Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Il servizio militare femminile
Conferenza

Intervento al
CONVEGNO DI STUDI GIURIDICI
PADOVA, 30 NOVEMBRE 2000

Diritto e Forze armate. Nuovi Impegni

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario.
Regione Militare Nord.

Testi provvisori; trascrizioni non ufficiali.
Tutti gli interventi sono leggibili e scaricabili cliccando qui.

Si ringrazia Silvio Riondato (www.riondato.com) per la disponibilità.

Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
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Documento aggiornato al: 2000

 
Sommario

Mentre negli altri Stati europei ed in molti Paesi extraeuropei il servizio delle donne nelle forze armate costituisce un fatto acquisito e comunque ormai indiscusso da molti anni, in Italia per almeno un ventennio si è svolto un dibattito con toni ora molto accesi ora tenui, se non addirittura spenti, sulla possibilità o meno di arruolare le donne nelle diverse Armi.

 
Abstract
 


1. L'Italia e il servizio militare. Le norme internazionali in materia.

Mentre negli altri Stati europei ed in molti Paesi extraeuropei il servizio delle donne nelle forze armate costituisce un fatto acquisito e comunque ormai indiscusso da molti anni, in Italia per almeno un ventennio si è svolto un dibattito con toni ora molto accesi ora tenui, se non addirittura spenti, sulla possibilità o meno di arruolare le donne nelle diverse Armi.

Come normalmente si conviene in questi casi il dibattito si è mosso da considerazioni di tipo giuridico, attinenti cioè all'esistenza o meno di una norma di tipo costituzionale che impedisce alle donne l'accesso alla carriera militare.

Tali considerazioni hanno trovato risposta già molto tempo addietro, posto che la Costituzione italiana afferma all'art. 52 che la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino (pur precisando al 2° comma che il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge) senza peraltro porre espressamente alcuna distinzione tra cittadini fondata sul loro sesso - distinzione che risulta invece solo ed esclusivamente dalle leggi sul Servizio militare e sulle Forze Armate -, è anche vero che l'art. 3 del Trattato del Nord Atlantico prevede, allo scopo di conseguire con maggiore efficacia gli obiettivi del Trattato stesso, che le parti, agendo individualmente e congiuntamente, in modo continuo ed effettivo, mediante lo sviluppo delle loro risorse e prestandosi reciproca assistenza, mantengano e sviluppino la loro capacità individuale e collettiva di resistenza ad un attacco armato. Ora se è indubbio che la capacità di resistenza ad un attacco armato si potenzia soprattutto attraverso la dotazione per le Forze Armate di tutti gli Stati membri dell'Alleanza di armi convenzionali e non convenzionali adeguate, è anche probabile che un aumento dei contingenti, derivante in Italia dall'immissione su base di volontariato delle donne nelle Forze Armate, potrebbe accrescere la capacità individuale e collettiva di resistenza, di cui al citato art. 3.

Inoltre l'art. 1 della legge 9 febbraio 1963 n. 66 concernente l'ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni non esclude il servizio militare femminile, ma sottopone l'arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali a "leggi particolari".

Questa constatazione è valsa ad evidenziare il carattere prevalentemente politico del dibattito, dato che chi scrive nel lontano 1981 ha rilevato presso il Centro Alti Studi di Difesa, tra l'altro, che l'Italia aveva già previsto la possibilità che le donne prestassero servizio militare in quanto con la ratifica delle convenzioni di Ginevra del 1949 e con il relativo ordine di esecuzione aveva immesso nel proprio ordinamento norme dirette a riservare ai soldati ed ufficiali-donne, eventualmente fatte prigioniere dalle Forze Armate italiane, un trattamento conforme ai contenuti delle citate convenzioni di Ginevra.

