RIASSUNTO
Il Convegno di studi giuridici "Diritto e Forze armate. Nuovi Impegni" si è svolto il 30 novembre 2000, nell'Aula Magna "Galileo Galilei" dell'Università degli Studi di Padova. La manifestazione è stata promossa dalla Regione Militare Nord e patrocinata dal Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario della stessa Università. Obiettivo comune: favorire un momento di riflessione e trasmissione di esperienze in tema di <>.
Come hanno rilevato nei loro indirizzi di saluto il Rettore, prof. Giovanni Marchesini, il Comandante della Regione militare Nord, ten. gen. Salvatore Sabatino, e il Direttore del menzionato Dipartimento, prof. Lorenza Carlassare, la preziosa iniziativa culturale è giunta opportunamente a segnalare l'esigenza di affrontare costantemente un'aperta discussione sugli incessanti mutamenti che caratterizzano la scena nazionale e internazionale e in particolare i conflitti anche di genere bellico. Questi conflitti, che nell'ultimo ventennio hanno rivitalizzato l'interesse per il tema pace-guerra, suscitano sempre nuovi interrogativi sui principi e i limiti dell'azione politica e dell'azione militare, nonché dubbi sull'effettiva adeguatezza del diritto vigente a comprendere i nuovi fenomeni.
Il Convegno ha posto in luce che una politica chiara di sicurezza globale dovrebbe illuminare i correlati nuovi impegni cui sono chiamati, al contempo, il Diritto e le Forze armate. Vi è un intreccio ormai indissolubile tra diritto nazionale e diritto internazionale, intreccio che tuttavia non può costituire una maschera rivolta ad evitare imprescindibili scelte politiche e giuridiche nazionali, o a nasconderne il fondamento o addirittura il non-fondamento.
In Apertura dei lavori, il prof. Giovanni Conso, Presidente emerito della Corte costituzionale, ha rilevato che una delle più recenti novità, la legge che istituisce il servizio militare professionale (l. 14 novembre 2000, n. 331), specifica i compiti delle Forze armate ribadendo, accanto a quelli per così dire tradizionali - la difesa della Patria (erroneamente chiamata Stato nella legge, si noti) anche in caso di pubblica calamità e in altri casi di straordinaria necessità ed urgenza -, il compito di operare al fine della realizzazione della pace e della sicurezza in conformità alle regole del diritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioni internazionali cui l'Italia partecipa.
Tuttavia, un piano di sicurezza globale in funzione di pace può emergere sul presupposto che sia risolto il dissidio che caratterizza l'odierno scenario della politica internazionale, sul quale si è soffermato il prof. Luigi Bonanate (Università di Torino) nella sua relazione introduttiva "Politica internzionale e sicurezza internazionale". Da un lato vi sono tendenze all'unipolarismo - dopo il crollo della potenza sovietica - e dall'altro le sempre più pressanti esigenze di democrazia internazionale, fondate anche sui diritti umani fondamentali, le quali peraltro stanno anche alla base della frammentazione degli Stati tradizionali, mentre la coesione internazionalistica produce a sua volta sempre più momenti di crisi della sovranità degli Stati. Se è vero che si profila una relativa sicurezza di sfuggire a un terzo conflitto mondiale (che è stato evitato in forme soprendentemente pacifiche con l'implosione dell'URSS), emergono però difusamente forme di insicurezza nuove, specie l'insicurezza individuale. Tali insicurezze sono legate soprattutto ai flussi migratori, alla globalizzazione economico-finanziaria, alla criminalità organizzata, all'imprevedibilità del comportamento di governanti locali che danno luogo a fatti criminali anche di genere bellico. La coesione internazionale che al riguardo sarebbe necessaria non è piena, e comunque è ancora caratterizzata da un alto tasso di inefficacia, tanto che si verifica un notevole aumento della criminalità transnazionale e internazionale, sia comune che politica, da cui discende una gravissima, diffusa lesione della certezza del diritto, quindi insicurezza.
