla quale prende avvio quella pratica dei diritti che ha segnato profondamente l'esperienza giuridica (nazionale e internazionale) del nostro tempo.

La pratica dei diritti è ufficialmente costituita da una serie complessa di accordi e di patti, la cui fonte originaria è, appunto, la Dichiarazione del 1948 (2), la quale funziona da criterio normativo di misura del grado di attuazione dei diritti che la loro pratica va realizzando. Possiamo parlare, al riguardo, di un potenziale critico che i diritti umani hanno nei confronti dei modi e delle forme della loro recezione e attuazione (3).

Va ricordato, a questo proposito, che la Dichiarazione non ha una efficacia giuridica diretta, ma presenta una valenza normativa indiretta e tuttavia pervasiva, nel senso che i processi di positivizzazione ne esplicano la portata (4). Emerge, a questo livello, un elemento che contribuisce a definire la dimensione morale dei diritti umani e che si connette a quel senso di validità che li proietta al di là di tutti gli ordinamenti positivi. I diritti umani sono pretese giustificate, riguardanti tutti gli esseri umani, che richiedono atti di rispetto e di tutela. Una siffatta validità universale si pone come proprietà che tali diritti condividono con le norme morali (5), consentendo, inoltre, che il discorso ad essi relativo esibisca in anticipo "i criteri alla cui luce si possono scoprire e correggere le offese, anche latenti, alla propria pretesa" (6). I diritti umani, così, esprimono una sorta di universale etico, che presenta una tensione (irrisolta) tra irrinunciabilità e irrealizzazione (7). Una tensione che rende evidente un paradosso: alla ampia approvazione di cui essi godono nel panorama etico e politico odierno corrisponde una loro generalizzata violazione, che si nutre di violenze, distruzioni, crudeltà, morte, sfruttamento, sopraffazioni, abusi - e ciò rende quanto mai urgente il dovere di proteggerli - ma che si connette anche alle strumentalizzazioni, alle interpretazioni tendenziose, alle applicazioni parziali che ne vengono compiute

2. La "legge dei popoli" come idea regolativa nell'ambito delle relazioni internazionali

Considerando la società internazionale, i diritti umani, in quanto diritti positivi riconosciuti ufficialmente dagli ordinamenti interni e dalla comunità internazionale mediante atti giuridici appositi, svolgenti la funzione di essere condizioni necessarie per la legittimità di un regime politico e per l'accettabilità del suo ordinamento (8), partecipano alla determinazione del criterio normativo-regolativo di una legge dei popoli, che definisce i termini essenziali di una loro cooperazione equa (9).

La nozione di "legge dei popoli" è usata da John Rawls come idea regolativa, connessa al concetto di giustizia, che deve informare i principi e le norme di diritto internazionale e le sue concrete applicazioni, in modo da garantire una base comune per una convivenza a livello planetario tra soggetti (Stati e individui) liberi ed eguali. In tal senso impone restrizioni alla sovranità degli Stati e al loro diritto di agire senza condizionamenti esterni nei confronti delle persone che vivono entro i loro confini e nei confronti delle altre organizzazioni statali.

Viene individuato, così, un modello di ordine internazionale, che riguarda l'insieme dei princìpi organizzativi e delle condizioni che assicurano la convivenza regolata tra diversi soggetti e un certo grado di prevedibilità dei loro comportamenti, attraverso la realizzazione di modalità di interazione rispettose di un insieme di regole, la condivisione di certi valori e interessi e la collaborazione al funzionamento di certe istituzioni comuni (10). Assume una particolare rilevanza, in questa direzione, l'istituzione di una Corte penale internazionale, permanente e indipendente, avente competenza nei confronti dei crimini più gravi che concernono l'insieme della comunità planetaria (11).

Rawls "costruisce" la legge dei popoli come estensione dei concetti fondamentali della sua concezione della giustizia come equità (12) all'ambito della società internazionale, intesa come società politica. La legge dei popoli, infatti, identifica una famiglia di concetti politici informati a princìpi di giustizia e di bene comune che specificano il contenuto di una concezione del giusto, che opera come argomento normativo intorno alla giustificazione e valutazione della sfera pubblica a partire da premesse universalistiche, formulata in modo tale da poter essere applicata al sistema delle relazioni internazionali (13).

