Introduzione
A seguito della fine della guerra fredda il sistema di mantenimento della pace delle Nazioni Unite fu oggetto di una maggiore attenzione da parte della comunità internazionale: la prima riforma delle operazioni di pace compiuta dal Segretario Generale Boutros Ghali fu insieme una conseguenza diretta della necessità di adeguare gli strumenti delle Nazioni Unite alle nuove sfide e del clima di ottimismo e di fiducia creatosi nella comunità internazionale alla fine del conflitto bipolare.
Il ruolo degli Stati Uniti, potenza superstite o vincitrice della guerra fredda, fu determinante nella promozione e nei risultati di tale processo, data anche la consapevolezza e la volontà americane di dover rinnovare il proprio status di superpotenza mondiale ricercando una posizione intermedia tra una tendenza missionaria e globalistica alla Wilson e una isolazionista e realista alla Kissinger.
L'ottimismo dimostrato per la costituzione di un nuovo sistema delle relazioni internazionali, per l'attuazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite e infine per la partecipazione degli Stati Uniti al raggiungimento di questi obbiettivi venne smentito dagli eventi che si verificarono nel corso degli anni '90. Il susseguirsi tra il 1989 e il 1998 di novantadue guerre civili che causarono 5 milioni di vittime e 20 milioni di rifugiati e le conclusioni raggiunte nel 2000 da parte del Comitato Brahimi nelle quali vennero identificate le stesse carenze del sistema del mantenimento della pace individuate otto anni prima dall'Agenda for Peace, non possono che confermare un funzionamento sbagliato del sistema posto a garanzia della pace e della sicurezza internazionale.
Non potendo in tale occasione ripercorrere il cursus degli eventi che portarono nel 2000 a trarre le stesse conclusioni del 1992, l'analisi di questo lavoro è stata circoscritta ad un periodo di tempo più breve che spazia dal gennaio del 1991 al maggio del 1994, ritenuto sufficiente per individuare le responsabilità maggiori del fallimento della prima riforma delle operazioni di pace.
La concentrazione dell'attenzione sull'analisi della posizione americana rispetto al peacekeeping adottata nel corso di questo triennio è stata un tentativo di verificare se i fallimenti della nuova riforma di Boutros Ghali potessero essere direttamente ed esclusivamente riconducibili alle numerose oscillazioni e alternanze che hanno caratterizzato la politica dell'ultimo anno dell'amministrazione Bush e dei primi due anni dell'amministrazione Clinton.
La motivazione che ha portato a formulare questa supposizione iniziale è scaturita dalla constatazione di una inedita propensione americana a rinnovare il rapporto con le Nazioni Unite, ad adottare una politica improntata al multilateralismo ed infine ad intervenire in situazioni di crisi internazionali secondo parametri diversi da quelli seguiti fino a quel momento.
Partendo dalla guerra del Golfo, considerata l'origine di questa propensione americana, l'analisi ripercorre le riforme compiute prima da Bush e poi da Clinton riguardo la partecipazione al peacekeeping e si sofferma sull'intervento in Somalia che costituì la prima crisi che, dopo l'Iraq, richiamò la maggiore attenzione internazionale e rimise in gioco la disponibilità degli Stati Uniti ad intervenire in modo diretto.
Suddivisa in tre capitoli tale analisi affronterà in un primo momento la problematica di un eventuale ruolo svolto dalla guerra del Golfo nella formulazione della nuova dottrina americana del peacekeeping: sebbene l'intervento in Iraq non abbia rappresentato una testimonianza né delle nuove aspettative della comunità internazionale, né della nuova propensione americana, si è posta la questione se il suo successo abbia costituito una delle cause principali del nuovo atteggiamento degli Stati Uniti o se sia servito soltanto a mettere in evidenza la contrapposizione tra la leadership della superpotenza e i limiti delle Nazioni Unite.
