Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Profili costituzionali della gestione delle emergenze
Conferenza


Intervento al
CONVEGNO DI STUDI GIURIDICI
PADOVA, 30 NOVEMBRE 2000

Diritto e Forze armate. Nuovi Impegni

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario.
Regione Militare Nord.

Testi provvisori; trascrizioni non ufficiali.
Tutti gli interventi sono leggibili e scaricabili cliccando qui.

Si ringrazia Silvio Riondato (www.riondato.com) per la disponibilità. Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
www.studiperlapace.it - no ©
Documento aggiornato al: 2000

 
Sommario

La nostra "costituzione della difesa" si presenti come tutt'altro che soddisfacente. Essa in piccola parte è codificata e tra le disposizioni scritte alcune, come l'articolo 78, sono inutilizzabili. In larga parte non è scritta essendo affidata alle prassi o a regole convenzionali, quali quelle volute dal presidente Cossiga per disciplinare le informazioni fra Capo dello Stato altri organi costituzionali e organi militari.

 
Indice dei contenuti
 
1) La costituzione della difesa: lacune e inadeguatezze.

2) Emergenze internazionali e organi costituzionali: una ricostruzione sistematica.

3) Superamento del concetto tradizionale di crisi internazionale e competenze costituzionali.

4) La inadeguatezza dell'attuale disciplina degli organi costituzionali ad affrontare le crisi.

5) L'ingerenza umanitaria e recenti sviluppi del diritto internazionale: l'alterazione del ruolo degli organi costituzionali.

6) La partecipazione a una guerra non difensiva e il diritto costituzionale.

7) Sull'affermarsi di una consuetudine internazionale che vincola gli organi costituzionali.

8) Conclusioni
 
Abstract
 


1) La costituzione della difesa: lacune e inadeguatezze.
La Costituzione non contiene una organica disciplina delle emergenze, sia interne che internazionali. al contrario, essa ignora le prime e offre uno scarno e insoddisfacente riferimento alle seconde che vengono circoscritte al solo caso della guerra tradizionale.
Sotto questo profilo, dunque, la costituzione è particolarmente datata: al tempo dei lavori della assemblea costituente non si volle dare una disciplina normativa per le crisi interne, in quanto in un quadro di forte conflittualità politica fra partiti si temeva che la puntuale attribuzione al governo di poteri eccezionali avrebbe potuto offrire strumenti repressivi contro la parte politica esclusa dal controllo dell'apparato amministrativo di sicurezza. per quanto riguarda le crisi internazionali, la preoccupazione dei costituenti fu quella di rifiutare la tradizionale politica di potenza propria del periodo dello stato autoritario. Di qui la clausola costituzionale sul ripudio della guerra e sulla accettazione della sola guerra difensiva, nonché l'affermazione del concorso italiano alla promozione della pace. per il resto le disposizioni formali relative alla difesa e alle forze armate, cui si farà cenno, riecheggiano senza originalità formule organizzative e funzionali proprie degli ordinamenti a separazione di poteri consolidatisi nel secolo precedente. si tratta quindi di normative non originali e, soprattutto, non adeguate ai tempi. normative nate già superate dalla realtà politica e tecnologica della metà degli anni quaranta del novecento e addirittura obsolete e inutilizzabili mezzo secolo dopo.
Più specificamente dobbiamo sottolineare la assenza di una normativa organica e la inadeguatezza del regime previsto.
Sotto il primo profilo è evidente la mancanza di un complesso puntuale di disposizioni che affrontino il tema della tutela della sicurezza. Manca cioè quel corpo armonico di previsioni che qualificano quella che in altri ordinamenti è chiamata la "costituzione della difesa": individuazione chiara dei valori da proteggersi, organi e modalità della difesa, diversi regimi di intervento includenti svariati limiti all'esercizio dei diritti costituzionali durante la vigenza degli stati di crisi, questi ultimi variamente disciplinati ma tuttavia razionalmente graduati a seconda della gravità del pericolo corso dalle istituzioni e dalle popolazioni. Soltanto a titolo esemplificativo si ricorda la organicità delle previsioni delle costituzioni tedesca, spagnola, portoghese. E questo per limitarci al richiamo di sistemi politico-costituzionali vicini a quello italiano.
Sotto il secondo profilo va segnalata la inutilizzabilità delle disposizioni costituzionali formali, perché superate o addirittura perché inesistenti, con la conseguente necessità di cercare una via di fuga in prassi sostitutive o nel ricorso alla applicazione nel nostro ordine giuridico di clausole di trattati internazionali e di decisioni di organi internazionali che si sostituiscono a quelle ipoteticamente assumibili dagli organi nazionali. In pratica, la carenza di una struttura decisionale nazionale, unita alla esigenza politica di inserimento in sistemi difensivi collettivi, in una logica di dipendenza da altre potenze o almeno di impossibilità di autosufficienza, ha condotto a delegare a centri decisionali esterni la soluzione delle crisi. Dal ricorso a potenziali meccanismi di decisione diretta, sia per carenze istituzionali che per dipendenza politica, si è dunque passati alla accettazione di meccanismi di soluzione mediata da soggetti esterni all'ordine costituzionale.

