Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Versione integrale
Dalla cooperazione alla frattura: i rapporti fra Nazioni Unite e NATO alla luce della crisi jugoslava
Conferenza

Intervento al
CONVEGNO DI STUDI GIURIDICI
PADOVA, 30 NOVEMBRE 2000

Diritto e Forze armate. Nuovi Impegni

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario.
Regione Militare Nord.

Testi provvisori; trascrizioni non ufficiali.
Tutti gli interventi sono leggibili e scaricabili cliccando qui.

Si ringrazia Silvio Riondato (www.riondato.com) per la disponibilità. Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
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Documento aggiornato al: 2000

 
Sommario

La fine della guerra fredda impose agli Stati membri della NATO una scelta storica: smantellare l'Alleanza a causa della sopravvenuta estinzione del pericolo di attacco armato da Est, ovvero adattarla al mutato quadro strategico e politico.

 
Abstract
 

La fine della guerra fredda impose agli Stati membri della NATO una scelta storica: smantellare l'Alleanza a causa della sopravvenuta estinzione del pericolo di attacco armato da Est, ovvero adattarla al mutato quadro strategico e politico.

Già a partire dal luglio 1990, il Consiglio Atlantico decise senza esitazione per la seconda opzione ( ). Questo portò, da un lato, all'allargamento dell'organizzazione ( ) e allo sviluppo dei rapporti con gli Stati dell'Europa Orientale e con la Federazione Russia in particolare ( ); dall'altro all'assunzione da parte dell'Alleanza di nuove responsabilità e funzioni non previste nel Trattato istitutivo concluso nel 1949 ( ).

Sotto il secondo profilo, la dottrina strategica adottata nel novembre 1991, oltre a confermare la natura puramente difensiva dell'Alleanza, affermò l'impegno di questa a promuovere relazioni pacifiche fra gli Stati, a sostenere la democrazia, nonché a gestire le crisi internazionali in cui fossero coinvolti gli interessi degli Stati membri ( ).

Pressoché simultaneamente, la nuova dottrina strategica trovò concreta applicazione nella crisi iugoslava attraverso il coinvolgimento delle forze NATO in attività militari coercitive dirette, in primo luogo, ad assicurare l'effettivo rispetto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza relative all'embargo sulle armi ( ) e alle sanzioni economiche ( ), nonché al divieto di sorvolo dello spazio aereo bosniaco. Sulla base delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza 787 del 16 novembre e 816 del 31 marzo 1993, le forze navali e aeree della NATO, rispettivamente, svolsero un'intensa operazione di interdizione nelle acque territoriali del mare Adriatico ( ) ed imposero una no-fly zone nello spazio aereo bosniaco ( ).

Pur fondate sull'autorizzazione del Consiglio di sicurezza, le operazioni furono effettuate dalla NATO in piena autonomia, utilizzando la propria catena di comando e le proprie regole di ingaggio ( ).

Ben più complesse e problematiche si rivelarono le operazioni intraprese dalla NATO, sulla base della risoluzione del Consiglio di sicurezza 836 del 4 giugno 1993, a protezione delle forze delle Nazioni Unite impegnate nell'operazione di peacekeeping in Bosnia Erzegovina (UNPROFOR) e delle cosiddette safe areas ( ). A differenza delle operazioni descritte sopra, ogni singola operazione implicante l'uso della forza doveva essere ulteriormente richiesta o quantomeno autorizzata dal Segretario generale dell'ONU o dalle persone da questo delegate (dual key procedure). In questo modo il Segretario generale assunse, oltre alla responsabilità per la gestione dell'operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite, anche una funzione di controllo sulle operazioni militari coercitive della NATO.

La sovrapposizione all'operazione di peacekeeping - fondata sul consenso delle parti belligeranti, sull'imparzialità nei confronti di questi, e sulla limitazione dell'uso della forza alle esigenze di legittima difesa personale - di attività militari coercitive suscettibili di incidere sull'andamento delle ostilità si rivelò immediatamente inadeguata ( ).

Come evidenziò lo stesso Segretario generale delle Nazioni Unite, 'the general imposition and stricter enforcement of exclusion zones around the safe areas in order to influence the outcome of the conflict [...] would change the nature of the UN presence in the area and imply unacceptable risks for UNPROFOR. In both cases the result would be a fundamental shift from the logic of peace-keeping to the logic of war and would require the withdrawal of UNPROFOR from Bosnia and Herzegovina'.