Sulla scia del successo in Iraq e della pubblicazione dell'Agenda for Peace nel secondo capitolo verrà analizzato il processo che portò alla stesura del primo documento americano relativo al sostegno e al coinvolgimento nelle operazioni di pace dell'ONU: l'obbiettivo sarà quello di approfondire i termini della reazione degli Stati Uniti alla riforma di Boutros Ghali e la reale disponibilità a conformarsi, sia a livello dottrinale che a livello operativo, ad una serie di principi difficilmente accettabili dalla tradizione americana. La decisione dell'intervento militare in Somalia per far fronte alla crisi umanitaria permetterà di mettere a confronto le evoluzioni compiute rispetto all'intervento del Golfo con la persistenza di una certa unilateralità che caratterizzò il processo decisionale che precedette l'avvio della Restore Hope, lasciando aperta la questione se i passi compiuti dall'amministrazione Bush verso un'ottica più multilaterale furono l'inizio di una svolta decisiva o se furono soltanto diretti a compiere un'impresa che avrebbe permesso agli Stati Uniti di ottenere un grande successo d'immagine a bassi costi e al presidente Bush di passare alla storia come "a man of peace".
L'ultimo capitolo si proporrà di analizzare la riforma del peacekeeping compiuta dall'amministrazione Clinton, parallela al primo coinvolgimento militare degli Stati Uniti in un'operazione delle Nazioni Unite condotta nell'ambito del capitolo VII.
Le numerose questioni che si presenteranno nell'ultimo capitolo verteranno in primo luogo su quella del passaggio da un'amministrazione repubblicana ad una democratica e di un eventuale cambiamento nella conduzione della Restore Hope; in secondo luogo si cercherà di capire se la rivoluzione dell'assertive multilateralism operata da Clinton sia stata un tentativo di concretizzare un nuovo sistema internazionale sulla scia del Nuovo Ordine Mondiale di Bush o se invece sia stata una scelta di politica estera dettata più da esigenze di politica interna; infine si analizzeranno i motivi che portarono ad abbandonare la strategia dell'assertive multilateralism, proponendosi di comprendere se tale scelta sia stata causata dall'evoluzione della situazione in Somalia, dalle critiche interne all'amministrazione o da entrambe.
La scelta dell'operazione in Somalia per spiegare l'evoluzione della politica americana è stata fatta in funzione del carattere di unicità che ha acquisito fin dall'inizio l'intervento: la caduta dello stato somalo, il conflitto interno, il dramma umanitario, il nuovo uso della forza da parte delle Nazioni Unite, la mancanza di interessi strategici americani e la partecipazione militare americana rappresentarono tutti fattori la cui concomitanza contribuì a rendere la crisi somala un "caso unico".
Il fallimento dell'intervento in Somalia fece nuovamente riflettere Washington sugli oneri di una responsabilità globale e sui rapporti con le organizzazioni internazionali, segnando allo stesso tempo un punto di arresto del processo di riforma iniziato da Boutros Ghali: definire se gli Stati Uniti abbiano avuto, relativamente alla crisi somala, la responsabilità del fallimento dell'attuazione di alcune proposte dell'Agenda for Peace o se invece si debbano ricercare altre cause in grado di motivare questo insuccesso sarà la domanda principale alla quale tenteremo di dare risposta.
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Conclusioni
Le crisi internazionali che si sono verificate nella prima metà degli anni '90 hanno messo chiaramente in evidenza la precarietà del funzionamento del sistema posto a garanzia della pace internazionale e la necessità urgente di apportare nuove modifiche radicali, dopo però aver preso coscienza che le operazioni di pace sono più di un semplice palliativo e di un semplice tributo, praticamente inutile, ma moralmente inevitabile, che gli stati pagano controvoglia ed esponendosi il meno possibile. Si tratta della stessa convinzione che sembrava la comunità internazionale avesse assunto all'inizio degli anni '90 con la dimostrazione dell'entusiasmo per un nuovo sistema delle relazioni internazionali, con la fiducia riposta nelle Nazioni Unite e con l'ottimismo per una nuova cooperazione tra queste e la potenza americana.