La inadeguatezza cui si è fatto cenno era stata fatta presente in occasione dei lavori della Commissione Paladin, nominata dal Governo nel 1986 su sollecitazione del presidente Cossiga, che ai tempi della legislatura si è occupata del problema del comando delle forze armate e, più in generale, dei profili costituzionali della difesa: nonostante la ricchezza del dibattito nessun risultato positivo ne uscì quanto a ripensamento delle previsioni costituzionali. Anche l'attività dei diversi organismi formati in sede parlamentare per mettere mano alla revisione della costituzione è stata del tutto deludente. L'ultima commissione bicamerale in ordine di tempo era giunta a proporre un testo che includeva alcuni ritocchi a un sistema che sarebbe rimasto sostanzialmente simile a quello noto: si proponeva un assurdo meccanismo di delibera dello stato di guerra, da riservare al parlamento a camere riunite, l'estensione della competenza del Consiglio Supremo di Difesa alla politica estera, una autorizzazione parlamentare per l'invio di corpi militari in missione di pace all'estero. Ben misero risultato se comparato a quanto offriva l'insegnamento di un largo numero di ordinamenti. Rimaneva quindi confermata la antica preclusione tenacemente sostenuta dai partiti della sinistra secondo cui la inclusione in costituzione di un organico regime degli stati di crisi, con contestuale inevitabile previsione di possibili sospensioni necessitate di garanzie costituzionali, avrebbe comportato apertura ad abusi da parte del governo in carica. Di conseguenza veniva convalidata la necessità di ricorrere a prassi non codificate e ad accettare la delega a organismi internazionali, nel senso ricordato.

2) Emergenze internazionali e organi costituzionali: una ricostruzione sistematica.
Dopo quanto premesso, venendo al tema della gestione delle emergenze internazionali, il ruolo degli organi costituzionali va considerato non solo alla luce delle scarse previsioni del testo della costituzione ma, soprattutto, procedendo a un inquadramento in quelli che sono i principi che reggono la forma di governo voluta dai costituenti.
Si può quindi partire dalla semplice considerazione per cui la nostra è una forma di governo parlamentare e che quindi le scelte di indirizzo che riguardano la difesa nazionale, e se del caso le emergenze, devono discendere da forme di collaborazione fra Governo e Parlamento. Ciò è confermato con evidenza da quanto dispone l'articolo 78 della costituzione, che impone una delibera parlamentare dello stato di guerra, sicuramente su eventuale iniziativa governativa, e dall'articolo 80, che prevede che i trattati internazionali, e quindi anche quelli che riguardano la sicurezza dello stato e le tematiche militari, non potrebbero non passare attraverso forme di collaborazione fra Parlamento e Governo, necessitando i testi negoziati dal Governo un vaglio parlamentare al fine di autorizzarne la ratifica ed esecuzione.
Quindi, ferma restando la naturale attitudine del Governo a capacità organizzativa e di intervento tramite il ricorso all'apparato amministrativo e alle Forze Armate, spettano al Parlamento le attribuzioni in tema di indirizzo e controllo politico.
Altro elemento da ricordare è dato dal ruolo del Presidente della Repubblica, ruolo significativo anche in una forma di governo parlamentare in cui il capo dello stato non ha attribuzioni di decisione politica, e non è pertanto in senso proprio organo di governo ma unicamente di mediazione e raccordo fra le diverse istanze costituzionali, nonché di garanzia dell'osservanza dei valori costituzionali. In quest'ottica gli è attribuito il comando delle Forze Armate, inteso non come comando in senso tecnico-militare ma come funzione di garanzia di controllo sull'insieme complessivo degli organi e delle competenze finalizzate alla difesa dello stato e dei suoi valori costituzionali.
E' pacifico che l'avere individuato il capo dello stato come comandante delle Forze Armate significa riconoscere un principio affermatosi in via formale nelle costituzioni francesi del periodo rivoluzionario, quando si volle inserire in costituzione la supremazia degli organi del c.d. "potere civile" su quelli del "potere militare". Con questi termini, non necessariamente in linea con la terminologia costituzionalistica, ma sicuramente efficaci, il potere proprio dell'apparato militare, dotato della forza delle armi, veniva subordinato alla decisione politica degli organi legittimati dal consenso della nazione, espressione della intera società civile.
La nostra costituzione fa proprio questo basilare principio organizzativo, caratteristico di tutti gli ordinamenti politici di derivazione liberale, e individua nel Presidente, e non nel Governo, l'organo cui subordinare l'apparato militare al fine di garantirne l'osservanza dei principi costituzionali e ciò in quanto si è voluto scegliere fra gli organi del potere civile quello sicuramente alieno da possibili faziosità che ne avrebbero compromesso la attendibilità come garante. Non sarebbe quindi stato possibile far riferimento al Governo, legato a una maggioranza parlamentare e per definizione di parte. Bisognava far capo a qualcuno che fosse al di sopra delle parti e quindi garante di tutti in caso di rischi di conflittualità politica. Per l'appunto al Presidente, che la costituzione vuole estraneo alla dialettica partitica e alle diatribe parlamentari, organo super partes che rappresenta l'intera nazione, e più precisamente la "unità nazionale" (articolo 87) da contrapporsi alla naturale frammentazione delle politiche di parte riferibili a Governo e Parlamento. Sulla base di queste considerazioni dunque, credibilmente, spetta al Presidente una importate funzione di garante che esercita una doverosa vigilanza sull'insieme degli organi e delle competenze riferibili alla tutela della sicurezza anche nelle situazioni di emergenza.