In effetti, tanto l'art. 12, comma 4, della Convenzione per il miglioramento della sorte dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze Armate terrestri, quanto l'art. 12 comma 4, della Convenzione per il miglioramento della sorte dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze Armate sul mare, quanto l'art. 14, comma 2, della Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra dispongono che le donne siano trattate con tutti i riguardi dovuti al loro sesso e debbano in ogni caso beneficiare di un trattamento altrettanto favorevole di quello accordato agli uomini. La norma contenuta negli articoli citati deve interpretarsi nel senso che, fin dal momento in cui l'Italia ha dato esecuzione alle menzionate convenzioni (legge 27 ottobre 1951 n. 1739), è stato contemplata la eventuale presenza, sia pure nelle Forze Armate straniere, di personale femminile e che le donne, ove vengano catturare e godano dello "status" di prigioniero di guerra, usufruiscano di un certo trattamento. Alla stessa conclusione si perviene, del resto, considerandosi l'art. 16 della III Convenzione di Ginevra, in cui si determinano alcune particolarità in merito al trattamento dei prigionieri di guerra, senza peraltro derogare alle norme concernenti il grado e il sesso.

Ma certamente più importanti, ai fini dell'argomento qui svolto sono le norme contenute nell'art. 88, 2° e 3° comma, della Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra. Invero, la prima delle norme accennate prevede che le prigioniere di guerra non saranno condannate ad una pena più severa di quella che per un'analoga infrazione verrebbe erogata alle donne appartenenti alle Forze Armate della Potenza detentrice; né subiranno nel periodo in cui scontano tale pena, un trattamento diverso e più severo rispetto a quello riservato, in condizioni analoghe, al personale femminile delle Forze Armate della Potenza cattrice. Ne consegue che, secondo questa norma, esisteva già una "ratio", al momento della conclusione della Convenzione di Ginevra, per la quale si supponeva che in tempi brevi tutti gli Stati partecipanti a tale Convenzione avrebbero avuto del personale femminile nelle proprie Forze Armate, il cui trattamento sarebbe stato utilizzato come parametro in relazione al trattamento delle prigioniere di guerra straniere.

Non si può negare, tuttavia, che la seconda norma menzionata, cioè il 3° comma dello stesso art. 88, contempli l'ipotesi che tale previsione non si realizzi, come in effetti, a oltre trent'anni dalla conclusione della Convenzione, non si era ancora realizzata in Italia (si parla degli anni '80). Detta norma afferma, infatti, che in nessun caso le prigioniere di guerra potranno essere condannate ad una pena più severa, o nel periodo in cui sono sottoposte a tale pena, subire un trattamento più severo di quello riservato per un'analoga infrazione ad un uomo appartenente alle Forze Armate della Potenza detentrice.

L'interpretazione ora data dall'art. 88, commi 2 e 3, può tuttavia apparire alquanto restrittiva e non sempre corrispondente allo spirito della Convenzione, la quale, pur non facendo continuamente espresso riferimento alle donne, contiene altre norme a queste applicabili. Con ciò si intende menzionare la norma di cui all'art. 4 lett. l, della Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra: norma pressoché analoga a quella contenuta nell'art. 13 della Convenzione per il miglioramento della sorte dei feriti e dei malati nelle Forze Armate terrestri, nonché a quella contenuta nell'art. 13 della Convenzione per il miglioramento della sorte dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze Armate sul mare. Ma, a differenza delle norme ora ricordate e che si esamineranno qui di seguito, le norme contenute nell'art. 88 sopra citato risultano essere le uniche norme concernenti il trattamento dei prigionieri di guerra appartenenti alle Forze Armate terrestri e marittime.

Per meglio spiegare questo concetto può infatti osservarsi che l'art. 4 lett. A della stessa Convenzione - così come del resto gli altri articoli sopra citati delle altre due Convenzioni che in tutto o in parte lo ricalcano - danno una definizione molto ampia dei prigionieri di guerra, i quali non sempre coincidono con gli appartenenti alle Forze Armate nemiche di cui è avvenuta la cattura. In relazione a questa definizione può inoltre rilevarsi che, se da un lato le donne non vengono espressamente menzionate, dall'altro le categorie di persone che possono cadere nelle mani del nemico avendo diritto al trattamento previsto dalla Convenzione, sono talmente ampie da ricomprendere facilmente le donne. In effetti l'art. 4 lett. A indica come possibili prigionieri di guerra non soltanto i membri delle Forze Armate di una parte in conflitto e i membri delle milizie e dei Corpi volontari facenti parte di tali forze, ma anche i membri di altre milizie e di altri Corpi volontari, ivi compresi i movimenti di resistenza organizzati appartenenti a una parte in conflitto che agiscono all'interno o al di fuori del proprio territorio, anche se tale territorio è occupato, purché adempiano le condizioni: a) di avere un capo responsabile; b) di avere un distintivo riconoscibile a distanza; c) di portare apertamente le armi; d) di conformarsi nelle loro operazioni alle leggi e consuetudini di guerra.

