Il processo a Peter von Hagenbach , 1474
Risale al quindicesimo secolo quello che viene comunemente indicato come il primo processo per crimini di guerra: si tratta del procedimento contro il Landvogt Peter von Hagenbach.
Questi era stato posto dal Duca Carlo di Borgogna (1433-1477, la storia ne parla attribuendogli gli epiteti di 'terribile' e 'temerario') a capo di una città chiamata Breisach, posta sull'alto Reno, con l'ordine di ridurre alla sottomissione più totale gli abitanti della città fortificata. Sebbene la città non fosse in stato di guerra (infatti i crimini di cui si tratta vennero commessi prima della guerra tra la Borgogna e la coalizione alleata), i reati dei quali il Governatore fu imputato vennero definiti come 'crimini di guerra' per due ordini di motivi: in primo luogo il confine tra guerra e pace, all'epoca, era molto più labile di quanto non lo sia oggi ed inoltre la città era considerata, in quanto effettivamente era, sotto occupazione bellica.
Von Hagenbach mirava alla corona reale per la Borgogna e nutriva anche aspirazioni imperiali che, evidentemente, erano la spinta ed il fine delle sue azioni, infatti seguì con scrupolo 'l'ordine superiore 'impartitogli instaurando un regime fondato sul terrore, dove non la legge, ma l'arbitrio, era lo strumento utilizzato per mantenere l'ordine nella città e non solo: infatti gli assassini, gli stupri, le confische e le tassazioni effettuate illegalmente unite a tutta la barbarie generalizzata danneggiavano anche gli abitanti delle terre vicine ed i mercanti svizzeri che si trovavano a transitare nella zona per recarsi alla fiera di Francoforte. I sottomessi formarono una coalizione ed assediarono Breisach; a questi si unì una rivolta di mercenari tedeschi e dei cittadini che riuscì a porre fine al regime instaurato dal Governatore della città - che venne catturato sul territorio dell'Arciduca d'Austria- .
Nel 1476 l'Arciduca, che, seguendo la terminologia giuridica attuale, era , in quanto sovrano di Breisach, 'competente per territorio e per materia', ordinò che Hagenbach venisse processato. Per il procedimento venne istituito un Tribunale o, meglio, una Corte ad hoc, i cui componenti erano i giudici di varie città della coalizione alleata con un presidente nominato dal dall'Arciduca.
La Svizzera designò alcuni giudici e, se si tiene conto della sua indipendenza - sebbene non ancora riconosciuta formalmente- nonché dello stato di disgregazione del Sacro Romano Impero, si può considerare che quello formatosi per l'occasione era un vero e proprio tribunale internazionale.
La questione della punibilità era incentrata sul dovere di obbedienza all'ordine superiore ed i suoi limiti.
L'accusa, contestando all'Hagenbach omicidio, stupro, spergiuro ed altre 'malefacta', compreso l'aver ordinato ai suoi mercenari tedeschi di uccidere liberamente gli uomini all'interno delle case per poter infierire liberamente su donne e bambini, sostenne che l'imputato aveva "calpestato le leggi di Dio e dell'uomo".
La difesa fu centrata sul dovere di obbedienza agli ordini impartiti dal Duca di Borgogna cui il Landvogt non poteva opporsi né sottrarsi.
Per sostenere questa tesi ed avvalorare con riscontri effettivi queste argomentazioni venne chiesto un rinvio del procedimento che, però, non venne concesso in quanto si ritenne che i crimini erano già stati dimostrati senza necessità di proseguire l'istruttoria e la richiesta venne, pertanto, respinta in quanto ritenuta contraria alle leggi di Dio.
In quanto cavaliere l'imputato avrebbe dovuto impedire la commissione dei crimini per i quali, invece, era stato processato; di conseguenza venne privato del titolo di cavaliere e, in ottemperanza all'ordine del Maresciallo del Tribunale: "giustizia sia fatta", venne condannato alla pena capitale e giustiziato.
Sebbene la coscienza collettiva abbia sempre e da sempre suggerito che anche la guerra si ispirasse ad una serie di regole di condotta finalizzate ad evitare o, se non altro, a limitare quanto più possibile le barbarie gratuite che hanno sempre accompagnato ogni conflitto, il processo a von Hagenbach costituisce un caso isolato.
In linea generale, infatti, si riteneva opportuno che, una volta terminato un conflitto, fosse necessario, per cercare di stabilizzare la situazione di pace raggiunta, pervenire ad una sorta di amnistia generalizzata. Gli orrori compiuti durante il conflitto, quindi, venivano cancellati con un colpo di spugna e gli autori delle peggiori nefandezze restavano impuniti e, ironia della sorte, qualora appartenessero alla parte vincitrice, venivano spesso e volentieri celebrati come veri e propri eroi.