Aver scelto di collocare sullo sfondo di questa analisi la crisi della Somalia per dimostrare i fallimenti della riforma del peacekeeping che seguì questo slancio di entusiasmo della comunità internazionale e per individuarne i responsabili non è stato motivato da ragioni esclusivamente cronologiche o dalla maggiore gravità della crisi somala rispetto, ad esempio, a quella dei Balcani, rivelatasi altrettanto drammatica e complessa: il motivo principale di questa scelta è stato il carattere di unicità della crisi stessa (basti pensare alla presenza di un failed state o alle dimensioni della tragedia umanitaria), ma soprattutto il carattere di eccezionalità che l'intervento ha acquisito allo stesso tempo per le Nazioni Unite e per gli Stati Uniti.
Come si è visto nel corso della trattazione la Somalia ha rappresentato contemporaneamente il primo intervento di peace enforcement della storia delle Nazioni Unite e la prima occasione in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti a livello militare in un'operazione di tal genere. Per comprendere come gli Stati Uniti abbiano deciso di partecipare alla prima concretizzazione del capitolo IV dell'Agenda for Peace e se si debba loro attribuire la responsabilità del suo fallimento è stato ripercorso il processo, iniziato con la guerra del Golfo, durante il quale si è formata la nuova propensione americana verso un maggior coinvolgimento multilaterale per la garanzia della pace internazionale.
La conclusione alla quale siamo giunti è che gli Stati Uniti abbiano avuto una grande responsabilità in questo fallimento, ma che il mancato conseguimento dei risultati auspicati non sia loro esclusivamente imputabile.
La responsabilità che si può attribuire agli Stati Uniti riguarda le numerose oscillazioni che la politica americana ha compiuto nel corso di questi tre anni e che, pur facendo notevoli passi in avanti, a conclusione di detto periodo si è ritrovata al punto di partenza del novembre del 1992. Come si è avuto modo di dimostrare nell'ultimo capitolo i parametri del PDD 25 di Clinton finalizzati ad una maggiore selettività del peacekeeping non si discostano di molto dalle uniques capabilities messe a disposizione delle Nazioni Unite dalla NSDD 74 di Bush: in realtà nel maggio del 1994 si poteva constatare un peggioramento della posizione americana, in quanto, se nel novembre del 1992 si stava assistendo ad una fase di slancio della politica americana, che seppur di minore rilevanza rispetto alla formulazione dell'assertive multilateralism, si era concretizzata nel sostegno al ponte aereo tra Mogadiscio e Mombasa e nella disponibilità a condurre la Restore Hope senza particolari tornaconti personali, la conclusione della riforma di Clinton nel maggio del 1994 dava invece inizio ad una fase di implosione della politica americana, dovuta alla presa di coscienza degli errori compiuti e che portò ad esempio ad una completa indifferenza nei confronti di una crisi simile a quella somala, il genocidio del Ruanda.
Il peggioramento non è consistito soltanto nel compimento di "un giro completo", iniziato con il sostegno della Dottrina Weinberger durante la guerra del Golfo e conclusosi con il nuovo realismo del PDD 25, ma soprattutto nel fatto che tale involuzione si sia verificata in un momento in cui la pace e la sicurezza internazionale erano state fortemente compromesse da gravi crisi, come quella della Somalia, dei Balcani e del Ruanda, che avevano cancellato qualsiasi utopia di un Nuovo Ordine Mondiale in cui l'ONU rappresentasse l'architrave dei rapporti internazionali.
Nell'aver preso coscienza di questa involuzione ci siamo posti il proposito di individuarne le cause e le conseguenze. Ripercorrendo il cursus degli eventi che hanno portato Washington a riflettere sulla propria posizione riguardo il sostegno dato alle operazioni multilaterali delle Nazioni Unite si possono individuare tre motivi fondamentali che non potevano lasciar presupporre una conclusione diversa da quella del PDD 25.