Detto articolo menziona, inoltre, agli stessi fini, al n. 3 sempre della lett. A, i membri delle Forze Armate regolari che dichiarino di appartenere ad un governo o a un'Autorità non riconosciuta dalla Potenza detentrice; al n. 4 le persone che seguono le Forze Armate senza farne direttamente parte come il personale civile di equipaggio di aerei militari, i corrispondenti di guerra, i fornitori, i membri di unità lavorative o di servizio, incaricati del benessere delle Forze Armate, sempre che abbiano ricevuto l'autorizzazione delle Forze Armate che accompagnano, purché possano esibire una carta di identità conforme al modello annesso alla convenzione; al n. 5 i membri di equipaggi, ivi compresi i comandanti, i piloti ed apprendisti della marina mercantile e gli equipaggi dell'aviazione civile delle Parti in conflitto che non beneficino di un trattamento più favorevole in virtù di altre norme di diritto internazionale; al n. 6 la popolazione di un territorio non occupato che, nell'avvicinarsi del nemico, prenda spontaneamente le armi per combattere le truppe d'invasione, senz'avere il tempo di costituirsi in Forze Armate regolari, se essa porta apertamente le armi e se rispetta le leggi e le consuetudini di guerra.

Com'è facile osservare, la possibilità che le donne siano fatte prigioniere di guerra è amplissima: basti pensare non solo alle truppe ausiliarie, spesso costituite da donne, ma ai movimenti di resistenza nei quali le donne hanno da sempre militato. La resistenza italiana al fascismo ha visto la partecipazione di molte donne e vari movimenti di resistenza per la liberazione dei popoli africani vedono la partecipazione delle donne.

Oltre che alle disposizioni fin qui esaminate, la possibilità che le donne siano fatte prigioniere di guerra risulta dall'esame di due disposizioni: l'una contenuta nell'art. 49 e l'altra nell'art. 3, comma 1°, della III Convenzione di Ginevra.

Quanto all'art. 49, in esso si afferma che la Potenza detentrice potrà impiegare i prigionieri di guerra validi come lavoratori tenendo conto dell'età, del loro sesso, del loro grado così come delle loro attitudini fisiche, in vista, specialmente, di mantenerli in buono stato di salute fisica e morale. In questa norma, quindi, risultano accomunati elementi vari ai fini della destinazione lavorativa del prigioniero di guerra, cioè l'età, il sesso, il grado; considerazione, questa, che può addursi in favore della tesi, qui esposta, secondo cui fin dal 1949 si è sempre contemplata la possibilità che le donne fossero membri di Forze Armate o Corpi a queste equiparati, conformemente al ricordato art. 4 lett. A, e che di tale possibilità lo Stato italiano ha preso atto allorché ha ratificato le Convenzioni di Ginevra e le ha rese esecutive nel proprio ordinamento.

Circa, poi, l'art. 3, n. 1 della Convenzione relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, che riproduce fedelmente l'art. 3, n. 1 della I Convenzione sul miglioramento della sorte dei feriti e dei malati nelle Forze Armate terrestri e l'art. 3, n. 1 della II Convenzione sul miglioramento della sorte dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze Armate sul mare, deve osservarsi che la norma ivi contenuta, riferentesi all'indicazione di quanti, in caso di guerra civile, non usufruiscono del trattamento riservato alle forze belligeranti, bensì di uno "standard" umanitario, acquista particolare importanza in quanto applica tale "standard" senza alcuna distinzione sfavorevole, fondata sulla razza... sul sesso ecc. Come si vede, dunque, l'eventualità che le donne partecipino ad azioni di carattere militare in una guerra non internazionale è stata contemplata al momento di redigere le tre Convenzioni e sta a dimostrare, in aggiunta e a sostegno delle considerazioni fin qui svolte, come, fin d'allora, anche nel settore delle Convenzioni di diritto bellico sia venuta affermandosi la tendenza a non discriminare l'uomo dalla donna, tendenza che, - come si è accennato - è apparsa soprattutto evidente dall'analisi del contenuto del 3° comma dell'art. 88.

