Fra ordinamenti interni ed ordinamento internazionale o di organizzazioni internazionali sussiste sempre più un rapporto di reciproco interscambio, con circolazione di modelli ed istituti oltre che con diretta o indiretta applicabilità di norme giuridiche. Il che costituisce ormai regola indiscussa in alcuni campi, come nella disciplina degli scambi commerciali, ma si sta diffondendo anche in materie, in specie quella penalistica, un tempo assai meno permeabili a influenze esterne .
Nel campo penale questo si è tradotto innanzitutto nella ricezione , da parte degli ordinamenti interni, di quelle fattispecie di reati, ancora poco numerose, tipicizzate a livello internazionale: soprattutto i crimini di guerra -quantomeno fin dalla fine del XIX secolo- il genocidio ed i crimini contro l'umanità in tempi più recenti . Basti far riferimento al titolo "crimini contro l'umanità", artt. 211 e seguenti, introdotto nell'attuale codice penale francese, o al delitto di genocidio previsto dall'art. 607 del codice penale spagnolo . Nonché con l'applicazione quantomeno di alcuni principi, come quello dell'imprescrittibilità, o con l'interpretazione di alcuni elementi costitutivi del precetto, come lo stato di guerra, quali portati del diritto internazionale impiegati nella valutazione di fatti criminosi sussunti in fattispecie penali interne .
Ma si è anche parallelamente manifestato con l'impiego diretto o indiretto di modelli o di istituti sviluppati in altri ordinamenti. Indiretto quando si creano norme giuridiche ispirate a disposizioni altrove vigenti; diretto quando si colmano lacune di un sistema giuridico con il richiamo e la valutazione comparatistica di principi generali di altri ordinamenti.
Il diritto internazionale penale sta percorrendo quest'ultima via con un'ampiezza, imposta dalle esigenze della sua rapida crescita, che non ha molti precedenti -in parte solo quello dello sviluppo giurisprudenziale del diritto comunitario-, e che risulta ora in certa misura canonizzata dal disposto dell'art. 21 dello Statuto della Corte penale internazionale , con il suo riferimento ai "principi generali di diritto ricavati dalla Corte in base alla normativa interna dei sistemi giuridici dei mondo" , come fonte terziaria del diritto applicabile dalla Corte .
Nulla di nuovo, sotto certi versi: i "principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili" sono fonte del diritto internazionale riconosciuta dall'art. 38 lett. c) dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia , e già in base all'art. 15 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici di New York del 16 dicembre 1966 , nonché dall'art. 7 n. 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 , su tali principi risulta possibile fondare sinanche la sussistenza di fattispecie di crimine internazionale non altrimenti previste .
Ma nuova è l'ampiezza del loro utilizzo da parte dei costituiti e costituendi Tribunali penali internazionali, con un correlato esteso utilizzo della comparazione fra diritti penali .
Da tale largo impiego dei "principi generali di diritto" conseguono prospettive prima improbabili, come la possibilità che norme internazionali desunte dagli ordinamenti interni vengano poi a poter trovare applicazione anche negli ordinamenti interni in deroga a quelle esistenti con essi contrastanti, quantomeno in ordinamenti, come quello italiano, che prevedono un adattamento automatico con rango di norme costituzionali ad ogni norma generale di diritto internazionale.
Tramite l'art. 10 della nostra Costituzione, che introduce un principio di adattamento automatico, le norme internazionali generalmente riconosciute, fra cui rientrano i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, debbono infatti essere osservate anche all'interno del nostro ordinamento, con la conseguente illegittimità costituzionale di eventuali disposizioni legislative interne contrastanti. Il punto appare indiscusso, e la Corte Costituzionale ha avuto modo di confermarlo con riferimento ai "principi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili" .
Il tema delle cause di giustificazione ci pare emblematico delle prospettive e delle problematiche legate al largo impiego dei principi generali desunti dalle normative interne .
Nell'ordinamento internazionale le cause di giustificazione, le circostanze escludenti l'illiceità, sono istituto ben conosciuto con riferimento alla responsabilità degli Stati e delle organizzazioni internazionali per fatto illecito. Sul punto il diritto internazionale è largamente debitore degli istituti corrispondenti degli ordinamenti interni concernenti la responsabilità civile.
Un compiuto tentativo di codificazione delle stesse è stato operato con i lavori della Commissione del diritto internazionale, iniziati sin dal 1955 , che hanno portato sinora al "progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati" approvato in prima lettura nel 1996, nel corso della quarantottesima sessione della Commissione, che agli articoli da 29 a 34 elenca e definisce il consenso , le contromisure avverso un atto illecito, la forza maggiore, il caso fortuito, il "distress" , lo stato di necessità e la forza maggiore come circostanze escludenti l'illiceità.