Per di più, prima del trattato di Versailles, era pressochè inconcepibile poter anche soloipotizzare un'incriminazione dei criminali di guerra che si fondasse sulla loro responsabilità individuale.
Nel 1920 il trattato di Sévres impose all'Impero Ottomano l'obbligo, per la prima volta delineato all'interno di un trattato internazionale, di collaborare affinchè fosse possibile processare gli autori delle persecuzioni e dell'uccisione di circa un milione di armeni. Tale trattato non fu, però, mai ratificato e, come voleva la prassi consolidatasi nel corso dei secoli, il 24 luglio 1923 venne stipulato e ratificato il Trattato di Losanna che sanciva un'amnistia per tutti i crimini condannati dalla carta precedente.
Crimini di guerra e contro l'umanità si sono verificati e ripetuti nel corso dei secoli, ma il cammino che portò ai processi di Norimberga fu lungo e costellato di ripensamenti.
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Il caso Hass e Priebke
La nozione dell'ordine illegittimo per il diritto tedesco è rilevante per la valutazione della colpevolezza tanto di Karl Hass quanto di Eric Priebke. A sua volta tale illegittimità va valutata e definita alla luce del diritto internazionale di guerra, convenzionale e consuetudinario, in quanto essa conteneva e contiene le regole applicabili alla condotta delle operazioni belliche.
Tanto nel rocesso di Norimberga quanto in quello qui esaminato, furono evidenziati due parametri che escludono l'esimente dell'obbedienza all'ordine superiore:
1) la gravità dei fatti e la manifesta contrarietà dell'ordine alle norme di diritto internazionale;
2) la 'mens rea' del subordinato: questo, infatti, non si limitava ad eseguire l'ordine ma lo condivideva e, dunque, aveva un atteggiamento di compartecipazione attiva; Il secondo parametro assume particolare rilevanza soprattutto quando il sottoposto non è un soldato semplice ma un ufficiale di rango elevato, come è stato il caso di pressochè tutti i procedimenti per fatti compiuti durante il secondo conflitto mondiale.
A questi due parametri se ne aggiunge un terzo, particolarmente rilevante a questo punto della mia trattazione:
3) la valutazione delle conseguenze cui sarebbe andato incontro il sottoposto qualora, in difetto della 'mens rea', si fosse rifiutato di eseguire l'ordine, ancorchè illegittimo.
Non va dimenticato che il parametro relativo alla conoscenza e alla conoscibilità dell'ordine va esaminato nel contesto di una serie di ordini del Führer e dei vertici della Germana nazista.
Gli ordini più cruenti e più palesemente illeciti furono emanati in gran parte fuori dalle normali procedure formali, essendo praticate con finalità terroristiche ed intimidatorie e, a parte le SS, le SD o la Gestapo che ne erano i diretti destinatari, tali ordini erano mantenuti accuratamente segreti.
Un processo come quello che è stato fatto ad Hass e Priebke si giustifica soltanto se, prima di accertare quale sia stata la loro responsabilità nel compimento di un crimine insieme ad altre persone, si stabilisce che l'azione nella quale hanno preso parte è stata effettivamente di tipo criminoso, non tanto dal punto di vista morale quanto da quello giuridico. Nel caso dell'eccidiodelle Fosse Ardeatine questo punto non è totalmente scontato in quanto, se non altro da parte tedesca, è stato sempre presentato come una legittima azione di rappresaglia o di repressione collettiva. A tal proposito si pongono sia la questione se sia legittimo ricorrere a rappresaglie durante la guerra sia la questione se, qualora ciò sia legittimo, la rappresaglia si sia verificata con modalità legittime.
L'unica normativa internazionale cui ci si può appellare è la Convenzione dell'Aja del 907, che concerne la condotta della guerra terrestre, in particolare rileva la normativa inclusa nella sezione III, dal titolo 'De l'autorité militaire sur le territoire de l'Etat ennemi'. Essa si applica tipicamente ad una situazione nella quale c'è un conlitto tra due Stati ed uno di essi è occupato, almeno per quanto concerne una parte del suo territorio, dall'esercito dell'altro.
In questa situazione lo Stato occupante assume su se stesso i compiti di amministrazione e di mantenimento della pace che prima erano esercitati dall'altro Stato, quindi un azione che lo lede nell'esercizio di questa funzione può essere repressa da esso come sarebbe repressa dallo Stato che rappresenta il popolo che si trova nel territorio occupato. D'altro canto bisogna anche valutare la situazione di eccezionalità e di emergenza costituita dalla guerra, per la quale è ammissibile che la repressione possa svolgersi in modi non regolati dalle leggi dello Stato che ha 'ceduto il territorio'. Ciò significa che l'istituto della rappresaglia è ammesso purché sia finalizzato al mantenimento dell'ordine.