In queste condizioni, la NATO non poté svolgere che operazioni di importanza marginale, che non incisero minimamente sulla condotta delle forze belligeranti, e delle formazioni militari e paramilitari serbo-bosniache in particolare.
Il fondamento giuridico delle attività svolte dalla NATO nel periodo esaminato dipende dalla possibile qualificazione di questa come organizzazione regionale ai fini del Cap. VIII della Carta ONU e dall'ammissibilità di attività militari coercitive da parte di tali organizzazioni nei confronti di Stati non membri. Su entrambe le questioni, delle quali non è possibile in questa sede occuparsi, la dottrina è nettamente divisa.

In caso affermativo, le attività militari coercitive della NATO possono essere ricondotte all'art. 53 della Carta, che espressamente prevede la possibilità da parte del Consiglio di sicurezza sia di utilizzare le organizzazioni regionali nell'ambito della propria azione rivolta a mantenere la pace e la sicurezza internazionali, sia di autorizzare tali organizzazioni a ricorrere autonomamente alla forza militare ( ).

In caso contrario, tali attività si inseriscono nella recente prassi del Consiglio di sicurezza che in occasione di numerose crisi internazionali, quali le guerre civili in Ruanda e Somalia, autorizzò gli Stati membri ad intervenire militarmente. A seconda dell'effettività del controllo esercitato sulle operazioni dal Consiglio di sicurezza, direttamente o attraverso il Segretario generale (controllo che si traduce quantomeno nel potere di sospenderle ovvero di provi fine), la prassi dell'autorizzazione può essere ricondotta, attraverso una interpretazione estensiva dell'Art. 42 ( ), al sistema creato dalla Carta delle Nazioni, oppure devono essere inquadrate nel diritto internazionale generale.

In quest'ottica, rientrerebbero nella prima ipotesi le operazioni svolte a protezione delle forze UNPROFOR e delle cosiddette aree protette, ciascuna delle quali fu svolta solo a seguito della specifica richiesta o perlomeno della specifica autorizzazione da parte del Segretario generale. Nel caso delle operazioni di interdizione navale e aerea, invece, il Consiglio di sicurezza non esercitò che un controllo formale e anzi risultò esposto al rischio del cosiddetto reverse veto, ovvero all'impossibilità di modificare o sospendere l'autorizzazione a causa dell'opposizione di un membro permanente.

Due punti preme rilevare. Primo, le operazioni militari coercitive svolte dalle forze NATO fino all'agosto 1995 si svolsero sulla base ed entro i limiti di apposite risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Il Consiglio Atlantico, a sua volta, approvò lo svolgimento delle operazioni nel quadro NATO e confermò la disponibilità dell'Alleanza a partecipare, sotto l'autorità del Consiglio di sicurezza a "peacekeping and sanctions enforcement operations" ( ). Secondo, mentre le operazioni di interdizione aerea e navale furono gestite dalla NATO in piena autonomia e secondo la propria catena di comando, quelle a protezione delle forze UNPROFOR e delle safe areas furono un'impresa congiunta ONU-NATO che rivelò gravi inadeguatezze strategiche e di comando, e provocò seri contrasti tanto fra le due organizzazioni che all'interno di ciascuna di queste.
Nell'agosto del 1995, quando la NATO aveva già predisposto un piano per evacuare le forze UNPROFOR ( ), il comandante militare della NATO e il comandante militare delle forze UNPROFOR, approfittando dei mutati equilibri militari nel conflitto bosniaco ( ), conclusero un accordo relativo ad un massiccio intervento militare contro i serbo-bosniaci per costringere questi ad accettare il piano di pace. Ciò comportò uno stato di aperta belligeranza - per quanto non dichiarata - fra l'ONU e la NATO da una parte e i serbo-bosniaci dall'altra ( ).


L'operazione, denominata Operation Deliberate Force, solleva numerosi problemi. In netto contrasto con la prassi precedente, il Consiglio di sicurezza rimase completamente estraneo alle operazioni al punto di non disporre nemmeno del testo dell'accordo. Non solo, l'accordo, stabilendo che le operazioni avrebbero cessato solo con il consenso sia del comandante militare UNPROFOR che della NATO, assicurò a quest'ultima una totale libertà di azione.

La catena di comando esistente, che richiedeva l'autorizzazione tanto dell'ONU quanto della NATO, venne sostituita dalla catena di comando NATO.
Gli obiettivi, le modalità e i tempi dell'intervento vennero decisi unilateralmente dalla NATO, che rivendicò in questo modo un ruolo indipendente nel sistema di sicurezza, ruolo non previsto dalla Carta dell'ONU e anzi chiaramente escluso da questa. Ancora, è dubbio che il comandante militare UNPROFOR fosse competente a concludere un accordo deliberatamente rivolto al coinvolgimento bellico dell'ONU e della NATO nel conflitto. L'intervento appare infine quantomeno discutibile sotto il profilo dell'imparzialità considerato che l'offensiva militare croata, peraltro condannata dal Consiglio di sicurezza, non fu oggetto di alcuna sanzione economica o militare.