Queste insicurezze sono state riscontrate anche nella sessione del Convegno dedicata ai profili di diritto costituzionale. La pretesa ideale delle Forze armate di uno Stato appunto democratico come l'Italia, è di appartenere all'intera nazione, specie nel momento in cui concretamente tali forze servano quale fattore produttivo di sicurezza. Perciò il loro impiego e il loro servizio esigono di collocarsi nel legittimo quadro di precise "regole d'ingaggio". Così la forza del diritto si oppone alla legge della forza, e non viceversa, anche quando si impongano certe compressioni di fondamentali diritti e libertà costituzionali, che per tutti, e per i militari con peculiare immediatezza e intensità, la Costituzione italiana prevede al fine di difesa della Patria. Nel nucleo essenziale di questi temi si è addentrata la prof. Lorenza Carlassare, delinenando i limiti che la Costituzione (art. 11 e 52) esige siano rispettati anche nelle attuali trasformazioni. Si pensi ai mutamenti che sta subendo la NATO e in genere tutto il settore degli interventi fuori-area, che non sono più interventi meramente difensivi e perciò pongono delicati problemi di rispetto del principio costituzionale c.d. "pacifista", per cui l'unica guerra ammessa è quella difensiva e, soprattutto, è fatto divieto di ricorrere alla guerra al fine di risolvere le controversie internazionali. I nuovi impegni a maggior ragione non possono comportare che si rinunci alla decisione democratico-parlamentare in favore di quella esclusivamente governativa o, peggio, di automatiche recezioni di scelte operate da organismi internazionali, espropriando la nazione del proprio potere di scelta tramite il parlamento.
I profili costituzionali concernenti la formazione delle decisioni nella gestione delle emergenze in questione sono stati approfonditi dal prof. Giuseppe de Vergottini e dal dott. Guglielmo Cevolin (Università di Bologna). I relatori hanno constatato che la nostra Costituzione non è adeguata ai tempi, perchè non contiene regole sufficienti a delineare una compiuta "costituzione della difesa", le quali consentano una puntuale gestione delle crisi internazionali che non siano la guerra nel senso tradizionale. Dai principi di inquadramento generale (art. 78 e 80) si può desumere che il Parlamento deve mantenere il potere di indirizzo e di controllo sull'operato del Governo che pure è inevitabilmente implicato nella pratica organizzativa controllando l'apparato complessivo della forza. I trattati internazionali non possono non passare attraverso una delibera parlamentare in forma di legge che concerna l'autorizzazione e la ratifica - il che non è avvenuto nel caso delle modifiche della NATO. L'armonia tra Governo e Parlamento è imprescindibile quando si tratti di impiegare le forze armate nella gestione di crisi internazionali, nonché quando si tratti di guerra - ma perfino nel caso della guerra contro la Serbia si è invece disatteso sia l'art. 78 che l'art. 80 Cost.
Nella prassi il Governo dispone l'impiego delle forze armate sulla base dei vincoli internazionali e quindi di decisioni prese altrove in sede internazionale (art. 11 Cost,), senza che esista una procedimentalizzazione che preventivamente coinvolga il Parlamento, come invece dovrebbe essere. Di solito il Parlamento interviene a posteriori, solo per approvare non già l'intervento bensì il finanziamento del medesimo, oppure intervengono Commissioni parlamentari in sede di ispezione politica sull'operato del Governo. La citata legge n. 331/2000 recepisce in definitiva questa prassi.
Del resto, la stessa organizzazione di governo è inadeguata alla gestione delle emergenze, perchè manca un Gabinetto di crisi in senso tecnico, un organo ristretto che decida. Nella prassi è talvolta impiegato come surrogato il Consiglio Supremo di Difesa. Si tratta di un'anomalia, perchè tramite il Consiglio non agisce il Governo ma una cosa diversa, dato che vi partecipano il Capo dello Stato e il Capo di Stato Maggiore. D'altra parte, lo stesso Consiglio dal 1990 ha assunto una organizzazione di tipo diarchico: non è più, come dovrebbe essere, l'organo di assistenza ausiliario del Capo dello Stato il quale ha una imprescindibile funzione (soltanto) di garanzia super partes in cui si esprime la sua qualità di Comandante delle Forze armate, ma è un organo di copresenza del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio. Comunque, nella prassi il Consiglio viene riunito dopo la decisione di intervento, quindi è una sede di scambio di opinioni, di informazione, di supervisione; e non si può escludere che di fatto sia anche una sede di decisione.
In definitiva, finora la legislazione recente non è intervenuta ai "piani alti" del nostro diritto, laddove vi sono ancora dei notevoli vuoti che sono colmati da prassi non sempre rispettose dei principi fondamentali. Peraltro, come è emerso dalle relazioni dedicate ai profili di diritto pubblico e amministrativo, di cui ora si dirà, parecchie manchevolezze risultano anche sul versante basso.