Sempre sul piano giuridico, chi scrive ha fatto valere il principio di non-discriminazione tra le persone che circa venti anni fa era in via di affermazione sia sul piano interno sia su quello internazionale. In effetti tale principio, che pure risulta inequivocabile nella Costituzione italiana così come in tutti gli strumenti internazionali in materia di diritti umani a carattere sia vincolante sia non vincolante, dei quali l'Italia è parte o che comunque essa riconosce come efficaci, non costituiva sovente punto di riferimento nelle sentenze della Corte Costituzionale e raramente veniva invocato di fronte alle istanze internazionali. Solo la Corte di Giustizia della Comunità Europea, fin dagli anni '70, si è fatta portatrice del principio di non-discriminazione in relazione all'applicazione dell'art. 119 del Trattato di Roma con esplicito riguardo alla parità di retribuzione e di trattamento tra uomo e donna per un pari lavoro sulla base sia di unità di tempo sia di misura (cottimo).

Tale principio, che era già stato affermato nel 1951 dalla Convenzione n. 100 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, è stato ripreso e riproposto, senza alcuna variazione, dall'art. 4 n. 3 della Carta sociale europea del 1961, entrata in vigore nel 1965, secondo cui le parti contraenti si impegnano a riconoscere il diritto dei lavoratori maschi e femmine ad una eguale remunerazione per un lavoro di valore uguale.

Sempre con riferimento al principio della parità tra uomo e donna non può dimenticarsi la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979, ratificata dall'Italia con legge 15.3.85 n. 132.

Secondo l'art. 3 di tale Convenzione gli Stati partecipanti ad essa si obbligano a prendere in ogni campo, e in particolare in quello pubblico, sociale, economico e culturale, ogni misura adeguata, incluse le disposizioni legislative, al fine di assicurare il pieno sviluppo ed il progresso delle donne e a garantire loro, su una base di piena parità con gli uomini, l'esercizio e il godimento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Oltre all'articolo ora citato, che riprende in modo più elaborato e completo le enunciazioni di principio contenute nelle Convenzioni fin qui esaminate, deve ricordarsi l'art. 7, lett. b., in base al quale gli Stati si impegnano a prendere ogni misura idonea ad eliminare la discriminazione nei confronti delle donne nella vita politica e pubblica del Paese assicurando loro, in condizioni di parità con gli uomini, il diritto di prendere parte all'elaborazione della politica dello Stato ed alla sua esecuzione, il diritto di occupare gli impieghi pubblici e di esercitare tutte le funzioni pubbliche ad ogni livello di Governo. Anche quest'articolo, al pari del precedente, non offre lo spunto a particolari considerazioni risultando quasi analogo alle altre norme fin qui citate.

L'art. 10, pur presentando molte concordanze con l'art. 13 n. 2 lett. c del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, appare assai più articolato e preciso nel dettato normativo; così si esprime: "Gli Stati pari prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne al fine di assicurare loro gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l'educazione e, in particolare, per garantire, su basi uguali tra l'uomo e la donna: a) le medesime condizioni di orientamento professionale, d'accesso agli studi, di acquisizione dei titoli negli istituti di insegnamento di ogni ordine e grado, tanto nelle zone rurali che nelle zone urbane. L'uguaglianza deve essere garantita sia nell'insegnamento prescolastico, generale, tecnico, professionale e superiore, sia in ogni altro ambito di formazione professionale...".

Con la ratifica di questa Convenzione e con l'ordine di esecuzione nell'ordinamento interno italiano, le donne hanno potuto validamente richiamarsi alle norme ivi contenute (essendosi manifestata nella realtà sociale, cioè nelle donne e nello Stato, o almeno in uno di questi due elementi della realtà stessa, la volontà di stabilire il Servizio militare femminile), al fine di estendere la parità in ogni settore, compreso, quindi in tale Servizio.

