Non può davvero sfuggire la provocazione intellettuale posta da un convegno che costituisce il risultato della felice collaborazione fra due Istituzioni quali l'Università e le Forze Armate che, almeno in passato, sono state sovente in comunicanti: la provocazione a non considerare temi e problemi connessi agli impegni prettamente militari, che contraddistinguono il nuovo ruolo dell'Italia per il mantenimento della pace nel mondo, come espressivi di una dimensione operativa chiusa e fine a se stessa, ma piuttosto come osservatorio ed oggetto privilegiato di riflessione per gli scienziati e per i filosofi del diritto.
Se si vuole cogliere il senso di questa affermazione basta pensare alla complessità delle interferenze normative tra ordinamenti diversi che, nel tempo presente, appare acuita dall'esplicarsi della cooperazione internazionale in ambito militare e che prevedibilmente risulterà sottolineata dall'esistenza ormai prossima di una forza comune di difesa europea.
Nella forza comune cittadini di una pluralità di Paesi, che già ora operano ma nel quadro precario delle decisioni adottate di volta in volta dall'Alleanza per rispondere ad esigenze di polizia internazionale, saranno partecipi di una organizzazione militare almeno embrionalmente predeterminata al modo di un esercito, pur rimanendo portatori delle originarie diversità di costume anche giuridico.Questi cittadini, degli Stati e dell'Europa, avranno più diffuse occasioni per adempiere ai doveri propri dello status militare, ma anche per commettere reati, ad esempio, in concorso tra loro ovvero gli uni nei confronti degli altri.
Si riproporrà dunque in modo ben più pressante l'urgenza di predisporre meccanismi giudiziari che siano pensati in vista di situazioni che, già oggi, possono verificarsi nel corso delle operazioni militari per la pace, meccanismi che, su di un piano più generale, dovrebbero essere idonei a garantire un adeguato controllo di legalità nei riguardi della comunità militare, anche nella nuova versione europea.
Ma certo non sarà facile reinventare soluzioni comuni che possano valere in un contesto caratterizzato dalla eterogeneità dei modelli ordinamentali e processuali di riferimento.
Specificando meglio, nei Paesi europei non è sempre prevista una qualche forma di giustizia militare e, quando è prevista, sono comunque diverse le tipologie del giudizio che appaiono ispirate all'esperienza giuridica anglosassone ovvero a quella romanistico-continentale, a seconda che si faccia leva sulla precostituzione di Giudici soggetti alla legge oppure sulle Corti marziali, tipicamente espressive di una opzione pragmatica per la discrezionalità giudiziaria.
Come si vede, anche questo problema aperto può costituire un banco di prova stimolante per verificare l'efficacia di possibili soluzioni intermedie tra diritto penale comune e speciale, tra diritto legislativo e giudiziario e, cioè, tra esperienze giuridiche disomogenee che però dovranno trovare un punto di incontro nel cammino comunitario delle istituzioni.
Nel campo che ci riguarda più da vicino si potrebbe pensare ad una giurisdizione militare specializzata europea che si proponesse come strumento per mettere ordini tra le discontinuità delle procedure nazionali e che cercasse i criteri ed i limiti del proprio operare nella dimensione problematica ma irrinunciabile data dalla tutela dei diritti umani.
Da questa dimensione bisognerebbe, più in generale, prendere le mosse per armonizzare ogni nuovo strumento giudiziario penale, nazionale o comunitario, speciale o specializzato che fosse, coordinandone il grafico di poteri con l'apparato di garanzia che la giurisdizione internazionale penale, nel suo farsi, molto faticosamente sta cercando di costruire per tutelare i diritti fondamentali violati dai crimini contro la pace, dai crimini di guerra e contro l'umanità.
Ma questo ideale quadro di prospettive future potrebbe forse sembrare illusorio se considerassimo l'effettiva natura, per certi versi deludente, dei Tribunali internazionali ai quali oggi è affidata in concreto una tutela così problematica, vale a dire, i Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda.Si tratta in fatti di Tribunali che presentano l'immagine riduttiva di Giudici istituiti post-factum ed operanti in regime di concorrenza con i Giudici nazionali, secondo un criterio di riparto della Giurisdizione che produce conflittualità, propiziando a dismisura la possibilità di interferenze tra sistemi giudiziari, appunto, concorrenti.
D'altra parte le perplessità non vengono meno se lo sguardo si volge al passato, e non tanto o non solo, se si pensa al primo Tribunale internazionale che abbia cercato di rispondere alla domanda di giustizia emergente dalle atrocità di una guerra mondiale:questa domanda è stata pesantemente elusa dal Tribunale di Lipsia, nel 1921, perché le condanne sono state pochissime e lievissime in nome del principio del rispetto degli ordini superiori, anche criminosi, che ha determinato nella maggior parte dei casi l'impunità degli esecutori.
Ma, appunto, il giudizio retrospettivo non può essere meno critico se si pensa al Tribunale di Norimberga che ha invece affermato l'opposto principio della responsabilità dell'esecutore di ordini criminosi, facendo giustizia ma agendo al modo di un Giudice Legislatore immemore del divieto di norme retroattive in ambito penale.
Non basta: il Tribunale di Norimberga è stato composto esclusivamente da Giudici dei Paesi vincitori chiamati a conoscere solo i crimini dei vinti e , comunque così poco garantiti da poter essere sostituiti praticamente senza limiti " per ragioni di salute o per altre buone ragioni"1 .Ha avuto il potere di fabbricarsi le regole di procedura e di cambiarle di volta in volta secondo un opinabile criterio di opportunità2 .Ha prodotto ed applicato fattispecie normative sanzionatorie, comminando cioè ed irrogando al tempo stesso pene di estrema gravità come la pena di morte.