La legge dei popoli è il portato dell'accordo tra società bene ordinate, caratterizzate da diverse concezioni dell'ordine politico (si tratta di società - liberali e non liberali - le cui popolazioni hanno origini, culture, confessioni religiose diverse) ma che, in quanto bene ordinate, siano società pacifiche e prive di mire espansionistiche, il cui sistema giuridico soddisfi determinate condizioni che funzionino come requisito di legittimità agli occhi del popolo, tra le quali rientrano il principio di legalità e il rispetto dei diritti umani fondamentali (14). L'impegno nella procedura di costruzione della legge dei popoli implica che si esplori con altri lo spazio del "possibile politico", assumendo, in tal modo, responsabilità comuni e individuando, attraverso una considerazione riflessiva degli elementi presenti nel contesto politico-giuridico, i criteri di valutazione delle relazioni tra soggetti della comunità planetaria e delle forme istituzionali storicamente realizzate. Viene assunta, pertanto, l'idea kantiana del dovere politico di uscire dallo stato di natura (presente per molti versi ancora in ambito internazionale), sottomettendosi, insieme agli altri, al governo di una legge ragionevole e giusta (15).

Ciò richiede un mutamento delle modalità che hanno finora ispirato i rapporti tra i popoli al fine di definire uno schema mutuamente accettabile e ragionevolmente non rifiutabile che regoli la cooperazione tra società (16). In questa prospettiva l'elaborazione di una legge dei popoli si lega alla maturazione di un comune senso del giusto e dell'ingiusto politico e richiede il modellamento di istituzioni e trattamenti che minimizzino la sofferenza socialmente evitabile (con il portato di crudeltà, persecuzione, degradazione, umiliazione, esclusione che ad essa si lega), massimizzando la tutela dei diritti (17).

Si tratta, allora, in questa direzione, anche di pensare l'impossibilità della guerra, operando per la realizzazione dell'ideale cosmopolitico della pace.

3. Fini e mezzi

Da un punto di vista antropologico ed etico quello della guerra e della pace non è che un aspetto del problema più generale e radicale, nonché estremamente articolato e difficile, della violenza, dell'aggressività, della distruttività umane e della possibilità di contenerle e di inibirle (18). L'etica, pertanto, è chiamata a interrogarsi al fine di fornire gli strumenti idonei a operare una scelta per la pace, rifiutando la violenza. Si tratta, infatti, di porsi la questione della lotta contro la violenza evitando la violenza.

Nell'età della tecnica, poi, la (complessa e caotica) peculiarità dei fattori della guerra deve spingerci a concepire la pace come processo mirante non solo a prevenire l'uso delle armi, ma anche a implementare i presupposti reali di una rilassata convivenza tra popoli e gruppi (19), nella direzione di un impegno a sviluppare forme di comunicazione fra esseri umani che condividono un mondo. I diritti umani, da questo punto di vista, rappresentano delle risorse normative indispensabili.

Oggi assistiamo alla trasformazione della tecnica da "mezzo" a "fine" (20). La tecnica aumenta quantitativamente al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine e ciò determina un mutamento dello scenario. Non è più il fine a condizionare la ricerca e l'uso dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che tramite loro può essere raggiunto. Allora, se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per la realizzazione di qualsiasi fine, che non può essere raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il "vero fine" che tutto subordina a sé. L'esito di tale processo è la assoluta subordinazione dell'agire al fare. All'agire, come scelta dei fini su cui tutte le etiche dall'inizio della storia si sono costruite, subentra il fare, come mera produzione di risultati che procedono come esecuzione (più o meno riuscita!) di operazioni tecniche. L'autonomizzazione dei mezzi, pertanto, conduce al cambiamento della natura stessa dei fini e ciò non può non incidere pesantemente in ogni riflessione sulla guerra.

Nell'età della tecnica, insomma, è non è ammissibile pensare ad un uso giustificato della guerra, compreso quello che la vede come strumento di riparazione dei diritti violati. Altre sono le vie da percorrere.