In primo luogo la validità della Dottrina Weinberger, il riferimento alla quale è stato dimostrato non soltanto nell'intervento del Golfo, ma anche nell'operazione in Somalia e nella riforma del peacekeeping sia di Bush che di Clinton. Pur non volendo criticare la validità di tale dottrina, non si può prescindere dal rilevare una certa contraddittorietà tra alcuni dei suoi principi e alcuni cardini dell'Agenda for Peace di Boutros Ghali: in particolare occorre sottolineare quelli relativi al perseguimento dell'interesse nazionale per un intervento al di fuori dei confini nazionali in cui sia previsto l'uso della forza e l'uso massiccio di quest'ultima. Entrambi i principi hanno trovato piena applicazione durante la conduzione della guerra del Golfo; in seguito, nonostante si siano in parte attenuati nella prima fase dell'intervento in Somalia, durante la UNOSOM II si è avuto piena dimostrazione di come la Dottrina Weinberger non appartenesse alla tradizione esclusivamente repubblicana, ma facesse parte della tradizione storica americana. Alla stessa conclusione ha portato anche la stesura del PDD 25 che riprese quasi per intero i principi della dottrina nell'elencare i requisiti da rispettare per il sostegno e il coinvolgimento nelle operazioni di pace, ovvero: la presenza dell'interesse nazionale, il mandato chiaro dell'operazione, il sostegno del Congresso e dell'opinione pubblica, l'uso della forza volto a minimizzare le perdite tra le fila nazionali.
Il secondo fattore che si è rivelato una costante nell'analisi di questo aspetto della politica americana e che ha pertanto contribuito al compimento dell'involuzione è costituito dalla mancanza di una coesione interna sul grado del sostegno e sulla tipologia del coinvolgimento americano nelle operazioni di pace: le divergenze tra il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa e le critiche provenienti dal Congresso hanno caratterizzato ogni fase che si è susseguita, lasciando gli Stati Uniti privi di una posizione chiara e precisa. Inoltre la mancanza di tale coesione non è imputabile ad una specifica amministrazione, riflettendo in tal senso le caratteristiche proprie di ciascuna istituzione e il perseguimento di interessi e di aspettative in parte divergenti anche all'interno di una stessa amministrazione.
Fin dalla guerra del Golfo lo Stato Maggiore di Colin Powell si era, ad esempio, mostrato scettico sull'uso della forza contro l'Iraq, privilegiando le sanzioni economiche, così come era accaduto anche nel caso dell'adozione della risoluzione 837 e nella decisione di inviare ulteriori rangers in Somalia nel settembre del 1993.
Le divergenze tra il Dipartimento di Stato, tradizionalmente più disposto e aperto ad un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nelle operazioni di pace, e il Dipartimento della Difesa, tradizionalmente più rigido, si sono riproposte nell'adozione della NSDD 74, nel lancio della Restore Hope, nel transizione alla UNOSOM II e nella stesura delle tre versioni del PDD 25.
Infine anche il Congresso in questi anni ha svolto un ruolo di maggiore importanza nel delineare la politica estera nazionale: escluso dal processo decisionale relativo alla Somalia e dalla formulazione dell'assertive multilateralism, ha messo alle strette l'amministrazione Clinton ottenendo una prima vittoria con il ritiro del 31 marzo 1994 dalla Somalia e una seconda vittoria con il non coinvolgimento nel Ruanda.
Il terzo fattore che ha contribuito a delineare l'involuzione della posizione americana è rappresentato dalla stretta interazione fra le dinamiche di politica interna e le scelte di politica estera relative al peacekeeping che hanno compromesso l'indipendenza di quest'ultime, impedendo la piena concretizzazione dei principi affermati almeno a livello dottrinale nel NSDD 74 e nella strategia dell'assertive multilateralism.
Prescindendo dal caso della guerra del Golfo, nel quale il successo dell'intervento comportava di per sé evidenti vantaggi a livello interno, soprattutto dal punto di vista economico, per comprendere la dipendenza della politica estera dalle scelte interne è sufficiente pensare alla concomitanza tra la riforma di Bush e la campagna elettorale, o alla prima decisione relativa alla Somalia, con cui gli Stati Uniti si dichiararono disposti a fornire i mezzi per il trasporto degli uomini della UNOSOM I, presa proprio nell'ultimo mese di campagna elettorale per privare l'avversario democratico di una delle principali accuse: l'inazione in Somalia.