Lo stesso principio veniva all'epoca rifiutato dalle associazioni femministe protese ad affermare "lo specifico femminile", che esclude di per sé ogni forma di non-discriminazione proprio perché rivolto a considerare la condizione della donna e le sue esigenze astraendola da forme egualitarie. Alcune di tali associazioni insistevano poi sulla naturale tendenza delle donne verso la pace anche perché portatrici di vita. Molto si è discusso anche sulla questione del "contatto diretto col nemico".

Il trascorrere del tempo, con i cambiamenti di mentalità, la riduzione delle nascite maschili, il raffronto con gli altri Stati, specialmente appartenenti all'Alleanza Atlantica nel cui seno agisce ormai da anni un "Committe on Women in Nato Forces" hanno contribuito ad affrontare in modo diverso questo problema. Soprattutto determinante è stato il contributo dato dalla Commissione Nazionale per la Parità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, presieduta da Silvia Costa che ha rappresentato il punto di coagulo di varie istanze comprensive anche di alcune associazioni costituitesi nel frattempo a sostegno delle donne che intendevano dedicarsi alla carriera militare e di associazioni storiche di donne, quali il Soroptimist internazional, che hanno molto insistito perché si giungesse alla definitiva emanazione di una legge in materia.

2. Certo molte sono state le questioni discusse negli anni in merito al servizio militare: a) se esso dovesse essere obbligatorio o volontario (1); b) a quali mansioni avrebbero dovuto essere adibite le donne e quale dovesse essere la loro progressione di carriera; c) la logistica delle caserme ecc.; d) l'eventuale maternità e l'astensione dal lavoro nel corso del servizio stesso. Dalle mansioni puramente ausiliarie, propugnate negli anni '80 specialmente da alcuni militari, si è passati gradatamente verso concezioni più egualitarie anche sulla base di un raffronto con altri Stati nei quali le cd. donne-soldato svolgono mansioni uguali a quelle maschili o assolutamente comparabili con queste.
Pertanto il divario tra l'attuale normativa e le prime timide proposte di legge in materia è enorme: dalla prima proposta presentata il 3 settembre 1970 n. 2703 dagli onorevoli Sullo, Pitzalis, Pisicchio che prevedeva l'inserimento delle donne con compiti di supporto logistico sanitario e di collegamento (cfr. a cura di Isastia, Le donne nelle Forze Armate Italiane, Diritto o dovere, Ed. A.N.R.P. Roma 1999, p. 132 ss.) si è giunti, attraverso un lungo percorso legislativo alla legge-delega del 29 ottobre 1999 n. 380 per "l'istituzione del Servizio militare volontario femminile". Dunque si è scelta la via del volontariato, così come auspicato da molti.

Si è inoltre applicata la normativa vigente per il personale dipendente dalle pubbliche amministrazioni in materia di maternità e paternità e di pari opportunità tenendo conto dello "status" del personale militare.

Infine si è affermato il rispetto del principio delle pari opportunità in relazione all'accesso ai diversi gradi, qualifiche, specializzazioni e incarichi del personale delle Forze Armate e del Corpo della Guardia di Finanza.

La stessa legge ha previsto l'istituzione di un Comitato Consultivo, composto di undici membri con il compito di assistere il Capo di Stato maggiore della Difesa ed il Comandante Generale del Corpo della Guardia di Finanza nell'azione di indirizzo, coordinamento e valutazione dell'inserimento della integrazione del personale femminile nelle strutture delle Forze Armate e del Corpo della Guardia di Finanza.

Ogni anno il Ministro della Difesa, acquisito il parere della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo-donna e d'intesa con i ministeri dei trasporti e della navigazione, delle finanze e per le pari opportunità, definisce annualmente su proposta del Capo di Stato Maggiore della Difesa, le aliquote, i ruoli, i corpi, le categorie, le specialità e le specializzazioni di ciascuna Forza Armata nella quale avviene il reclutamento del personale femminile.

In modo analogo procede il Ministro delle Finanze su proposta del Comandante Generale del Corpo della Guardia di Finanza sentito il Ministro per le pari opportunità che acquisisce il parere della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna per arruolare personale nella Guardia di Finanza.