Qui gioca un ruolo fondamentale la presa di posizione etica per la giustizia contro la violenza, per il diritto (come modalità volta a risolvere i conflitti e a creare contesti d'ordine e di sicurezza in cui la pace possa attuarsi) contro il torto.

4. Quale ingerenza nell'età dei diritti?

Tornando alle coordinate teoriche fornite da Rawls, la questione riguarda, in buona misura, la presenza di "regimi fuorilegge" (21), ossia di Stati, retti da élites tiranniche e criminali, che usano l'oppressione e il terrore. Che fare in questi casi?

Sicuramente il fatto di avere di fronte despoti responsabili di delitti atroci non può portare a languire nella non resistenza al male e nell'inazione. Ma ciò non autorizza all'uso di qualsiasi mezzo e all'indifferenza per le regole del diritto. L'accento sempre più forte sui diritti umani e sulla impossibilità di considerare le frontiere nazionali come un ostacolo alla loro protezione è all'origine di alcuni tra i più significativi mutamenti che stanno caratterizzando il sistema delle relazioni internazionali. In discussione è il divieto di non ingerenza, corollario del principio di sovranità (22). Però il diritto d'ingerenza, al fine di proteggere esseri umani, i cui diritti fondamentali vengono orrendamente violati, non può essere considerato una licenza indiscriminata di intervento. Il proclamare un diritto pone il problema di chi ne sia il titolare, di chi lo possa esercitare legittimamente (23).

Qui viene in rilievo la questione delle forme organizzative di un mondo che prenda sul serio, superando la retorica della mera proclamazione, la moralità e la pratica dei diritti, prestando particolare attenzione agli strumenti istituzionali idonei ad arginare la violenza, le sopraffazioni, le prepotenze, sicché sia data nuova consistenza alla pace, alla sicurezza, alla dissuasione.

Riconosciuto che le forme di garanzia internazionale dei diritti oggi più progredite operano là dove sono più progredite le garanzie nazionali (ossia negli Stati di diritto): là dove, cioè, a rigore ce ne sarebbe meno bisogno; e che i soggetti che avrebbero più bisogno della protezione internazionale sono i cittadini degli Stati non di diritto, contrari ad accettare quelle trasformazioni della comunità internazionale che dovrebbero consentire il funzionamento di una piena garanzia giuridica dei diritti umani (24), l'obiettivo è quello di porre in essere politiche pubbliche ad hoc, affermando il collegamento tra diritti umani, democrazia e pace.

Il riconoscimento e la tutela dei diritti, infatti, stanno alla base degli Stati costituzionali democratici e la pace è il presupposto necessario per l'effettiva protezione di tali diritti dentro le organizzazioni statali e nel sistema internazionale (25). Senza diritti riconosciuti e protetti non c'è democrazia. Essi sono, così, "il presupposto necessario per il corretto funzionamento degli stessi meccanismi prevalentemente procedurali che caratterizzano un regime democratico" (26). Senza democrazia, d'altra parte, "non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi e tra quelle grandi collettività tradizionalmente indocili e tendenzialmente autocratiche che sono gli Stati, anche se sono democratiche coi propri cittadini" (27).