3) Superamento del concetto tradizionale di crisi internazionale e competenze costituzionali.
La costituzione ignora tutte quelle situazioni che vengono definite di "crisi" o di "emergenza" diverse dalla guerra internazionale, in questo rivelandosi profondamente lontana da quelle soluzioni organizzative e funzionali che sono state introdotte in altre costituzioni, quali quella tedesca, spagnola e portoghese. E questo soltanto per menzionare alcuni esempi di ordinamenti vicini a quello italiano. Mancano quindi puntuali previsioni relative alla definizione dei diversi "stati di crisi", cioè dei diversi regimi giuridici di eccezione durante i quali possono disporsi in via temporanea regimi derogatori delle garanzie costituzionali. Mancano indicazioni formali riguardanti le condizioni e modalità di instaurazione di tali regimi e il ruolo dei diversi organi costituzionali nella deliberazione e gestione delle emergenze diverse dalla guerra internazionale.
Questa carenza normativa, tuttavia, non ha certo impedito nel tempo la ricorrenza di situazioni di crisi e la conseguente necessità di affrontarle, trovando adeguate soluzioni in via di prassi.
A grandi linee si può ricordare il caso più volte ripetutosi della esigenza di inviare missioni militari per assicurare il mantenimento della pace o per imporre la pace in aree geografiche al di fuori del territorio nazionale. Per questo tipo di emergenze non esistevano e non esistono specifiche disposizioni costituzionali abilitanti e l'eventuale ricorso a una interpretazione estensiva della clausola dell'articolo 78 non appariva appropriata.
In tempi recenti, per la prima volta dopo la entrata in vigore della costituzione, l'Italia si è trovata coinvolta in una guerra internazionale, partecipando al conflitto deciso dalla Nato contro la Jugoslavia. In questo caso, non soltanto si è messa da parte la volontà del costituente intesa al ripudio di qualsiasi forma di guerra che non fosse quella meramente difensiva, ma neppure si è mai pensato di attivare la procedura dell'articolo 78.
In altre parole, osservando il panorama che ci offre l'attuale disciplina costituzionale delle emergenze risulterebbe questo assurdo spettacolo: da un lato esiste una evidente lacuna normativa che riguarda la generalità delle ipotesi di crisi internazionali diverse dalla guerra tradizionalmente intesa; dall'altro, quando si profila la esigenza di intervenire in una guerra internazionale, la normativa specifica prevista espressamente in costituzione non viene utilizzata. Purtuttavia la prassi prevede interventi militari all'estero che comportano il ricorso all'uso della forza armata, come dimostrano le esperienze del Golfo, della Bosnia , del Kossovo.
Come si spiega questo vistoso insieme di carenze e incongruenze?
La chiave di lettura per comprendere questa ambigua situazione è offerta dall'appiglio dell'articolo 11 della costituzione che, tra l'altro, prevede che l'Italia "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".
In pratica, in carenza di puntuali normative costituzionali in tema di deliberazione e gestione delle crisi si è trovata una via d'uscita rimettendo le relative responsabilità agli organi direttivi di organizzazioni internazionali competenti in materia di sicurezza collettiva e, contemporaneamente, deresponsabilizzando la linea decisionale spettante agli organi costituzionali. L'Italia ha dunque delegato alle Nazioni Unite, alla Nato, all'Osce la scelta del se, come e quando intervenire.
Riflettendo su quelle che sono le linee organizzative della costituzione, che richiedono un intervento del Parlamento e del Governo nell'assunzione delle decisioni di indirizzo politico internazionale, la prassi seguita in concreto può sintetizzarsi in questi semplici parametri. In un primo tempo si assume una decisione quadro intesa ad affidare a un organizzazione internazionale la decisione relativa al modo di affrontare e gestire la crisi: formalmente si tratta di accettare in sede parlamentare ex articolo 80 la iniziativa governativa di accordo internazionale per cui viene data con legge la autorizzazione alla ratifica ed esecuzione. Da questo momento in avanti spetta al Governo mantenere i contatti con i partners dell'accordo internazionale e partecipare alla attività degli organi della organizzazione internazionale. In un secondo tempo può scattare il casus foederis previsto dall'accordo. Soltanto il Governo può svolgere un ruolo all'interno dell'organo internazionale che è l'unico vero arbitro della decisione iniziale e della successiva gestione di ogni attività. Il Parlamento, come si ricorderà meglio fra poco, potrà solo marginalmente "controllare" ma con scarsi margini di incisività.
Da un punto di vista pratico, a prescindere dagli artifici giuridici, l'Italia ha trovato nella prassi seguita un modo per conciliare una situazione di dipendenza politica, formalizzata oggi in numerosi atti internazionali, con un efficace meccanismo di delegazione di responsabilità a centri di decisione esterni all'ordine costituzionale. Si può quindi ritenere che il decentramento di competenza in materia di sicurezza ad autorità esterne all'insieme degli organi costituzionali abbia fatto meno pesare la obsolescenza e incompletezza delle previsioni del testo costituzionale.
Tuttavia tale compromesso pone un delicato problema di costituzionalità. Infatti l'articolo 11 prevede come condizione sine qua non della possibile limitazione di sovranità che la stessa venga determinata "in condizioni di parità". Ma ove divenga operativa una delega attribuita ad organismi internazionali, quali la Nato, gli organi costituzionali italiani non vengono investiti della decisione e quindi non sono in grado di valutare la situazione concorrendo liberamente alla decisione finale. In altre parole, la parità con altri stati richiederebbe una partecipazione attiva dell'Italia e dei suoi organi costituzionali, il che non si può riscontrare nella prassi, con evidenti riflessi nella valutazione del rispetto o meno dell'articolo 11.

