.I. Tales fines sunt, quanta est armarum vis.
Westfalia, 1648.
Sull'assemblea incaricata di ridisegnare l'Europa dopo la guerra dei trent'anni aleggia il genio politico di Armand Jean du Plessis de Richelieu, per bocca del suo discepolo ed erede Giulio Mazarino, ma trovano anche dignità di sistemazione giuridica positiva le costruzioni teoriche propugnate con vigore inesausto da Jean Bodin, con disarmante meccanicismo da Thomas Hobbes, con petulanza erudita da Ugo Grozio e, prima, con lo stile poetico di Nicolò Machiavelli per risalire fino alle metafore suggestive di Marsilio da Padova, antesignano della modernità, come bene è stato messo in evidenza.
Con la sigla dei protocolli del 1648 il secondo re Borbone si scrolla definitivamente di dosso la polvere di vassallo del Sacro Romano Impero, aprendo la via all'iperbole del figlio. Ed altrettanto fanno con lui l'Asburgo di Spagna e finanche il preteso erede di Cesare a Vienna.
In Inghilterra, invece, per quell'anno, la strada intrapresa dalla dea Astrea, Elisabetta, più che interrotta, subisce solo un accelerato anticipo di quella che sarà la sua necessaria evoluzione.
All'Europa, dicevamo, viene imposto una nuova sistemazione, non più conseguenza dell'ordine teologico e politico riassunto nella metafora delle due spade quella spirituale e quella temporale, secondo un principio gerarchico che ricomprende il molteplice nell'unità- quanto piuttosto sul principio dell'effettività, o meglio, sull'equilibrio -è proprio il caso di dirlo- delle forze in campo. Equilibrio precario, che legittima la modifica della carta geografica in conseguenza della alterne fortune delle armate.
In termini più espliciti, il geografo è tramutato in topografo; viene arruolato anche lui e diviene il cancelliere dello stato maggiore: egli è incaricato di annotare la mutevole estensione dei confini dei regni in dipendenza dei successi o dei rovesci militari dei belligeranti.
Quello dell'effettività è un ordine che, nonostante le apparenze, viene consapevolmente riaffermato due secoli dopo a Vienna, sotto gli occhi vigili di Charles Maurice de Talleyrand - Perigord e con gli auspici teorici, questa volta, di Hegel. Un ordine ripreso ancora nel 1946, non si ricorda per opera di quale uomo politico, con la benedizione di Maritain, quella volta nell'insolita veste del prammatico.
Quali sono dunque gli elementi del nuovo Stato uscito dalla pace di Westfalia e quali i caratteri di chi lo incarna? Domande necessarie per capire il ruolo delle forze armate.
La manualistica è ancora pacifica sul punto. Gli elementi dello Stato moderno sono tre: popolo, territorio e sovranità, cioè un certo numero di individui ed una certa estensione di spazio fisico sottoposti al controllo di un centro di imputazione di volontà ed interessi non soggetto a costrizioni esterne nelle sue determinazioni.
Ma questa trinità secolarizzata, a ben guardare, si compendia nel terzo elemento: la sovranità, cioè nella capacità di imporsi della volontà di uno. Di imporsi forse con la persuasione? Non propriamente.
Tales fines sunt quanta est armarum vis: tale è l'estensione del territorio e tanto è il numero dei sudditi quanta è la gittata dell'artiglieria. È questa, e solo questa, che nella prospettiva dell'effettività rende reale e sciolta da condizionamenti esterni la volontà (che si può dunque dire) sovrana.
La sovranità del monarca dipende ancora dalla sua spada, anzi dei suoi cannoni, come aveva profetato Bodin sulle spalle teoretiche di Marsilio, secondo l'immagine plastica della copertina della prima edizione del Leviatano.
E così è la sovranità che, in definitiva, fa lo Stato, poiché è ad essa che una molteplicità di individui deve la propria unità sotto l'usbergo della forza; ed ancora per essa i confini di un territorio diventano invalicabili per coloro che, ancora in base a questo principio, vengono chiamati stranieri.
Si potrebbe allora pensare di chiudere il sillogismo in questi termini:
se lo Stato moderno -come ci viene insegnato- è costituito da popolo, territorio e sovranità e se l'esercito è il garante della sovranità, allora l'esercito è -seppur mediatamente- non solo il custode, ma il garante dello Stato.
Di più. Se, come si è detto, dei tre elementi costitutivi dello Stato moderno in realtà la sovranità è la misura dell'estensione del territorio e la misura del numero del popolo, allora la sovranità è la misura dello Stato; e, dunque, così procedendo, si è costretti a dedurre che l'esercito, garante della sovranità, è la misura dello Stato moderno, costituendone la cifra.
I corollari di tale teorema "geometrico legale" sono talmente numerosi da non potersi contare: si guardi, per esempio, al monopolio statale della legge, come dell'amministrazione (in senso tecnico) della giustizia; oppure all'identificazione di ordinamento giuridico con lo Stato, ancor oggi sostenuta, che conduce a sovrapporre legge e forza.