Con l'istituzione di tribunali penali internazionali e con la necessità di sottoporre a giudizio singole persone fisiche, pur a fronte di una perdurante incertezza sulla soggettività giuridica degli individui nel diritto internazionale , si è posto il problema dell'applicabilità nell'ordinamento internazionale di scriminanti maggiormente rapportate a quelle proprie degli ordinamenti penali interni.
Nello Statuto del Tribunale di Norimberga, allegato all'accordo di Londra dell'8 agosto 1945 , non trovò posto un'elencazione delle cause di giustificazione applicabili, ma solo l'esclusione di un valore scriminante di determinate circostanze. Dopo aver enumerato all'art. 6 i delitti sui quali il Tribunale avrebbe avuto giurisdizione, viene precisato all'art. 7 che "La posizione ufficiale occupata dagli imputati, sia come capi di Stato, sia come ministri o capi di dipartimenti governativi, non costituirà giustificazione o attenuante alla responsabilità legale degli imputati stessi" . L'art. 8 poi recita "Il fatto che un imputato abbia agito in ossequio a ordini del proprio governo o di un proprio superiore non libererà l'imputato medesimo dalla responsabilità penale, ma potrà costituire attenuante all'atto della comminazione delle pene che il Tribunale riterrà di infliggere all'imputato medesimo". Null'altro, e poiché al collegio giudicante non era conferito un potere latu sensu normativo, se non in materia procedurale ai sensi dell'art. 13 dello Statuto, può desumersi che le scriminanti s'intendessero derivabili dai principi generali degli ordinamenti giuridici interni.
Il problema peraltro non pare essersi presentato ai giudici di Norimberga. A parte la questione dell'esecuzione di ordini superiori, che come detto trovava già regolamentazione espressa nello Statuto del Tribunale, l'unica altra causa di giustificazione invocata, in senso lato, risultò essere la c.d. eccezione del "tu quoque", ovvero l'argomento secondo il quale una data condotta illecita non sarebbe punibile se tenuta in termini analoghi o deteriori dagli altri contrapposti belligeranti. Nella motivazione della sentenza non si ha una precisa argomentazione giuridica al riguardo, ma quantomeno nella valutazione della condotta della guerra marina da parte dell'ammiraglio Doenitz pare che il Tribunale, almeno indirettamente, ne abbia tenuto conto , anche sulla base della testimonianza resa dall'ammiraglio Nimitz sulla condotta tenuta dagli Alleati nella guerra marina, non considerando tuttavia come applicabile tale principio, ma giungendo ad una interpretazioni delle norme vigenti sostenuta dal comportamento delle parti nella prassi bellica -in pratica un'indiretta applicazione del principio del "tu quoque"-.
I vari tribunali "interni" che hanno giudicato criminali di guerra del secondo conflitto mondiale applicando regole del diritto internazionale, come i Tribunali penali militari americani in Norimberga , hanno affrontato più volte soprattutto la questione dello stato di necessità sub specie dell'eventuale pericolo di vita derivante da altrui violenza o minaccia legato all'inosservanza di un ordine ricevuto, escludendone un valore scriminante .
Nulla di specifico è riportato nemmeno negli statuti dei Tribunali ad hoc per l'ex Yugoslavia e per il Ruanda . L'art. 7 dello Statuto del ICTY e l'art. 6 dello Statuto ICTR fanno un generico riferimento alla "responsabilità penale personale", e si preoccupano esclusivamente di escludere il valore scriminante di due determinate circostanze, ovvero delle funzioni di governo esercitate dalla persona accusata e dell'aver agito in esecuzione di ordini ricevuti, quest'ultima circostanza viene invece prevista come possibile attenuante della pena.
Anche in questo caso pertanto si è data evidentemente come scontata la desumibilità delle cause di giustificazione dai principi generali del diritto .
Ed i Tribunali ad hoc ne hanno in effetti fatto ampio uso: molti sono ormai i casi che si possono portare ad esempio. Nel caso Erdemovic è stata affrontata la configurazione della scriminante dello stato di necessità derivante da altrui minacce , ridiscutendo sotto questo profilo anche la questione dell'esecuzione dell'ordine del superiore, esaminata anche in molti altri procedimenti, sin dal caso Tadic , e si è fatto riferimento anche alla legittima difesa. La questione dello "stato di necessità" è stata affrontata anche nel caso Aleksovski . Nel caso Kupreskic è stato escluso ogni valore scriminante al principio del "tu quoque" .
In tutti questi casi il giudizio del Tribunale si è in larga misura fondato su "principi generali del diritto" desunti dagli ordinamenti statali interni.