Nel corso dell'analisi è stato anche dimostrato come l'intera politica estera relativa al peacekeeping di Clinton abbia risposto all'esigenza di dare priorità alla politica interna: la scelta di privilegiare inizialmente l'approccio multilaterale, seguendo se si vuole la politica dell'ultimo anno di Bush, non era supportata da motivazioni ideologiche che invece erano apparse nell'amministrazione repubblicana, come la costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale che garantisse la leadership americana.
L'assertive multilateralism rispondeva invece all'esigenza di raggiungere lo stesso risultato per dimezzare i costi e le energie di una politica estera basata su un interventismo unilaterale concependo le organizzazioni internazionali come gli strumenti in grado di diminuire i costi della politica estera americana e di permettere di focalizzare l'attenzione sulle problematiche interne più urgenti.
La dimostrazione finale e forse più importante di questa ingerenza delle questioni interne nel rapporto con le operazioni di pace si è avuta con le motivazioni che hanno provocato il ritiro americano dalla Somalia e l'approvazione del PDD 25.
Nel corso della trattazione si è infatti visto come gli incidenti del 3 ottobre siano stati in ultima analisi la giustificazione che ha permesso di legittimare agli occhi della comunità internazionale il ritiro americano dalla Somalia. In realtà si è visto come siano state le pressioni crescenti del Congresso per un cambiamento della strategia in Somalia e le minacce di bloccare il finanziamento dell'operazione a prefigurare il ritiro già prima dell'uccisione dei 18 Rangers. Infine la ritirata compiuta con il PDD 25 e il nuovo realismo sono stati dei palliativi per riconquistare il sostegno del Congresso, necessario essenzialmente per l'approvazione di riforme di politica interna.
Per quanto riguarda gli effetti conseguiti a tale processo si può senza dubbio rilevare un effetto di spillover nei confronti delle politiche delle altre grandi e medie potenze mondiali.
A tal proposito basti pensare alla decisione presa da numerosi altri paesi impegnati in Somalia di ritirarsi entro maggio del 1994 o alla scarsa pressione esercitata dall'intera comunità internazionale per affrontare la successiva crisi del Ruanda. La ritirata americana si è rivelata frustrante per gli altri membri delle Nazioni Unite, non soltanto perché gli Stati Uniti avrebbero potuto decidere di intervenire unilateralmente nelle situazioni di crisi a difesa dei propri interessi, ma anche perché l'assenza americana avrebbe comportato la mancanza del sostegno economico, logistico e politico necessario al successo delle operazioni, mentre il mancato coinvolgimento militare americano avrebbe indotto altri paesi a non immischiarsi in questioni in fin dei conti lontane anche dai loro interessi nazionali.
La presenza di questi effetti di spillover lascia pertanto trasparire chiaramente la dipendenza delle Nazioni Unite dagli Stati Uniti, fatto che comporterà sempre la ricerca di buoni rapporti con la superpotenza americana così come aveva fatto il Segretario Generale Boutros Ghali, che pur non essendo ben visto da Washington, aveva affermato a più riprese la necessità dell'aiuto americano per il funzionamento delle Nazioni Unite, soprattutto nel campo del mantenimento della pace, dove gli Stati Uniti, se avessero voluto, avrebbero potuto mettere a disposizione una potenza militare maggiore della somma di quelle di tutti gli altri paesi membri della Nato.
A conclusione di questa dissertazione vorremmo ipotizzare cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti non avessero optato per questa ritirata: se avessero continuato a dare pieno sostegno ad una politica multilaterale, si sarebbero potute verificare le condizioni necessarie per il successo dell'Agenda for Peace in Somalia?
Nel tentare di rispondere a quest'ultima domanda si vuol dimostrare che il fallimento non è dipeso esclusivamente dalla politica americana, ma che è stato causato almeno da altri due fattori riconducibili esclusivamente alle Nazioni Unite e al concetto stesso di peacekeeping.
Il primo fattore riguarda i limiti e le carenze del sistema delle Nazioni Unite, che seppur sottoposto a radicali riforme resta comunque in preda a profonde contraddizioni, già apparse nella loro evidenza nel corso di questo primo scorcio degli anni '90.