Recentemente la legge 14 novembre 2000, n. 331 che detta "Norme per l'istituzione del servizio militare professionale" contiene alcune disposizioni di rango legislativo che ratificano la situazione che si è illustrata.
Innanzi tutto la legge espressamente abbina il "compito prioritario" di "difesa dello Stato" al "compito di operare al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità alle regole del diritto internazionale ed alla determinazioni delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia fa parte"(cfr: articolo 1, 3° e 4° comma). Inoltre la legge, con riferimento ai criteri di mantenimento di forme di servizio obbligatorio, parifica l'ipotesi di "deliberato stato di guerra ai sensi dell'articolo 78 della Costituzione" a quella di "una grave crisi internazionale nella quale l'Italia sia coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione internazionale"(cfr. articolo 21° comma, lettera f)).
Non è chi non veda il significato di tali inserti normativi.
La legge prende ormai atto di una profonda evoluzione che si è verificata nei decenni passati. Essa, in primo luogo, va oltre a una concezione del valore "sicurezza" identificato con forme di tutela usualmente qualificate dal concetto di "difesa nazionale", difesa che comprende la protezione armata delle istituzioni, del territorio, delle popolazioni (cfr. i richiami espliciti nell'articolo 52, in tema di dovere di difesa, e impliciti nell'articolo 11, che ripudiando la guerra offensiva e quella finalizzata alla soluzione di controversie fra stati ammette unicamente quella a scopo di difesa).
La sicurezza da assicurare va ben oltre i confini nazionali. Essa è un valore che investe le relazioni fra stati e situazioni localizzabili nelle più svariate aree purché connettibili a interessi nazionali. Il collegamento che consente l'espansione dell'interesse nazionale all'esterno dell'area soggetta alla sovranità diretta dello Stato è individuato in due modi: quando l'impegno italiano scatti per attivazione di norme di diritto internazionale e quando ricorrano specifiche determinazioni di organismi internazionali di cui l'Italia fa parte. In pratica la formula legislativa richiama in modo ampio sia possibili interventi giustificabili alla luce del diritto internazionale umanitario, sia interventi conseguenti a puntuali decisioni assunte nelle competenti sedi di organizzazioni appositamente incaricate. La formula che lega la possibilità di intervento alla "realizzazione della pace e della sicurezza" è particolarmente generica e ampia, tale da lasciare al Governo e agli organismi internazionali una sostanziale libertà di valutazione e decisione in merito.
Tutto questo deriva dalla lettura della prima disposizione richiamata. Ma anche la lettura della seconda va in questa direzione.
Quest'ultima, in primo luogo, ha il merito di avvicinare l'ipotesi dello stato di guerra di cui all'articolo 78 a quella di "crisi internazionale", anzi di "grave" crisi internazionale. Gli stati di crisi, della più svariata natura, entrano quindi nel panorama normativo ampliando lo spettro degli "stati" previsti dalla costituzione, che, come sappiamo, coincidono col solo stato di guerra. Anche a tale proposito la legge prevede il caso della esigenza di intervento legata ad autonoma valutazione degli organi nazionali, da ipotizzarsi in caso di ricorso a norme del diritto internazionale generale, e quello in cui la partecipazione italiana sia conseguenza della appartenenza a una organizzazione internazionale e quindi alla determinazione dei suoi organi direttivi.