Ma con i sillogismi la prudenza è d'obbligo, per non far scadere la Logica di Aristotele nella logica di Don Ferrante il quale -come si ricorderà- pure ormai appestato, deduceva irreprensibilmente l'inesistenza del morbo che lo stava consumando.
.II. Da più parti ci viene detto che oggi il concetto di sovranità è in crisi.
Gli esempi si sprecano, pur se alla pars destruens anche le menti più fini non sanno far seguire una pars construens.
Abbiamo appreso dagli studiosi del diritto internazionale (non a caso i proclamanti continuatori di quella scienza iniziata da Grozio) che diversi sono i criteri di attribuzione della personalità di diritto internazionale, e che il solo esercizio di un potere organizzato su di un certo territorio (principio di effettività) non costituisce più l'automatico lasciapassare per entrare nella comunità internazionale, per avere un seggio uno scranno nel "palazzo di vetro".
Questa posizione, peraltro, abbandonando l'oggettività del fatto (un potere effettivo), apre la difficile via al giudizio di valore (governi "buoni" o "cattivi", rispetto o meno dei "fondamentali diritti dell'uomo"), giudizio attribuito peraltro in modo insindacabile al Consiglio di sicurezza delle N.U., quando non agli organi della NATO.
Non sappiamo, invero, se si tratti di consaputo superamento teoretico del concetto di sovranità, ovvero di semplice spostamento -ora verso l'alto, ora verso il basso- del centro di potere. Forse è solo il desiderio di non usare un termine divenuto scomodo. Ma non è questa la sede per introdurre un simile argomento. Per il momento, limitiamoci a prendere atto che, a detta dei suoi stessi cultori, il principio di sovranità non costituisce più l'architrave della riflessione giuspubblicistica contemporanea.
.III. Dobbiamo allora ritenere che con l'archiviazione della sovranità -almeno nella sua originaria formulazione- per l'equazione posta sopra (Stato = sovranità; sovranità = effettività; effettività = esercito), debba essere sciolto anche l'esercito e dismessa la divisa? Con l'eclisse della sovranità diviene inutile anche la sua garanzia? Cioè l'esercito?
Tolta (ammesso sia possibile) la sovranità dello Stato, tolto anche l'esercito? Simul stabunt simul cadent?
Crediamo di no.
Anzi, proprio l'affrancamento dal sovrano secolarizzato, consente il recupero del significato originario della parola "gente d'armi", quale portatrice di valori propri ed insostituibili all'interno della koinonìa, la comunità ordinata al bene comune, non capriccio dell'onnipotente irrazionale (fosse anche tutto il popolo).
Lungi dall'ipotizzare in modo ora utopistico, ora ideologico- un ordinamento privo di forza, affidato ottimisticamente al solo vigore argomentativo della parola, secondo un modello ripreso a metà del Novecento da Hanna Arendt, al contrario si deve ricordare come realisticamente lo stesso Platone avesse previsto la cogenza della prigione o l'ostracismo per chi, rinnegando la propria natura di uomo, rifiutasse i pesi connessi al privilegio dell'autonomia del soggetto.
Ed è proprio il maestro di Aristotele che, nelle articolazioni della comunità, parla sapientemente del ruolo dei guerrieri.
Di coloro cioè che eccellono nella virtù del coraggio, pronti fino al supremo sacrificio nell'interesse della comunità, ordinata non in ragione di una volontà (ecco la differenza!), ma nell'intelligenza della tensione verso il bene.
Tale sentimento, poi è innato. Dobbiamo ricordare che la sapienza classica individuava tre sentimenti principali di ogni uomo: la pulsione corporea, che produce l'istinto all'autoconservazione; la tensione intellettiva che cerca la conoscenza e lo spirito guerriero che persegue l'ideale. La gente d'arme ha questo sentimento in abbondanza. Si tratta di una grandissima potenzialità, solo che si consideri la differenza con l'aggressività dell'animale, motivata sempre e comunque alla propria conservazione. Questa è autoconservazione. No, il coraggio del soldato è tensione verso l'ideale (dialetticamente fondato) che conduce anche fino al supremo sacrificio. Sta all'intelligenza della comunità, grande o piccola, comprenderlo.
Ognuno di noi, dunque, per natura è un po' soldato, poiché ha ricevuto in dote anche un'anima irascibile, il luogo del coraggio, appunto, come ci insegna Platone.
Sta a ciascuno di noi porla in giusto equilibrio con l'anima concupiscibile e con l'anima intellettiva nella tensione alla sofrosyne, la temperanza, via per la virtù e per la felicità.
E così sia che indossiamo la divisa o meno- anche noi con Leonardo da Vinci, scienziato della rinascenza, che parafrasava Platone filosofo classico, potremo ripetere che: "non v'è maggior signoria della padronanza di sé medesimo".
|