Nello Statuto della Corte penale internazionale, aperto alla sottoscrizione degli Stati in Roma il 17 luglio 1998, viene per la prima volta introdotta una disciplina espressa di "principi generali del diritto penale" internazionale, nel capitolo III, ed ivi l'art. 31 regola esplicitamente i "Motivi di esclusione della responsabilità penale" . L'elenco di detti motivi appare piuttosto eterogeneo, corrispondendo d'altronde all'altrettanto eterogenea categoria delle "defences" nei sistemi giuridici anglosassoni , comunque comprende fra l'altro una specifica, e sotto vari aspetti originale, previsione e definizione delle scriminanti della legittima difesa e dello stato di necessità .
In ogni caso si tratta di un elenco non esaustivo: con una formula di chiusura contenuta nel comma terzo viene prevista la possibilità per la Corte di tenere conto di altre cause di esclusione della responsabilità penale, se discendono "dal diritto applicabile enunciato all'art. 21".
L'art. 33 disciplina a parte invece la materia degli "Ordini del superiore gerarchico e ordini di legge" : da un lato è rilevante che la norma contempli una disciplina non ristretta alle gerarchie militari, ma prevista in termini generali, comprensiva degli "ordini" impartiti da un superiore civile; dall'altro è notevole che -contrariamente alle previsioni dello Statuto del Tribunale di Norimberga, dell'ICTY e dell'ICTR- vengano previsti casi in cui l'ordine del superiore ha valore giustificativo della condotta del suo esecutore .
Nel complesso l'insieme delle fonti del diritto internazionale in materia di cause di giustificazione delinea un quadro tracciato su poche linee portanti di norme pattizie - non sempre fra loro omogenee - e di consolidamento di disposizioni consuetudinarie, con un ampio spazio riservato ai principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, con la conseguente attribuzione alla giurisprudenza internazionale di una funzione inevitabilmente primaria e di fatto creatrice di diritto. Il che porta ad interessanti risvolti dal punto di vista del nostro ordinamento interno.
Un caso fra tutti, la problematica del valore esimente dell'ordine del supeiore . L'art. 40 del nostro c.p.m.p. escludeva la penale responsabilità del militare che avesse agito in esecuzione di un ordine del superiore; l'intervenuta abrogazione ad opera dell'art. 22 della l. 11 luglio 1978 n. 382 rende ora sempre applicabile la disciplina dettata dall'art. 51 c.p. che, come noto, prevede comunque casi -sia pur residuali- di giustificazione derivante dall'obbedienza all'ordine del superiore. Gli Statuti dell'ICTY e dell'ICTR invece escludono radicalmente tale possibilità , e la prassi giurisprudenziale di tali tribunali va nello stesso senso, appoggiandosi ai principi generali di diritto. In caso di esercizio, da parte di un Tribunale italiano, di giurisdizione per fatti giudicabili anche dai Tribunali internazionali ad hoc si potrebbe innanzitutto porre un problema di rispetto di obblighi internazionali. Ma si tratterebbe di una questione abbastanza marginale. Sotto un'altra prospettiva invece se si ritiene che la norma che esclude ogni valore scriminante all'ordine del superiore costituisca fonte del diritto internazionale come "principio generale di diritto riconosciuto dalle nazioni civili", allora la stessa risulta automaticamente vigente nel nostro ordinamento, col rango di norma costituzionale, in virtù dell'art. 10 della Costituzione, con la conseguenza che sarebbe in generale prospettabile un'eccezione di incostituzionalità dell'art. 51 c.p..
Problemi analoghi si potrebbero prospettare sotto molti altri profili: si confronti l'art. 31 dello Statuto della CPI con gli artt. 52 e 54 c.p., in tema di legittima difesa e stato di necessità, e con gli artt. 92 e 93 c.p., in tema di valore escludente dell'imputabilità dell'ubriachezza e dell'azione di sostanze stupefacenti: la differenza di disciplina è tutt'altro che indifferente. Se la definizione di tali istituti dettata dalle fonti internazionali risultasse qualificabile, anche in virtù della prassi giurisprudenziale dei tribunali penali internazionali, come espressione di "principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili", potrebbero legittimamente avanzarsi, in generale, dubbi di incostituzionalità delle disposizioni del nostro ordinamento con queste contrastanti.
D'altronde non va dimenticato che, sussistendo un principio di complementarietà e di concorrenza fra giurisdizioni penali interne e giurisdizioni penali internazionali, sia pur con una primazia di queste ultime , uno stesso fatto potrà essere giudicato dalle une o dalle altre, e nella più parte dei casi perdurerà di regola il giudizio di organi interni, che applicheranno peraltro fattispecie regolate da norme internazionali, e apparirebbe quindi palesemente ingiusto che il fatto in causa risultasse scriminato per l'ordinamento internazionale e non scriminato per l'ordinamento interno, con la conseguenza che circostanze episodiche e discrezionali potrebbero portare ad una assoluzione o ad una condanna.
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