4) La inadeguatezza dell'attuale disciplina degli organi costituzionali ad affrontare le crisi.
Fino a questo momento l'attenzione è stata concentrata sulla individuazione dei presupposti di emergenza che giustificano gli interventi, nonché sul ruolo svolto dalle determinazioni di organismi internazionali nel decidere l'intervento. Si è anche notato il ruolo determinante del Governo nel decidere l'attuazione di quanto determinato in sede internazionale, dando quindi operatività a tali determinazioni tramite l'invio di corpi militari all'estero. In pratica in tutti i casi verificatisi di emergenze, ivi compreso il caso della guerra in Kossovo, si è sempre dato il caso di decisioni assunte, sulla base di precedenti accordi, con la partecipazione del Governo italiano e di loro attuazioni ad opera dello stesso Governo. In questo panorama è marginale il ruolo del Parlamento, che pur dovrebbe essere presente nelle scelte di indirizzo in virtù di un richiamato principio di collaborazione col Governo, caratteristico della forma di governo parlamentare.
In realtà, una volta dato l'assenso al trattato iniziale il Parlamento svolge un ruolo minore. Sono rari i casi in cui si sia verificato un suo intervento preventivo di natura autorizzatoria, mentre la regola è data da interventi successivi alla decisione governativa.
Questi interventi hanno principalmente natura di controllo politico sulle decisioni governative e si svolgono nelle commissioni affari esteri e difesa di Camera dei deputati e Senato. Una modalità abituale di verifica dell'azione governativa si svolge in occasione dell'esame dei decreti-legge adottati sistematicamente dal Governo, sotto la sua responsabilità, al fine di consentire il finanziamento delle operazioni all'estero.
Se la osservazione del ruolo svolto dal Parlamento dà adito a perplessità sotto il profilo della debolezza del suo peso decisionale, in quanto le camere sono di regola condizionate dalla esigenza di condividere una linea di fedeltà a impegni internazionali assunti, anche a proposito del ruolo del Governo ci sarebbero da fare rilievi non marginali quanto alla efficienza e incisività dei suoi interventi. In diverse circostanze, infatti, si è sentita la mancanza di un organismo decisionale snello a disposizione del Presidente del Consiglio, diverso dal pletorico Consiglio dei Ministri che è il solo organo decisionale voluto dalla attuale costituzione.
Al contrario, si sa che in altre esperienze costituzionali esistono soluzioni organizzative particolarmente adatte a discutere e risolvere le situazioni di crisi, con chiari vantaggi pratici per le esigenze di sicurezza. Quindi va sottolineato che l'Italia non è dotata nè di un governo a composizione ristretta come il cabinet inglese, funzionante abitualmente, né di un gabinetto di crisi quale il war cabinet, a formazione ancora più contenuta da costituire in caso di guerra o di grave crisi internazionale.
La possibilità offerta, non dalla costituzione ma dalla legge 23 agosto 1988, n. 400, è quella di formare un "consiglio di gabinetto", che è in realtà un comitato di ministri dotato, almeno formalmente, di attribuzioni solo preparatorie e che nella prassi non viene utilizzato per le emergenze, anche se non manca la testimonianza che abbia marginalmente trattato casi del genere.
Piuttosto nella prassi è stato il Consiglio Supremo di Difesa, previsto dall'articolo 87, che a volte sembra aver fatto le veci di un gabinetto di crisi. Si tratta di una evidente anomalia perché il Consiglio è presieduto dal Presidente della Repubblica, che ha attribuzioni di garanzia e non di indirizzo politico, e ha fra i suoi componenti il Capo di Stato Maggiore della Difesa, organo tecnico e non politico: resta il fatto che la legge 28 luglio 1950, n. 624 ha impropriamente dato al Consiglio anche competenze di indirizzo e che il regolamento D.P.R. 4 agosto 1990, n. 251 ha ritoccato la struttura dell'organo prevedendo una sorta di diarchia fra Capo dello Stato e Presidente del Consiglio. Queste normative porrebbero delicati problemi di raccordo con i principi costituzionali tipici della forma di governo parlamentare che non possono essere qui analizzati. Resta il dato, importante, dell'utilizzo in concreto del Consiglio come organo in cui dibattere le emergenze, come si desume dagli stessi comunicati rilasciati al termine delle sue riunioni. Quindi appare certo che il Consiglio non sarebbe soltanto sede in cui offrire informazioni e aggiornamenti al Presidente della Repubblica per consentirgli l'attivazione della sua funzione di garante ma anche sede decisionale, seppure informale. Una conferma di un ruolo del Consiglio non meramente ausiliario delle funzioni presidenziali è data dalla legge 18 febbraio 1997, n. 25, che prevede che il Ministro della Difesa "attua le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte al Consiglio supremo di difesa e approvate dal Parlamento" (articolo 1, 1° comma, lettera a). Pur non essendo chiarito né il momento dell'intervento del Consiglio, né la natura dei poteri esercitati in seguito alla "sottoposizione" al suo esame, sembra che comunque il suo ruolo non sia di mera forma, in quanto il Consiglio viene inserito nel processo di formazione delle decisioni di indirizzo interessanti la difesa e quindi anche la gestione delle crisi. Al riguardo si può notare come soltanto la prassi potrebbe offrire una chiarificazione dell'effettivo ruolo del Consiglio Supremo di Difesa. Apparirebbe quindi non improprio riconoscergli un ruolo significativo soprattutto nei periodi di debolezza della posizione del Governo e incremento in via di fatto del ruolo del Capo dello Stato, come avvenuto nella esperienza italiana in certi momenti delle presidenze Cossiga e Scalfaro.