Il problema riguarda la transizione internazionale alla democrazia, nella consapevolezza che quella democratica è la forma di Stato che rappresenta, appunto, la condizione necessaria, benché non sufficiente, per l'affermazione dei diritti umani, risultando ovvio che l'ambiente nel quale essi possono estrinsecarsi debba essere pacifico (28). Si tratta, allora, di far funzionare le tecniche di condizionamento, di pressione e di intervento non violento al fine di modificare la situazione interna degli Stati "fuorilegge", in una direzione che incrementi la partecipazione democratica, l'indipendenza economica, il rispetto dei diritti, la tolleranza culturale. Ciò è possibile anche perché queste strategie poggiano sul fatto che le reti della globalizzazione rendono ormai dipendenti dall'ambiente esterno tutti gli Stati, assoggettandoli al potere "soft" delle influenze dirette e indirette (29) (attraverso l'applicazione di sanzioni e/o l'attuazione di forme di assistenza socio-economica, che esigono come contropartita controlli sull'utilizzazione delle risorse e sul funzionamento delle agenzie incaricate della loro gestione: controllo esercitati anche da organizzazioni non governative). Va sottolineato, al riguardo, che l'interdipendenza tesse una fitta rete di rapporti che legano popoli e culture tra loro. In questa prospettiva assumono rilievo la società civile e l'opinione pubblica internazionale. Ed anche nel rafforzamento di questa società civile planetaria sono riposte le speranze di un superamento della logica della sovranità statale, nel senso di un ripensamento profondo dell'assetto tradizionale del diritto internazionale e del rapporto tra società e politica (30). In questo quadro, i processi di globalizzazione interessano i diritti umani è richiedono un agire cooperativo, che dà un precipuo significato alla formulazione kantiana secondo cui "la violazione del diritto avvenuta in un punto< /I> della terra è avvertita in tutti i punti" (31).

Invero, una siffatta strategia, che implica il dovere di difesa delle persone innocenti soggette ai regimi fuorilegge e di salvaguardia delle loro vite e della loro sicurezza messe in grave pericolo, non può escludere il ricorso alla forza. Esso, però, richiede un uso della forza, compiuto da forze armate neutrali di pronto intervento e ispirate a motivazioni imparziali, di tipo "poliziesco", cioè misurato e proporzionato (32): interventi posti in essere con misura, operando in maniera equilibrata e precisa, secondo misura, in base a regole obiettive e prefissate; a fini di misura, per introdurre un ordine precedentemente carente. La mancanza di una sola di queste dimensioni rende, infatti, l'atto di forza aperto alla violenza (33). Si tratta, perciò, di essere coscienti dei limiti che tali interventi non devono oltrepassare, distinguendo tra i governanti e i funzionari dello Stato "fuorilegge", responsabili delle comportamenti criminosi, e la popolazione civile, spesso mantenuta nell'ignoranza e influenzata dalla propaganda di Stato (34).

Un intervento "poliziesco", inoltre, deve rispettare i diritti umani dei membri della parte avversa, sia civili che militari. In nome dei diritti non vanno calpestati altri diritti e ciò per (almeno) due motivi: perché tutti sono titolari di tali diritti in quanto esseri umani e perché il contenuto di questi diritti va insegnato ai militari e ai civili dello Stato contro cui si interviene tramite l'esempio dato con il proprio comportamento. E' questo il modo migliore per far comprendere il significato dei diritti e per adombrare, anche durante le azioni militari, la pace (35). Il modo di operare nel corso di interventi armati, infatti, rimangono nella memoria storica dei popoli e possono porre le premesse per conflitti futuri.

5. Comunità umana e responsabilità

Ai diritti umani è ragionevole guardare come all'ultima manifestazione di un'etica universale, che fa emergere, in modo emblematico, l'esigenza della responsabilità degli individui in quanto membri di una comunità di linguaggio e di cooperazione di estensione mondiale. Questa si pone come condizione di pensabilità di tutte le istituzioni e i sistemi sociali, costituendo qualcosa come una sorta di metaistituzione primaria, che sta alla base di tutte le istituzioni ipotizzabili (36) e che, per molti versi, trova espressione normativa nella "legge dei popoli", in quanto schema dei princìpi giustificativi dell'ordine internazionale che specificano i termini equi dei rapporti tra soggetti individuali e collettivi, governando gli atteggiamenti reciproci e i comportamenti concreti.

Uno dei fenomeni che nelle odierne società - a livello nazionale e internazionale - può essere considerato manifestazione della ricerca di una siffatta metaistituzione è la pratica dei diritti umani.