La situazione che si presentava in Italia nel periodo dell'occupazione tedesca era complicata dal fatto che sul territorio, oltre al governo della Repubblica sociale italiana a fianco della Germania, erano presenti anche le truppe degli Alleati.
Inoltre, un'ulteriore complicazione è quella della legittimità attribuibile al governo Badoglio come rappresentativo dello Stato italiano e dai sui rapporti con i Comitati di liberazione nazionale, cui si rifacevano i partigiani nelle loro iniziative.
Al proposito si riconosce in tutte le sentenze che il loro atto di guerra contro il nemico tedesco non era legittimo per
quanto concerne le modalità, in quanto i partigiani non costituivano una formazione di combattenti secondo i requisiti dell'aricolo 1 della Convenzione dell'Aja.
La Convenzione, nell'articolo 50, prende in considerazione il trattamento dei civili nei paesi occupati, escludendo punizioni collettive per atti individuali di cui le popolazioni non possono essere riconosciute responsabili in modo solidare.
Letto, inoltre l'articolo 46 che richiede il rispetto della vita dei civili, e la sezione III della Convenzione, concernente tutti i principali aspetti dell'occupazione di un territorio nemico, si deduce che vengono esclusi gli atti punitivi, quali sono, appunto, le rappresaglie estese a persone che non hanno alcuna rilevante responsabilità per l'atto compiuto, neppure nel senso di appartenere alla stessa organizzazione cui appartenevano coloro che ne sono all'origine. Questo significa che colpire dei civili che avevano colpito il reggimento di polizia tedesca in via Rasella non può essere giudicato legittimo. D'altra parte, la possibilità di una rappresaglia non è del tutto esclusa quando viene a colpire, seppur indirettamente, i responsabili dell'atto, in base alla considerazione che, se non si trovano i diretti responsabili, ma si è riusciti ad identificare altri che appartengono alla stessa organizzazione, questi ultimi sono punibili invece dei primi, ma devono essere rispettate quattro condizioni fondamentali, nessuna delle quali fu soddisfatta dalle misure prese dagli occupanti tedeschi a Roma.
Pertanto l'eccidio delle Fosse Ardeatine, non soddisfando nessuna delle condizioni alle quali una rappresaglia può essere ritenuta accettabile, costituì un crimine. Il Tribunale di Roma riconobbe, quindi, la piena responsabilità degli imputati escludendo l'esimente dell'ordine superiore in quanto il fatto era riconosciuto come 'manifestamente criminoso' in base ai criteri dettati dall'art.40 n.4 c.p.m.g. in vigore all'epoca dei fatti. I sottoposti dovevano, pertanto, rifiutarsi di eseguire l'ordine ma, siccome non lo fecero, vennero ritenuti responsabili insieme al superiore che l'aveva impartito.
Per quanto concerne, infine, le sanzioni in cui i destinatari degli ordini potevano incorrere in caso di disobbedienza ad ordini, anche se illegittimi, provenienti da un superiore gerarchico, l'argomento vale solo se sussistevauno stato di necessità causato dall'altrui violenza o minaccia.
Le conseguenze da valutare a questo fine consistono nel fondato pericolo di essere passati alle armi immediatamente. Solo entro questi ristretti limiti la dottrina ha preso in considerazione e ritenuto rilevante il tema della disobbedienza all'ordine superiore, considerato che un simile ordina implica la commissione di delitti disumani, in quanto causanti la morte di un elevato numero di innocenti. In alcuni procedimenti contro criminali nazisti l'argomento fu ritenuto ammissibile in linea teorica, se fosse stato provato che gli imputati, ove avessero disobbedito, sarebbero incorsi in un pericolo 'evidente e attuale', oppure 'imminente, effettivo e inevitabile'. L'esistenza di una tale situazione (definita come 'coercion', 'compulsion', duress' oppure 'contrainte') non è però stata di regola riconosciuta.
Non si riscontra alcuna correlazione tra l'imperatività di un ordine proveniente dai livelli più alti della gerarchia nazista e la gravità delle conseguenze che potevano derivare da un'eventuale disobbedienza ad esso. Il personale militare che si rifiutò di prendere parte a stragi, fucilazioni, esecuzioni di massa ed altri atti di crudeltà contro i civili, non solo non venne sanzionato in alcun modo, ma in alcuni casi venne addirittura esentato dal parteciparvi.
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