5) L'ingerenza umanitaria e recenti sviluppi del diritto internazionale: l'alterazione del ruolo degli organi costituzionali.
Dunque per molti anni si è implicitamente ammesso un ruolo prioritario del Governo nel promuovere accordi internazionali ma anche nell'attuare le clausole di attivazione degli impegni assunti, riservando dal punto di vista politico al Parlamento un ruolo di adesione alle scelte governative, mentre da un punto di vista istituzionale prevalentemente formale spettava allo stesso sia la funzione di indirizzo preventivo sia quella di controllo successivo. Ad un tempo, come notato, il Consiglio Supremo di Difesa fungeva da osservatorio per il Capo dello Stato ma anche, in certi casi, da centro in cui attivare una forma di codeterminazione fra Governo e Presidente della Repubblica nella sua qualità di titolare del comando delle Forze Armate.
Questo assetto, soltanto in parte riconducibile a quelli che sono i canoni della forma di governo prevista dalla costituzione del 1948, era quello presente al momento in cui l'Italia si è trovata coinvolta in una guerra internazionale quale quella iniziata dalla Nato contro la Jugoslavia al fine di salvaguardare la popolazione di etnia albanese nella provincia del Kossovo. Si è trattato di un evento particolarmente grave: non solo l'Italia partecipava a una guerra dopo più di mezzo secolo, ma il conflitto non poteva certo ricondursi al solo caso di guerra difensiva consentita esplicitamente dalla costituzione. Inoltre, come già sottolineato, la guerra veniva indetta senza l'attivazione della complessa procedura dell'articolo 78, tramite una determinazione assunta dagli organi competenti della Nato, la quale nel frattempo aveva sensibilmente mutato la sua natura.
La Nato era sorta come organizzazione di legittima difesa collettiva con funzioni limitate all'area territoriale degli stati membri, si era poi trasformata in organismo in grado di svolgere operazioni di peace Keeping e peace enforcement fuori dell'area soggetta alla sovranità dei suoi membri ma in cooperazione con le Nazioni Unite, e infine si era svincolata da tale rapporto collaborativo o addirittura si presentava come sostituto delle stesse Nazioni Unite. E ciò senza che Governo e Parlamento prendessero in qualche modo atto di tale mutato regime nel doveroso rispetto delle previsione costituzionali nazionali, in quanto veniva accettata la singolare tesi di legittimità della estensione in via unilaterale delle funzioni della Nato dovendosi considerare le operazioni "fuori area" come manifestazione aggiornata della autodifesa collettiva e affermandosi che la tutela della pace e della stabilità nell'area euroatlantica rientravano in una ampia accezione di difesa.
Due sono quindi i più recenti profili di perplessità che ulteriormente complicano il già incerto panorama della disciplina costituzionale delle emergenze: in primo luogo la partecipazione italiana a una guerra diversa da quella difensiva; in secondo luogo la revisione autodeterminata delle finalità della alleanza da parte degli organi Nato, senza rispetto delle procedure costituzionali di cui all'articolo 80, e l'ampliamento evidente del ruolo della Nato in seno alla comunità internazionale manifestato dalla determinazione di iniziare le ostilità contro uno stato sovrano sulla base di proprie valutazioni ignorando il ruolo degli organi delle Nazioni Unite come avrebbe richiesto il regime internazionale formalmente vigente.

