Conclusione
A conclusione del presente lavoro, prima di delineare gli scenari futuri e di formulare qualche auspicio, vorrei soffermarmi su una questione, a mio avviso, di importanza centrale nell'economia di queste mie riflessioni.
Un elemento molto importante sta nel fatto che l'intervento armato umanitario, per quanto connotato da più o meno congrue giustificazioni umanitarie, rappresenta pur sempre un atto di forza armato che, per quanto non lo si voglia chiamare guerra, segna comunque l'affermazione di una logica antitetica a quella del diritto.
Tale logica, applicata in maniera estensiva, sembra rappresentare la sconfitta, la morte del diritto, ridotto ad un "arido insieme di norme superate dai tempi" , a vantaggi odi una visione del mondo ove la non riformabilità del Consiglio di Sicurezza ONU rende inevitabile agire praeter legem o più esplicitamente contra legem.
A mio modo di vedere, per quanto a volte l'analisi attenta della realtà suggerirebbe il pessimismo più profondo, è invece necessario il massimo impegno per migliorare l'attuale diritto positivo per renderlo il più aderente possibile ad un contesto internazionale che, ciò è fuor di dubbio, non è più quello di sessanta anni fa.
Se le Nazioni Unite, ed in particolare il Consiglio di Sicurezza, hanno sofferto per oltre cinquant'anni di scarsa rappresentatività e democraticità da una parte e di immobilismo dall'altra, la soluzione migliore non sembra certo quella di affidarsi a soluzioni ancora meno democratiche, sebbene caratterizzate da un maggior decisionismo.
In altri termini, organizzazioni regionali come la NATO, rappresentando comunque una visione parziale del mondo, essenzialmente quella dei paesi ricchi e militarmente più forti, non sembrano garantire quella imparzialità di giudizio necessaria per agire sullo scacchiere internazionale come garante della pace e della sicurezza internazionale e, men che meno, della tutela dei diritti umani.
Del resto nel "Nuovo concetto strategico" dell'alleanza atlantica, i diritti umani sono soltanto uno dei motivi che possono determinare l'intervento dell'alleanza, e sembrano passare in second'ordine rispetto alla difesa di "valori ed interessi comuni" dell'alleanza stessa.
Perciò l'unica strada sembra quella di andare oltre cinquanta- sessanta anni di veti incrociati e di gestione oligarchica dell'ONU e tentare la strada di una vera e radicale riforma del Consiglio di Sicurezza.
In primo luogo si dovrebbe tendere all'eliminazione, più o meno graduale, del diritto di veto attribuito ai membri permanenti d'altra parte andrebbe modificata la stessa composizione del CDS, in modo da garantire una maggiore e eguale rappresentatività delle varie zone del pianeta.
Soltanto questo sembra il modo di uscire da una logica "neo-colonialista" che rischia di continuare a guidare le politiche e le azioni in tema di pace e sicurezza internazionale.
Il problema di fondo, a tutt'oggi irrisolto, appare quello di far restare (o rientrare) i poteri decisionali relativi a questioni così importanti come l'uso della forza nel contesto internazionale, in capo ad organismi universali come l'ONU per ridurre (evitare sarebbe impossibile) il rischio, sempre attuale, di un uso strumentale di argomenti umanitari per perseguire finalità che poco o nulla hanno a che vedere con il destino delle popolazioni civili colpite da questa o quella tragedia umanitaria.
Non sembra perciò accettabile di chi, vista l'impasse in cui il CDS spesso si trova, ritiene giusto avallare operazioni non autorizzate dallo stesso Consiglio, sostenendo che non si può restare immobili dinanzi a gravi violazioni del diritto internazionale e, in particolare, dei diritti umani. Oltre alla necessità della riforma dell'ONU, che come detto deve avere un ruolo centrale in uno scenario futuro auspicabile, primaria importanza sembra averla anche l'embrione di giustizia penale internazionale, concepito nel 1998 a Roma, con l'approvazione dello Statuto della Corte Penale Internazionale.
Ferme restando le riserve su una giustizia internazionale cui non corrisponde un impianto internazionale che somigli ad un governo mondiale, non ci si può che rallegrare di fronte al tentativo di ricondurre le sanzioni per le più gravi violazioni dei diritti umani (Genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra e, in futuro aggressione) nell'alveo del diritto, piuttosto che in quello della guerra, o intervento armato che dir si voglia.
Del resto tra gli oppositori (talvolta sabotatori) della nascente CPI vi sono sia stati campioni nella violazioni dei diritti umani, come la Cina e Israele, sia stati che propugnano, anche se non indistintamente, la dottrina dell'intervento umanitario, come gli Stati Uniti d'America.
Ciò non fa altro che rafforzare l'idea della portata potenzialmente molto innovativa di una vera giustizia penale internazionale, pur nella consapevolezza dei mille ostacoli che tale progetto continuerà ad incontrare.
Inoltre le caratteristiche universali della Corte Penale Internazionale mostrano anche, in maniera evidente, i limiti, la parzialità e sovente la strumentalità di interventi "umanitari" concepiti e portati avanti da uno o più stati o organizzazioni regionali.
Al di sopra di tutto ciò resta la convinzione, per tornare al titolo di questo lavoro, che da una parte i diritti umani non devono soccombere di fronte a pretestuose affermazioni di diritti sovrani legati al concetto di domestic jurisdiction, e che dall'altra è quanto meno auspicabile che al potere sovrano degli Stati non si sostituiscano nuove forme di colonialismo, più o meno mascherato, nelle quali i diritti umani siano, per l'ennesima volta, l'asso nella manica per giustificare interventi che rispondono in realtà a logiche ... di sovranità, legate cioè ad interessi nazionali e che, in ultima analisi, determinano spesso violazioni proprio di quei diritti umani che si pretende di voler tutelare.
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