In tema di obiezione di coscienza-servizio civile, il prof. Leopoldo Mazzarolli (Università di Padova) ha constatato che l'obbligatorietà di un servizio civile non troverà alcuna giustificazione nei limiti in cui il servizio militare non sarà più obbligatorio - lo sarà solo in caso di guerra o grave crisi internazionale, in base alla menzionata nuova legge n. 331. Infatti il servizio civile può esser reso obbigatorio solo nel quadro dell'art. 52 Cost., cioè a condizione che sostituisca il servizio militare obbligatorio mantenendo però la finalità di difesa della Patria. Questa finalità, già nel regime vigente non è perseguita, perchè la maggior parte dei servizi concretamente svolti non sono di difesa vera e propria, cioè non sono destinati a fronteggiare pericoli per la Patria, ma riguardano semmai e non sempre un generico impegno sociale - il che è affatto diverso. Oltretutto, basta una semplice dichiarazione di obiezione per essere ammessi al servizio civile. In concreto il sistema regge una mistificazione. D'altro canto, è dubitabile che davvero esista la possibilità di sostituire il servizio militare con altri servizi non militari che perseguano lo scopo difensivo. In realtà, il servizio militare è in grado di assorbire tutti i servizi difensivi, sicchè l'ipotesi di sostituzione dovrebbe essere esclusa, e l'obiezione di coscienza, una volta ammessa, dovrebbe preludere all'esenzione.
Riguardo alla riforma amministrativa del governo della difesa, il prof. Luca Mezzetti (Università di Udine) ha indicato che manca ancora un testo unico delle leggi in materia di difesa e di sicurezza, il quale deve comprendere, oltre che il quadro regolativo generale dell'amministrazione militare, anche quanto attiene alle forze di polizia e all'azione delle Regioni e enti locali minori. Occorre un coordinamento dei molteplici tentativi di parziale riordino, che sono stati attuati con una serie alluvionale di decreti fino al recente decreto legislativo n. 300/1999, a partire dalla l. n. 25/1997 (c.d. Bassanini I). La Bassanini I tenta di porre rimedio all'assenza di disciplina della "filiera" di comando, individuando nella sequenza "funzione propositiva del Consiglio dei Ministri - parere del Consiglio Supremo di Difesa - approvazione del Parlamento" una serie di snodi istituzionali essenziali alla formazione ed elaborazione dell'indirizzo politica di difesa e strategico. Dopo questa legge, i decreti hanno messo mano al riordino dell'area amministrativa tendendo a razionalizzare i rapporti tra Ministro, Capo di Stato Maggiore per l'area tecnico operativa e Segretariato Generale del Ministro per l'area amministrativa (al Capo di Stato Maggiore della Difesa è assegnata una posizione di privilegio rispetto ai Capi di Stato Maggiore delle singole armi). Ammodernamento e razionalizzazione hanno investito servizi non collaterali, tra l'altro la produzione di armamenti e quindi l'indirizzo politico in tema di armamenti (agenzia Industria Difesa).
In tema di disciplina militare e forze di polizia, il prof. Silvio Riondato (Università di Padova), ha osservato che si deve pervenire ad una disciplina di principio dei diritti e doveri fondamentali, che riguardi tutti gli appartenenti a forze di difesa le quali siano armate. L'art. 52 Cost. postula l'unitarietà della nozione di Difesa nel momento in cui àncora lo spirito democratico costituzionale, e quindi il rispetto dei diritti fondamentali, all'ordinamento di tutte le forze armate, indipendentemente dalla loro denominazione e dalla circostanza che la difesa sia interna o esterna. Su questa base occorre aggiornare la legge sui principi della disciplina militare (n. 382/1978) superando anche le discrasie che il paradossale fenomeno della c.d. smilitarizzazione (dal 1981) di certe forze ha prodotto, compreso il tema della libertà sindacale dei militari, tema che va affrontato con prudenza ma con la consapevolezza che tale libertà può essere limitata nel suo esercizio ma non preclusa.