6) La partecipazione a una guerra non difensiva e il diritto costituzionale.
Che l'intervento militare in Kossovo abbia avuto natura di "guerra" sembra certo. L'intervento era diretto a distruggere il potenziale militare e il regime politico di uno stato sovrano. L'intervento, ad un tempo, non era riconducibile al concetto di guerra difensiva di cui all'articolo 11, la cui formulazione e il cui fine sono compatibili col concetto di "diritto di legittima difesa individuale e collettivo" previsto dall'articolo 5 del trattato del Nord Atlantico, richiamantesi all'articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, che consente la legittima difesa in caso di attacco armato, e all'articolo 53 che riconosce azioni coercitive da parte di organizzazioni regionali, quali la Nato, sulla base di previe deliberazioni del Consiglio di Sicurezza, clausola, quest'ultima, che esclude la legittimità di un intervento in assenza d'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Clausola, quest'ultima, che esclude la legittimità di un intervento in assenza di autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
In passato, l'intervento in una situazione di grave crisi internazionale implicante l'uso massiccio della forza armata per finalità difensive, previa delibera del Consiglio di Sicurezza, si è avuto nel caso della c.d. "Guerra del Golfo" nel 1990. La maggioranza dei casi di invio di corpi militari all'estero ha avuto come finalità quella di assicurare la pace, con o senza impiego delle armi, sulla base di accordi bilaterali o multilaterali. In tutti questi casi la presenza di reparti italiani e il possibile ricorso alle armi era stato richiesto o consentito dal paese ospitante. Il primo esempio in tal senso di autolimitazione della propria sovranità territoriale è dato dalla missione svolta per le Nazioni Unite in Egitto nel 1956 e il più recente è offerto dalla partecipazione alle operazioni in Bosnia a far tempo dal 1992, dove il consenso è stato rilasciato da tutte le diverse realtà statuali presenti nella regione. Nel caso dell'intervento in Kossovo non solo non vi è stato consenso da parte dello stato esercitante la sovranità sul territorio ma lo stesso ha considerato l'azione della Nato come una forma di illecita aggressione. Ad un tempo gli stati intervenienti in seno alla Nato non avevano subito aggressione e quindi mancavano le caratteristiche che potessero far considerare la guerra come difensiva.
Sensibilmente diversa era allora la giustificazione della guerra: la Nato, cessata la esigenza di operare solo come alleanza difensiva a causa del venir meno del pericolo sovietico, non soltanto si qualificava come organizzazione intesa ad operare per il mantenimento o l'imposizione della pace, come nel caso della Bosnia, ma si proponeva come garante del rispetto dei diritti umani e delle minoranze etniche e come strumento di repressione di un genocidio. Per raggiungere simili obiettivi non escludeva di ricorrere a una vera e propria guerra intesa ad eliminare un regime politico, proponendosi di distruggere l'apparato bellico del paese, occupando parte del suo territorio, arrecando serie offese alla popolazione civile e danni significativi alla sua economia. Questa situazione, inevitabilmente, pone l'interrogativo circa l'ammissibilità del ricorso alla guerra per motivi umanitari: problema di per sè stesso drammatico che la Nato ha risolto pragmaticamente nel senso di ammettere la guerra in quanto si considera detentrice del corretto modo di interpretare l'esigenza di intervento ignorando ad un tempo quello che è il ruolo degli organi delle Nazioni Unite. Contemporaneamente la Nato ha deciso di mutare le proprie finalità istituzionali in via unilaterale, sulla base di delibere del proprio organo di governo, senza curarsi della mancanza di una preventiva formale riforma del trattato.
In parallelo a quanto notato sta la situazione italiana. Sul mancato ricorso alla procedura di revisione del trattato secondo la norme della costituzione si è già detto. Sulla ammissibilità nell'ordinamento italiano di una forma di guerra, "umanitaria" sì ma sempre guerra, non prevista dalla costituzione il discorso è tutt'altro che semplice anche se non si è fino ad oggi creduto di affrontarlo in sede istituzionale. Quello che è certo è che i costituenti hanno escluso il ricorso alla guerra per risolvere situazioni anche tragiche, quali quelle dell'esodo albanese dal Kossovo, che avrebbe dovuto essere affrontato e risolto tramite negoziazioni, non con la guerra. In questo senso è il dettato costituzionale anche se inutilizzabile nel caso specifico, in quanto le negoziazioni si erano rivelate senza successo.
In realtà la attuale costituzione presenta sul punto un vuoto. Soltanto con una forzatura si potrebbe argomentare che la abilitazione dell'articolo 11 a partecipare a organizzazioni che assicurino la pace e la giustizia fra le nazioni includa la partecipazione a organismi che promuovano guerre devastanti per raggiungere tale obiettivo. Infatti per tale risultato occorrerebbe dimenticare il tassativo divieto di guerra che è codificato nella precedente parte dello stesso articolo. Senza contare che la guerra definita umanitaria conduce, come mostra l'esempio del Kossovo, a rinnegare un principio classico del diritto internazionale, ribadito dalle clausole del c.d. "primo cesto" dell'Atto Finale di Helsinky del 1975, secondo cui le frontiere sono inviolabili e non è consentita ingerenza negli affari interni di terzi stati.