La prima contraddizione è quella che oppone il monopolio statale dell'impiego legittimo della violenza all'obbiettivo della sicurezza collettiva: fintantoché le Nazioni Unite non si saranno dotate di una capacità militare autonoma in grado di sanzionare le aggressioni compiute dagli stati, continueranno a dipendere dalla volontà e dalla disponibilità dei singoli stati ad intraprendere nuove operazioni di pace. Sebbene il Segretario Generale abbia sottolineato l'urgenza della questione anche nell'Agenda for Peace, la questione non ha suscitato un adeguato dibattito né a livello del Consiglio di Sicurezza, né nell'Assemblea Generale, né, come abbiamo potuto vedere, nel governo americano.
Una seconda contraddizione ruota intorno all'incompatibilità fra l'integrità territoriale e l'indipendenza politica da un lato e le implicazioni interventiste per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dall'altra: si è visto come a partire dall'operazione Provide Confort si sia assistito ad un ampliamento del concetto di sicurezza internazionale, che ha portato indubbiamente ad una maggiore ingerenza delle Nazioni Unite nelle questioni interne degli stati; d'altronde l'aumento smisurato del numero di guerre civili, anche più sanguinose delle guerre tra stati, non ha potuto evitare questa maggiore "intrusione" dell'ONU. A tal proposito la Somalia fornisce un esempio sia della necessità di questa ingerenza (indubbiamente l'intervento della comunità internazionale ha permesso di salvare innumerevoli vittime dal dramma umanitario), ma allo stesso tempo dà anche dimostrazione dei limiti oltre i quali l'ONU non è in grado di andare: l'intervento nelle questioni politiche interne e le soluzioni proposte per mettere fine alla crisi, senza il sostegno di un'adeguata capacità militare e senza la collaborazione da parte della popolazione somala, ha prodotto risultati opposti a quelli auspicati.
Questi ed altri limiti delle Nazioni Unite, come ad esempio la questione spinosa del finanziamento, ruotano intorno all'annosa contraddizione tra il principio di sovranità e la cessione di prerogative nazionali ad organismi sovranazionali: d'altronde l'ONU resta composta da stati sovrani, intenzionati a seguire, secondo la tradizione realista, il proprio interesse nazionale. La cessione di parte del potere militare, l'ingerenza in questioni interne senza il consenso del paese interessato, il raggiungimento da parte dell'ONU di un certo grado di autonomia economica, sarebbero tutti obbiettivi importanti per il buon funzionamento delle Nazioni Unite che andrebbero però ad incrinare al sovranità dei singoli stati. Uno scoglio che l'Agenda for Peace ha incontrato senza riuscire a superarlo è stato dunque il principio di sovranità.
Il secondo fattore che non ha permesso il successo della riforma di Boutros Ghali riguarda invece una caratteristica costitutiva del peacekeeping stesso: ovvero la sua natura ad evolversi pragmaticamente piuttosto che dottrinalmente.
Le operazioni di pace non hanno mai avuto alcun fondamento nella Carta delle Nazioni Unite in quanto sono nate come conseguenza dei veti della guerra fredda posti ai ricorsi al capitolo VI e al capitolo VII e hanno compiuto un'evoluzione parallela al cambiamento dei conflitti e in base alle necessità di intervento: come affermò Boutros Ghali si è trattato di un'invenzione dinamica e non statica. In tal senso si può concordare con l'ambasciatrice americana Albright quando affermò che il carattere improvvisato del peacekeeping tendeva ad indebolire il peacekeeping stesso.
In conclusione gli Stati Uniti condividono almeno con le Nazioni Unite le responsabilità degli insuccessi della prima metà degli anni '90.
Al fine di dare la giusta collocazione ai risultati conseguiti si ritiene opportuno precisare che l'analisi è stata svolta principalmente sulla base della letteratura americana e di quella francese, che ha fornito una chiave di lettura molto spesso critica dell'argomento trattato; il candidato non è comunque entrato in possesso dei rapporti dei dibattiti al Congresso americano o di altre fonti primarie che non siano riportate in bibliografia.
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