Problemi regolativi altrettanto importanti sono stati esposti nella prima parte della sessione pomeridiana del Convegno, dedicata ai profili di diritto internazionale ed europeo. Il prof. Tito Ballarino (Università di Padova) ha delineato in prospettiva storica gli esiti delle difficoltà incontrate dall'ONU nell'attuazione dell'art. 43 della Carta, che prevederebbe la formazione di Forze armate poste a disposizione del Consiglio di Sicurezza, tramite accordi tra il Consiglio e i singoli membri dell'ONU. Accordi che non sono stati mai conclusi. Si è perciò determinata una situazione di ricorso, allo scopo di formare forze militari, a procedure diverse, non nominate, che volta a volta hanno investito l'Assemblea Generale o il Consiglio, ma sempre con insicuro fondamento e comunque fuori da un quadro chiaro di competenze e limiti. Perfino le norme del diritto umanitario stentano a trovare riconoscimento: l'ONU non è parte delle Convenzioni perchè queste si indirizzano soltanto agli Stati; solo dal 1993, sulla scorta della c.d. Agenda per la pace di Butros Ghali, un bollettino del Segretario generale ONU (di dubitabile valore giuridico) richiama tutti i principi fondamentali delle leggi e consuetudini di guerra compresi quelli del diritto umanitario. Tuttavia, lo stesso Bollettino stabilisce: che le proprie statuizioni non sono esaurienti perchè valgono inoltre altre norme anche umanitarie; che le violazioni del diritto umanitario saranno giudicate dai tribunali dello Stato di appartenenza; che non vi è pregiudizio per le leggi nazionali che vincolano le forze armate durante le operazioni. Rimane quindi un dualismo irrisolto. Su queste difficoltà si è soffermato in modo peculiare il gen. Giorgio Blais, vice presidente dell'Istituto internazionale umanitario di Sanremo, segnalando nel suo intervento che a fronte di un'ormai radicata volontà dei militari di far proprie le regole umanitarie, sta l'inesistenza di un chiaro statuto dei militari inviati all'estero, che precisi le regole d'ingaggio; sicché le procedure di istruzione rimangono lacunose, al di là della pur gravosa e ancora insoddisatta esigenza di formare adeguatamente in materia tutti i militari.
Quanto alle recenti operazioni NATO contro la Serbia, e all'accusa di aver talvolta investito obiettivi esclusivamente civili, violando il diritto umanitario, il prof. Ballarino ha notato: che la NATO ha respinto l'accusa (e il procuratore del tribunale internazionale per la ex-Jugoslavia ha senz'altro archiviato il caso) ma non ha detto a quali norme di diritto umanitario le proprie forze erano soggette; che gli USA non hanno ratificato il protocollo aggiuntivo alle quattro Convenzioni di Ginevra (1977), e nemmeno la Francia e la Turchia. Del resto, dalla relazione del prof. Francisco Leita (Università di Padova) è chiaramente emerso, rispetto al complesso delle operazioni NATO contro la Serbia, un quadro del tutto staccato dalla Carta ONU, compresi gli artt. 52 e 53 che pur prevedono un coordinamento tra Consiglio di Sicurezza e Organizzazioni regionali. Nel caso vi è stata non già una preventiva autorizzazione del Consiglio, bensì semmai una successiva sanatoria tramite certe risoluzioni, sanatoria di cui peraltro molti dubitano, mentre altri ritengono che una norma generale autorizzi interventi bellici del genere per fini umanitari (ma non soltanto questa era la finalità dell'intervento contro la Serbia).
Nel quadro delle azioni militari spettanti ad organizzazioni regionali, un particolare rilievo ha assunto la recente novità dell'impegno dell'Unione Europea: costituzione entro il 2003 di una capacità di dispiegamento di 60.000 militari per missioni di durata fino ad un anno. Ne ha riferito la prof. Laura Picchio Forlati (Università di Venezia) ricostruendo la politica estera e di sicurezza comune dell'Unione anche in rapporto alla Carta ONU e agli impegni NATO. Queste politiche sono previste dal Trattato di Amsterdam concernente l'Unione Europea. Quanto agli obiettivi, è ancora lontana la difesa in senso stretto, cioè la pur prevista cooperazione per la difesa comune. Per ora si tratta di cooperazione in materia di sicurezza degli Stati membri, soprattutto sicurezza internazionale: missioni umanitarie di soccorso, mantenimento della pace, missioni di unità di combattimento nella gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace, insomma missioni fuori area. Comunque, l'art. 11 del Trattato UE sottopone le politiche in questione ai principi della Carta ONU. Pertanto, è vietato l'uso della forza nelle relazioni internazionali, salva la legittima difesa ma contro attacchi armati (e non, per esempio, contro l'immigrazione clandestina), e salvo azioni fondate su decisioni del Consiglio di Sicurezza. Questi principi regolano, inoltre, i rapporti con il sistema NATO, che si avviano a sostituire l'UEO. Lo stesso Trattato NATO richiama in merito la Carta ONU (art. 1), e quindi non può essere utilizzato per sfuggire al descritto regime fondamentale.