Se poi ci si chiedesse quale terzietà possa davvero attribuirsi a Giudici operanti in un contesto di clausole procedurali così aperte da apparire autentiche norme in bianco verrebbe spontaneo trovare la risposta a questa domanda, beninteso retorica, nel raffronto con i codici militari italiani che già all'epoca prevedevano una disciplina tra le più avanzate al mondo per il rigore della tipizzazione legislativa in tema di responsabilità degli esecutori di ordini manifestamente criminosi e di violazioni degli usi e delle leggi di guerra3.
Applicando questa disciplina i Tribunali militari italiani hanno potuto giudicare, anche recentemente, con le garanzie della precostituzione per legge , crimini commessi durante la 2° Guerra Mondiale, senza rinunciare a coniugare giustizia e certezza del diritto.
Non si può dire lo stesso del Tribunale di Norimberga che ha senza dubbio perseguito l'obbìettivo giusto di riaffermare i diritti umani violati dai crimini di guerra, ma, in vista di questo obbiettivo, ha fatto ricorso all'insegna ambigua del diritto naturale nella lettura che ne dà il giusnaturalismo moderno e che appare viziata da un equivoco di fondo secondo cui vi sarebbe una radicale separazione di essere e dover essere, diritto e natura4.Una lettura che inevitabilmente induce ad una astratta duplicazione dei codici, in nome della quale può accadere che il giudizio non importa se fondato sul codice "positivo" o su di un preteso codice "naturale", si metta comunque al servizio del potere, in questo caso, dei vincitori.
Se questi sono gli esiti poco rassicuranti delle verifiche sullo stato della giurisdizione penale internazionale del tempo presente come del passato bisogna però riconoscere che per il futuro si potrebbe forse sperare con qualche ragione di uscire dalle strettoie che sono state prima segnalate.
Lo Statuto della Corte penale internazionale approvato a Roma nel 1998, ma non ancora operativo, contiene infatti alcune scelte fondamentali che potrebbero fornire a questo nuovo giudice strumenti efficaci per porsi come punto di riferimento e di raccordo esemplare tra le giurisdizioni nazionali, anche nel campo che qui interessa.
Nello Statuto si recepisce il principio di legalità dei diritti e delle pene con i corollari del divieto di analogia e di retroattività delle norme penali5, il che dovrebbe ridurre la tentazione, sempre ricorrente in una prospettiva razionalistica, di appellarsi al diritto naturale per colmare ogni possibile vuoto legislativo.Si riafferma il principio della non immunità nel caso di esecuzione di ordini manifestamente criminosi, anche se con qualche discutibile sfumatura limitante6.Ma soprattutto si cambia marcia nella ricerca di un autentico criterio regolativo sovranazionale dei rapporti tra giurisdizioni, perché l'opzione, in questo ambito, per il paradigma della sussidiarietà7 manda al museo degli oggetti inutili e pericolosi il paradigma della concorrenza che finora ha dominato generando irresolubili conflitti.
Mi spiego meglio:l'opzione di fondo, secondo la quale la giurisdizione internazionale interviene solo nel caso di indisponibilità o impossibilità della giurisdizione nazionale competente, può segnare l'avvio di un itinerario privilegiato per abbandonare una concezione totalizzante della sovranità che parrebbe alla radice delle difficoltà di comunicazione tra ordinamento internazionale ed ordinamenti nazionali.Per questa via dovrebbe cioè essere "naturale" un radicamento consapevole del diritto internazionale generale nei singoli ordinamenti interni, beninteso, in una dimensione molto concreta, dialettica, dei rapporti intersoggettivi, che impedisca di cadere nelle immediate identificazioni tra diritto nazionale e diritto internazionale, costruite ad esempio dalla teoria monista kelseniana8 in una lettura, ancora una volta, astratta del problema.
Ecco, dunque, il quadro di tendenza che dovrebbe sollecitare i Paesi impegnati per mantenere la pace nel mondo a cercare insieme soluzioni adeguate che facciano emergere, tra gli ordinamenti e negli ordinamenti, ciò che vi è di comune nel diverso.
Vale a dire che oltre ai "nuovi impegni" delle Forze Armate, il ruolo delle quali appare così rilevante in questo ambito, non si potranno ignorare ancora per molto i "nuovi impegni" giudiziari che dovranno essere onorati in parallelo, beninteso, se sussidiarietà significa, anzi tutto, condivisione di responsabilità e se al termine giustizia si attribuisce il senso di un modo ineludibile per realizzare la possibilità della coesistenza pacifica nella Comunità internazionale.
Note:
1 Cfr. art. 3 della Nuremberg Charter
2 Cfr. Art. 13 della Nuremberg Charter
3 Cfr. Art. 40 c.p.m.p.;artt. 165 ss. c.p.m.g.
4 F.GENTILE, Inteligenza politica e ragione di stato,Giuffrè,Milano 1983, pp.171 ss.,tematizza il 5 diritto naturale come problema nel preconcetto nazionalistico della radicale separazione di società e diritto.
6 Cfr. artt. 22,23 e 24 dello Statuto di Roma.
7 Cfr. art. 33 dello Statuto di Roma.
8 F.GENTILE, Tra virtualità e realtà, in appendice a Ugo Pagallo, Testi e contesti dell'ordinamento giuridico,Giuffrè,Milano 1999,vede nella scoperta della sussidiarietà come principio generale del diritto comune europeo una via per restituire il senso della naturalezza del diritto al giurista condizionato da una riduttiva ma ancora dominante concezione geometrica dell'ordinamento giuridico (in particolare par.58).
9 Per una riflessione più ampia su questi temi rimandiamo a G.Marini,Giudice regale.L'ordinamento giuridico italiano tra certezza e giustizia,ESI,Napoli 1995,pp.72 ss.
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