La stessa legge prevede in via transitoria per i primi 3 anni, l'elevazione di tre anni dei limiti di età previsti dalla normativa per gli ufficiali e i sottoufficiali nonché limitatamente ai contingenti stabiliti annualmente nell'ambito della pianificazione del reclutamento del personale militare.

Certo i cambiamenti verificatisi trovano la base, oltre che nei motivi fin qui esposti, nel cambiamento del modello di difesa, aderente ai nuovi compiti e scenari delle Forze armate italiane e dall'integrazione di queste con le Forze armate degli altri Paesi europei, nonché, come si è accennato più volte, nelle Forze armate degli Stati aderenti al Trattato dell'Atlantico del Nord.

In ottemperanza con la delega sono stati emanati: il Decreto legislativo del 31 gennaio 2000 n. 24 (G.U. 16.2.2000 n. 38) contenente "Disposizioni in materia di reclutamento su base volontaria, stato giuridico e avanzamento del personale militare femminile nelle Forze armate e nel Corpo della guardia di finanza"; il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (G.U del 10.05.2000 n. 107) del 16 marzo 2000 n. 112 contenente il "Regolamento recante modifiche al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 luglio 1987 n. 411 relativo ai limiti di altezza per la partecipazione ai concorsi pubblici".

Il Ministro della Difesa ha inoltre emanato il 4 aprile 2000 il Decreto n. 114 contenente il Regolamento recante norme in materia di accertamento dell'idoneità al servizio militare (G.U. del 14.3.2001 n. 107).

Per quanto concerne espressamente il settore sanitario il Direttore Generale della Sanità Militare ha emanato a sua volta il 19 Aprile 2000 una Direttiva sulla "Delineazione del profilo sanitario dei soggetti giudicati idonei al servizio militare" (G.U. del 15.3.2001 n. 127) nella quale vengono individuati i requisiti richiesti per l'idoneità. In pari data lo stesso Direttore Generale della Sanità Militare ha firmato un'altra "Direttiva Tecnica per l'applicazione delle imperfezioni e delle infermità che sono causa di non idoneità al servizio militare" (G.U. del 6.3.2001 n. 127).

A conclusione di questi cenni non si può non rilevare il carattere, tuttora allo stato sperimentale dell'iniziativa che per lo più ha incontrato il plauso di molte donne e l'interesse anche di quanti consideravano prima con scarsa attenzione l'inserimento delle donne nelle forze armate. Il risveglio dei valori della Patria, che affianca in molte persone la vocazione per un'Europa forte e solidale, è certamente uno degli elementi che fin dall'emanazione della legge sopra citata ha determinato la risposta ampiamente positiva delle donne che hanno presentato la domanda di ammissione alle Forze armate. Ad esso si è aggiunta l'individuazione dell'accesso alle Forze armate come un'occasione di lavoro per molte ragazze che vivono in aree italiane nelle quali tali occasioni scarseggiano.

Allo stato attuale l'inserimento delle donne non ha posto particolari problemi anche a seguito dell'attenzione che le Forze armate italiane danno alle precedenti esperienze realizzate dalle Forze armate di altri Stati, nei quali l'inserimento è avvenuto da vari anni.

Tra l'altro, per prevenire che si ponga in Italia il problema delle molestie sessuali che in alcuni Stati hanno determinato reazioni sull'opinione pubblica (oltre ai danni alle vittime), lo Stato maggiore dell'esercito ha redatto nel settembre 2000 una nota informativa sull'argomento particolarmente dettagliata.






(1) Per la bibliografia sull'argomento cfr. Saulle: Il servizio militare femminile e le convenzioni internazionali (Conferenza tenuta al Centro Alti Studi della Difesa il 22.1.1981), in Scritti in onore del Prof. Vezio Crisofulli e in Iustitia 1981, p. 275 ss. nonché nella Rivista Militare, 1981; Idem, Lezioni di Organizzazione Internazionale, vol. II, Le Organizzazioni internazionali e i diritti umani, Napoli 1993, p. 80 ss.; Idem, Un impegno ventennale, in Le donne nelle Forze Armate Italiane Diritto o dovere? a cura di Isastia 1999, p. 33.

 
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