A chiusura dei lavori concernenti il diritto vigente, si è svolta la sessione dedicata al settore più bisognoso di revisione, quello penale. Esso gravita ancòra sui vetusti codici militari prerepubblicani. Dovrebbe essere sostituito da una legislazione "corta" ed adeguata, secondo quanto ha esposto nella relazione introduttiva il prof. Giuseppe Zuccalà (Università di Padova). Il realtore ha inoltre rilevato che non sono ancora maturi i tempi per una efficace sostituzione del diritto penale nazionale col diritto internazionale penale, il quale ultimo continua a manifestare un alto deficit di effettività che lo affligge sin dalle origini, nonostante che la prognosi di un futuro miglioramento sia confortata dallo sviluppo conferito agli operanti Tribunali penali internazionali ad hoc e al progetto del Tribunale penale internazionale permanente.
La relazione del prof. David Brunelli (Università di Perugia) ha offerto una desolante panoramica dell'irrazionale sistema vigente di diritto penale militare, e un'ancor più desolante descrizione della costante assenza dell'opera riformatrice del legislatore, mentre decine di sentenze della Corte costituzionale hanno corroso l'impianto originario ma non certo in modo tale da riuscire a crearne uno nuovo ed adeguato. Intanto gli studiosi propongono riforme agili ma non trovano disponibilità al confronto nelle sedi istituzionali.
La relazione della prof. Nicoletta Parisi (Università di Castellanza) ha indicato i progressi della giustizia internazionale penale sul piano del diritto universale che sta lentamente sviluppando una prassi di incriminazione di comportamenti individuali, incriminazione di individui che sono di solito organi dello Stato (è solo in progetto l'idea dei crimini commessi dallo Stato). Esistono i core-crimes, cioè i crimini contro la pace (aggressione), i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità, i quali hanno bisogno di un sistema di repressione diretta tramite tribunali internazionali, in modo tale da superare gli ostacoli che si frappongono alla repressione da parte di un singolo Stato, cioè la sovranità dello Stato stesso oppure i limiti che derivano dalla sovranità di altri Stati. Un passo avanti, su iniziative dell' ONU, è stato fatto tramite i Tribunali ad hoc per la ex-Yugoslavia e per il Ruanda. Un Tribunale misto nazionale-internazionale è stato proposto a Sierra Leone e Timor Est. I tribunali internazionali hanno una posizione di privilegio rispetto ai tribunali nazionali. Questa superiorità è prevista anche per il Tribunale penale internazionale permanente, il cui Statuto (Roma 1998) entrerà in vigore con la sessantesima ratifica - per ora ne ha ottenute ventitre. L'Italia ha sì ratificato, ma ancora non ha dettato le necessarie norme di attuazione che sono in fase di elaborazione da parte di una Commissione interministeriale.
In conclusione il Convegno ha proposto profili di filosofia del diritto. Il prof. Francesco Gentile ha enucleato le peculiarità dell'impegno militare attraverso l'esame, anche in prospettiva storica, della formula del giuramento militare, riflessa sul tema dei rapporti tra consenso e forza nella formazione del diritto. Il giuramento assume una funzione simbolica della sacertà e quindi del fondamento metafisico del diritto che perciò presiede alla forza. Il giurista, nonché il militare, non è mero enzima del nudo potere consustanziato alla forza. Dietro (oltre) vede il diritto (diritto, volendo, naturale) e così soltanto può riuscire a non farsi travolgere dalla violenza delle situazioni in cui viene coinvolto.
Il prof. Marcello Fracanzani, nella sua relazione "Sovranità tra diritto e forza", ha illustrato le trasformazioni della nozione di sovranità e quindi conseguentemente del ruolo assegnato alla forza. La semplice forza non è più l'unico criterio di riconoscimento, perchè vanno affermandosi giudizi di valore, in particolare tra l'altro quelli relativi al rispetto dei diritti fondamentali. L'eclissi della sovranità tradizionalmente intesa non equivale però ad eclissi della forza, ma anzi richiama significati originari per cui la gente d'armi è portatrice non già del capriccio dell'onnipotente irrazionale, bensì del bene comune cui la comunità è ordinata (Platone).
|