Tale pratica, nella sua irrinunciabilità, si sviluppa attraverso forme di positivizzazione e concretizzazione giuridica articolate, che si basano sul metodo del bilanciamento dei valori, giustificate dall'esigenza di connettere l'istanza universalistica propria dei diritti con le peculiari situazioni e gli specifici contesti istituzionali. Ma essa è di continuo messa in discussione e si mostra largamente irrealizzata in un processo non lineare, interrotto da imbarbarimenti, ristagni, silenzi, sconfitte. Richiede, dunque, impegno, vigilanza, capacità progettuale, iniziativa, nella consapevolezza che entro questo orizzonte vanno cercate le risposte relative al modo di vivere vite umane nello spazio che il nostro pianeta ci concede.

Note

1. Cfr. F. D'Agostino, Irrinunciabilità e irrealizzazione dei diritti dell'uomo, in "Archivio giuridico", CCVIII, 1988, p. 103.

2. E non va dimenticato lo stretto legame che intercorre tra la Dichiarazione e la Carta delle Nazioni Unite del giugno 1945. Si vedano, ad esempio, l'art. 55 della Carta ("Al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni, basati sul rispetto del principio dell'uguaglianza dei diritti o dell'autodecisione dei popoli, le Nazioni Unite promuoveranno... il rispetto e l'osservanza universale dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione") e l'art. 28 della Dichiarazione universale ("Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati").

3. F. Viola, Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo ai Patti internazionali. Riflessioni sulla pratica giuridica dei diritti, in "Ragion pratica", 11, 1998, p. 45.

4. C. Zanghì, Protezione internazionale dei diritti dell'uomo, in "Digesto delle discipline pubblicistiche", XII, Utet, Torino, 1997, pp. 154-156.

5. Cfr. J. Habermas, L'idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo, in Id., L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 202 ss.

6. Così J. Habermas, Legittimazione tramite diritti umani, in Id., L'inclusione dell'altro, cit., p. 223. Cfr. anche M. J. Perry, The Idea of Human Rights. Four Inquiries, Oxford University Press, New York - Oxford, 1998, pp. 6, 43 ss.

7. D'Agostino, Irrinunciabilità e irrealizzazione dei diritti dell'uomo, cit., pp. 98-102.

8. Cfr. L. Henkin, The Age of Rights, Columbia University Press, New York, 1990, pp. 31-41.

9. J. Rawls, La legge dei popoli, in S. Shute e S. Hurley (a cura di), I diritti umani. Oxford Amnesty Lectures 1993, Garzanti, Milano, 1994, pp. 54-97.

10. Cfr. F. Carassini, L'ordine internazionale: modelli a confronto, in "Quaderni di scienza politica", VI, n. 1, 1999, pp. 160, 164-166, 169. Si veda inoltre L. Bonanate, I doveri degli Stati, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 178 ss., 197 ss.

11. Si tratta, come recita l'art. 5 dello Statuto della Corte, adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma il 17 luglio 1998, del crimine di genocidio, dei crimini contro l'umanità, dei crimini di guerra e del crimine di aggressione. Lo Statuto, che entrerà in vigore quando sarà ratificato da (almeno) sessanta Stati, può essere letto, nella versione originale inglese, sulla "Rivista di diritto internazionale", LXXXII, 1999, p. 229 ss. Una versione non ufficiale in lingua italiana si trova nella "Rivista di studi politici internazionali", LXVI, 199, p. 25 ss.

12. Il riferimento va qui a A Theory of Justice del 1971; trad. it. Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano, 1982. Di Rawls si veda anche Liberalismo politico, a cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Milano, 1994, in particolare pp. 23 ss., 89 ss., 123 ss. Rawls adotta una procedura costruttivista di formulazione dei princìpi di giustizia. Essa ha a che fare con la capacità della teoria (morale e politica) di elaborare una struttura di deliberazione basata sulle facoltà di riflessione e di giudizio sviluppate entro una cultura pubblica condivisa. Il costruttivismo riguarda, pertanto, "la possibilità di convenire razionalmente su una procedura di costruzione dei princìpi di giustizia, per cui non esistono ragioni di giustizia indipendentemente dai princìpi che risultino dalla procedura di costruzione". Cfr. F. Miucci, Liberalismo politico e diritti fondamentali. Una ricostruzione del pensiero politico di John Rawls, in "Democrazia e diritto", XXXVI, n. 2-3, 1996, p. 83.