L'importanza di questo episodio va oltre gli accordi di Dayton, riguardo alla conclusione dei quali, peraltro, fu decisivo. Si trattò infatti di una clamorosa rottura fra ONU e NATO. Formalmente, la NATO non negò apertamente l'autorità del Consiglio di sicurezza e anzi tentò di ricondurre l'intervento nell'alveo della precedente risoluzione 836.

Nella sostanza, tuttavia, è evidente il rigetto tanto dell'autorizzazione del Consiglio di sicurezza come conditio sine qua non per il ricorso alla forza militare al di fuori dell'ipotesi di legittima difesa, quanto di qualsiasi forma di controllo da parte del medesimo organo.
Dopo questo primo scossone, il sistema di sicurezza collettivo previsto dalla Carta subì un attacco frontale durante la recente crisi del Kosovo.

I fatti sono noti. Dapprima la NATO minacciò il ricorso alla forza militare per costringere la Repubblica federale di Iugoslavia a concludere due accordi riguardanti, rispettivamente, l'invio di 2000 osservatori OSCE e il monitoraggio dello spazio aereo da parte delle forze NATO. A seguito del fallimento degli accordi di Rambouillet, il 23 marzo 1999 la NATO diede inizio ad una vasta campagna di bombardamenti aerei.

I tentativi di ricavare dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza precedenti ( ) o successiva ( ) all'intervento NATO una autorizzazione, rispettivamente implicita o a posteriori, appaiono tutt'altro che convincenti. E' altresì da escludere che la mancata adozione della proposta russa di cessare l'intervento possa essere interpretata come una autorizzazione "a contrario".

Quanto infine alla presunta norma consuetudinaria che renderebbe lecito l'intervento militare diretto a porre fine a massicce e gravi violazioni dei diritti umani, la prassi degli Stati è ambigua e contraddittoria se non addirittura orientata in senso contrario.

Lo stesso intervento in Kosovo non costituisce un sicuro contributo alla formazione di una siffatta norma data la forte opposizione di numerosi Stati nonché l'atteggiamento di alcuni Stati membri della NATO che fondarono l'intervento su motivazioni politiche ed esclusero che questo costituisca un precedente.

Piuttosto, durante la crisi fu evidente, a fronte dello sforzo comune per giungere ad una soluzione pacifica dalla crisi, la netta divisione fra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza riguardo all'opzione militare. L'impossibilità di raggiungere un consensus in seno a tale organo mise a nudo i limiti del sistema di sicurezza collettivo previsto dalla Carta, limiti peraltro già palesi durante il conflitto bosniaco.

In un sistema che subordina il ricorso all'uso della forza militare, fatta salva l'ipotesi della legittima difesa, all'accordo fra le grandi potenze non esiste garanzia di intervento collettivo. Al contrario, la paralisi del Consiglio di sicurezza può essere superata solo attraverso iniziative unilaterali, dettate da esigenze di necessità percepite come preponderanti dagli Stati che si accingono ad intervenire, ma inesorabilmente destinate a violare le norme della Carta ( ).

Creata come alleanza puramente difensiva, nell'arco di un decennio la NATO ha subito una profonda trasformazione che la ha portata ad intraprendere attività non previste, ma nemmeno escluse, dal trattato istitutivo. In un primo tempo, le attività militari coercitive si svolsero nel rispetto della Carta e dell'autorità del Consiglio di sicurezza, le cui risoluzioni costituirono il puntuale ed esclusivo fondamento giuridico.

Le operazioni svolte autonomamente dalla NATO diedero risultati sostanzialmente positivi, mentre quelle integrate nell'operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite si rivelarono disastrose.
Progressivamente la NATO si affrancò dall'autorità del Consiglio di sicurezza scardinando il sistema di sicurezza collettivo previsto dalla Carta e solo negli ultimi anni in qualche misura, per quanto selettivamente, funzionante.

La pratica dell'autorizzazione permette di superare la mancata creazione di un esercito delle Nazioni Uniti solo finché è possibile raggiungere un accordo in seno al Consiglio di sicurezza. Altrimenti, come nel caso della crisi del Kosovo, il ricorso alla forza militare - inevitabilmente illecito ai sensi della Carta - ci riporta alla dottrina della guerra giusta.
Purtroppo, né durante i summit della NATO ( ) né davanti ai parlamenti degli Stati membri ( ), la definizione del ruolo della NATO nel sistema di sicurezza collettivo ed i rapporti fra questa e le Nazioni Unite sono ancora stati oggetto di un adeguato esame.

 
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