7) Sull'affermarsi di una consuetudine internazionale che vincola gli organi costituzionali.
Si può obiettare che il diritto di ingerenza umanitaria che sta prendendo piede a livello mondiale va esattamente in controtendenza rispetto ai richiamati principi tradizionali e che quindi alcune certezze non sono più tali. Ma resta il fatto che la costituzione italiana non ha ancora recepito le novità. Non resterebbe allora che chiedere aiuto all'articolo 10, nella parte in cui prevede un automatico adeguamento dell'ordine giuridico italiano al diritto internazionale generalmente riconosciuto. Ci si può al riguardo chiedere se veramente la comunità internazionale abbia rigettato il principio di sovranità territoriale, come dimostrerebbe ad esempio la istituzione, anche se non la attivazione, del Tribunale permanente per la repressione dei crimini contro l'umanità, istituzione che dimostra in modo tangibile il superamento del principio della territorialità del potere coercitivo degli stati. Sarebbe in corso un silenzioso processo di modifica di regole che metterebbe capo alla formazione di una vera e propria consuetudine internazionale abilitante all'intervento per ragioni umanitarie che, in tal caso, sarebbe operativa in Italia tramite la valvola dell'articolo 10. A ben vedere, tra l'altro, l'affermarsi di una consuetudine che prevedesse il diritto o addirittura il dovere di intervento umanitario armato potrebbe conciliarsi con la attivazione di soluzioni organizzative dirette a prevenire e reprimere i crimini contro l'umanità. Quindi si potrebbe riscontrare l'utilizzazione congiunta, nel senso accennato, di entrambe le previsioni degli articoli 10 e 11.
La prevalente dottrina esclude tuttavia la avvenuta formazione di una consuetudine abilitante all'intervento umanitario e, anzi, la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Nicaragua/Stati Uniti (ICJ Reports, 1996) nega la legittimità dell'uso della forza finalizzato al rispetto dei diritti umani.
E' quindi probabilmente corretto ritenere che soltanto in alcuni membri della comunità internazionale si faccia strada la opinio iuris della legittimità dell'intervento, mancando sicuramente il requisito della generale condivisione della medesima. Siamo allora in presenza unicamente di una tendenza emergenti da una prassi, non di un principio generalmente condiviso. E, in tal senso, la risoluzione 1244 del 10 giugno 1999, adottata dal Consiglio di Sicurezza al termine del conflitto, andrebbe vista come una "ratifica" dell'operato della Nato che riconduce a legalità un intervento che tale non era. Tale ratifica non sarebbe stata certo richiesta ove l'intervento fosse stato pacificamente ritenuto legittimo i virtù della discussa consuetudine.
A parte tale rilievo, va poi sottolineato che non vi é assolutamente chiarezza sul contenuto della supposta consuetudine: deve ritenersi limitata alla legittimità dell'intervento o addirittura deve estendersi alla sua doverosità? Per quanto riguarda specificamente la situazione italiana, resta il fatto che l'intervento é stato giustificato in sede politica sia in base al diritto internazionale umanitario, sia in base al trattato Nato. Ma tali giustificazioni, come si é premesso, non appaiono tranquillizzanti: non esiste una sicura consuetudine internazionale abilitante all'intervento e, per quanto riguarda il diritto pattizio, non esiste nel trattato Nato una clausola che abiliti gli organi comuni della alleanza a tale tipo di intervento.
Con riferimento alla supposta consuetudine internazionale va poi ricordato che serie perplessità sussisterebbero quanto alla sua rilevanza nell'ordinamento italiano, in quanto non é assolutamente pacifica la recezione di consuetudini eventualmente confliggenti con i principi fondamentali caratterizzanti la costituzione, quali quello della ammissione della sola guerra difensiva.
Di conseguenza, per l'ordine giuridico italiano, non vi sarebbe una sicura giustificazione alla partecipazione, né in base a quanto la costituzione prevede all'articolo 10, né sul presupposto dell'articolo 80 collegato all'articolo 11. Ma in via subordinata va rilevato che serie perplessità permarrebbero con riferimento alle modalità attraverso cui é stato nel caso concreto deciso l'intervento e cioé con riferimento alla determinazione assunta in seno agli organi della alleanza.
Infatti tale determinazione va configurata, secondo una interpretazione da condividersi, come un vero e proprio accordo in forma semplificata che é stato adottato in una materia che avrebbe dovuto sottostare ai vincoli formali previsti dall'articolo 80.
Sostenere che la decisone dei rappresentanti degli stati ha natura meramente esecutiva del trattato Nato e che é giuridicamente possibile riconoscere agli organi previsti dal trattato una ampia libertà di decisione che coinvolge tutta la vastissima area della tutela della sicurezza collettiva é errato: il trattato non ha previsto espressamente simile competenza. Gli stati quindi non hanno assegnato agli organi Nato la competenza a decidere interventi del tipo di quello in oggetto e pertanto appare riduttivo e semplicistico sostenere che le determinazioni che rientrano nel quadro degli impegni di larga massima previsti dal trattato, in quanto esecutive dei primi, non richiedano il vaglio degli organi costituzionali italiani come voluto dall'articolo 80. Conclusivamente, a prescindere dalla legittimità in linea di principio dell'intervento, va notato che anche la procedura in concreto seguita é sicuramente discutibile in quanto ha comportato l'accantonamento delle competenze costituzionali previste dall'articolo 80.
Per ovvie ragioni molte delle riflessioni premesse devono essere presentate al condizionale, in quanto a fronte di una prassi interventista non è stato ancora possibile individuare la presenza sicura di una norma abilitante. La questione resta quindi aperta.

8) Conclusioni
A titolo di conclusione non resta che ribadire come la nostra "costituzione della difesa" si presenti come tutt'altro che soddisfacente. Essa in piccola parte è codificata e tra le disposizioni scritte alcune, come l'articolo 78, sono inutilizzabili. In larga parte non è scritta essendo affidata alle prassi o a regole convenzionali, quali quelle volute dal presidente Cossiga per disciplinare le informazioni fra Capo dello Stato altri organi costituzionali e organi militari. Da quanto emerge dalle riflessioni svolte, tradizionalmente le inadeguatezze della costituzione riguardavano carenze organizzative (l'assenza di un gabinetto di crisi) e funzionali-procedurali (insufficienze dell'indirizzo e del controllo parlamentare). Oggi improvvisamente ci si accorge che in tema di gestione delle crisi internazionali, e addirittura di guerra, vengono messe in forse scelte di fondo che sono state tradizionalmente considerate qualificanti l'ordine giuridico nazionale, quali il rifiuto della guerra con la stretta eccezione di quella difensiva. Il discorso critico sulla costituzione della difesa deve quindi essere riaperto. E questo sia a causa dei potenti condizionamenti che la realtà internazionale sta imponendo al diritto costituzionale, sia a causa del mutato ruolo della Nato al di fuori di qualsiasi riconsiderazione da parte dell'apparato costituzionale nazionale, sia perché le timide proposte di revisione avanzate in sede di commissione bicamerale per le riforme nel testo trasmesso alle Camere il 4 novembre 1997 dimostrano la totale mancanza di cultura della sicurezza nazionale e delle sue connessioni internazionali e invitano a un dibattito critico in sede tecnica da poter sottoporre ai titolari del potere politico al fine di una necessaria sensibilizzazione su quella che è una ormai improcrastinabile esigenza.

 
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