13. Rawls, La legge dei popoli, cit., p. 64.

14. Rawls, La legge dei popoli, cit., p. 55.

15. Cfr. Rawls, La legge dei popoli, cit., p. 88. Si veda al riguardo I. Kant, Metafisica dei costumi. Princìpi metafisici della dottrina del diritto (1797), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tradotti da G. Solari e G. Vidari, edizione postuma a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Utet, Torino, 1956, pp. 541-542 (§ 60 e § 61).

16. Cfr. S. Veca, Dell'incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Feltrinelli, Milano, 1997, pp. 245-247.

17. Veca, Dell'incertezza, cit., p. 235-236.

18. Cfr. F. Bonsignori, Diritto, valori, responsabilità, Giappichelli, Torino, 1997, p. 17 ss.

19. Habermas, L'idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo, cit., p. 198

20. Per quanto segue utilizzo, in parte, le riflessioni svolte da U. Galimberti, Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999, in particolare pp. 37, 39, 339-342, 457 ss.

21. Rawls, La legge dei popoli, cit., pp. 86 ss., 93 ss.

22. Sulle vicende parallele ed opposte della sovranità, almeno a partire dalla rivoluzione francese (quella di una sua progressiva limitazione interna, sul piano del diritto statale, e quella di una s
ua progressiva assolutizzazione esterna, sul piano del diritto internazionale), nonché sulla crisi odierna della sovranità, la cui fine è sanzionata, sul piano del diritto internazionale, dalla Carta dell'Onu del 1945 e poi dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, cfr. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 29 ss., 39 ss.

23. Cfr. S. Rodotà, La logica della forza e le leggi della pace, in "La Repubblica", 18 maggio 1999, p. 12.

24. E' quanto sottolinea N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino, 1992, p. 38.

25. Bobbio, L'età dei diritti, cit., pp. VII-VIII, 258-259.

26. N. Bobbio, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi, Torino, 1984, p. 6.

27. Così Bobbio, L'età dei diritti, cit., pp. 258-259.

28. Cfr. L. Bonanate, Internazionalizzare la democrazia dei diritti umani, in "Teoria politica", XIV, n. 2, 1998, p. 50 ss.

29. Habermas, L'idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo, cit., p. 198.

30. Viola, Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo ai Patti internazionali. Riflessioni sulla pratica giuridica dei diritti, cit., pp. 56-57.

31. I. Kant, Per la pace perpetua (1795), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit., p. 305.

32. Cfr. J. Habermas, Dopo l'utopia. Intervista raccolta da M. Haller, edizione italiana a cura di W. Privitera, Marsilio, Venezia, 1992, pp. 12-14, 22.

33. Si veda, in generale, S. Cotta, Perché la violenza? Una interpretazione filosofica, Japadre Editore, L'Aquila, 1978, p. 75 ss.

34. Cfr. J. Rawls, Hiroshima cinquant'anni dopo. Perché non dovevamo, in Id., Hiroshima, non dovevamo, a cura di N. Urbinati, I libri di Reset, Donzelli, Roma, 1995, pp. 20-21.

35. Rawls, Hiroshima cinquant'anni dopo. Perché non dovevamo, cit., pp. 21-22.

36. In tal senso K.-O. Apel, La crisi ecologica quale problema dell'etica del discorso, in S. Dellavalle (a cura di), Per un agire ecologico. Percorso di lettura attraverso le proposte dell'etica ambientalista, Baldini & Castoldi, Milano, 1998, p. 348.

 
Bibliografia
 

- L. Bonanate, Internazionalizzare la democrazia dei diritti umani, in "Teoria politica", XIV, n. 2, 1998, pp. 49-60.

- J. Habermas, L'idea kantiana della pace perpetua, dieci secoli dopo e Legittimazione tramite diritti umani, in Id., L'inclusione dell'altro. Studi di teorici, politica, a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 177-232.

- J. Rawls, La legge dei popoli, in S. Shute e S. Hurley (a cura di), I diritti umani, Oxford Amnesty Lectures 1993, Garzanti, Milano, 1994, pp. 54-97.