Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Versione integrale
Profili attuali di diritto umanitario dei conflitti armati
Conferenza

Intervento al
CONVEGNO DI STUDI GIURIDICI
PADOVA, 30 NOVEMBRE 2000

Diritto e Forze armate. Nuovi Impegni

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario.
Regione Militare Nord.

Testi provvisori; trascrizioni non ufficiali.
Tutti gli interventi sono leggibili e scaricabili cliccando qui.

Si ringrazia Silvio Riondato (www.riondato.com) per la disponibilità. Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
www.studiperlapace.it - no ©
Documento aggiornato al: 2000

 
Sommario

Trovo particolarmente significativo che lo scopo di questo congresso sia "di rendere più consapevole e responsabile la partecipazione di ogni cittadino alle questioni giuridiche più attuali concernenti le forze armate nell'ambito della cultura della sicurezza".

 
Abstract
 

Trovo particolarmente significativo che lo scopo di questo congresso sia "di rendere più consapevole e responsabile la partecipazione di ogni cittadino alle questioni giuridiche più attuali concernenti le forze armate nell'ambito della cultura della sicurezza". Si abbinano in questa enunciazione i due concetti, la responsabile partecipazione dei cittadini e la cultura della sicurezza, due concetti che sempre più necessitano di visibilità e di unificazione.
La sicurezza di oggi non è data più, o solo più, da uno strumento militare solido e preparato, ma da un insieme di fattori civili, economici, giuridici e morali, che il cittadino deve conoscere, saper valutare e saper discutere. Mi piace il concetto di cultura della sicurezza che deve pervadere la coscienza civile dei cittadini. Quindi ben venga questo congresso, con temi tanto interessanti e così ben articolati.
L'argomento è essenzialmente di carattere giuridico - il tema del congresso lo indica chiaramente "Diritto e Forze Armate" - ed, infatti, la maggior parte degli interventi sono svolti da insigni giuristi o cattedratici.
Ma qua sorge il primo punto, se mi permettete una provocazione. Il congresso riguarda diritto e forze armate, ma gli oratori militari non sono pressoché rappresentati, se si esclude il mio breve e modesto contributo. Non è minimamente un appunto, bensì una considerazione e vorrei esprimere il punto di vista di un militare che ha agito in operazioni di pace e che ha a lungo insegnato il diritto umanitario dei conflitti armati.

Molte volte si profila una discrasia fra teoria e pratica, cioè fra legge e possibilità di applicazione. Quando insegniamo diritto umanitario agli ufficiali di tutti gli stati del mondo che partecipano ai corsi militari internazionali a Sanremo, ci troviamo di fronte ad una osservazione, non critica bensì amara. Il diritto umanitario, infatti, così come tutti i diritti, è redatto da giuristi, approvato da politici e messo in pratica da militari che, spesso, non hanno avuto alcuna voce in capitolo sulla stesura delle regole che essi stessi devono applicare. Tale osservazione vale specie per quelle regole in cui una eccessiva tutela o particolari vincoli non consentono al militare di portare a termine compiutamente il proprio compito o addirittura non gli permettono di difendere ragionevolmente la propria vita.
Sono quindi particolarmente lieto che mi sia data la possibilità di far sentire la voce, se mi si consente il termine, dall'altra parte della barricata.

Vorrei immediatamente sgomberare il campo da un possibile equivoco. Non intendo assolutamente sostenere la facoltà dei militari di non rispettare le regole, se a loro non fa comodo, richiamandosi, come a volte avvenuto in passato, alla pur lecita necessità militare. Siamo anzi noi a difendere regole e principi, cercando di modificare mentalità, strumenti addestrativi, canoni comportamentali. In maniera particolare, è nella presente situazione politica internazionale che ci sforziamo di superare le vecchie mentalità. Dico "ci sforziamo" e non intendo solo noi italiani. In tutti gli stati del mondo è in atto una profonda revisione del concetto di formazione militare.

A partire dal 1990, caduta del muro di Berlino, termine della confrontazione dei blocchi contrapposti, sorgere violento e irrazionale di nuovi nazionalismi e di focolai locali, si è capito che la guerra classica, la "guerra di ieri", non sarebbe più stata l'obiettivo dei nostri piani strategici, della nostra elaborazione dottrinale e lo scopo delle nostre esercitazioni. Da allora, tutti gli stati - e non parlo solo di quelli dell'Alleanza Atlantica - hanno iniziato un processo di revisione dello strumento militare, della struttura, degli organici, dell'addestramento. Lo strumento militare doveva essere calibrato per nuove esigenze, quali non era possibile antivedere compiutamente, ma non si sarebbe più trattato di una guerra contro un avversario ben individuato quanto di una partecipazione per bloccare, impedire, sedare conflitti e garantire, quindi, la stabilità internazionale.
La vecchia, confortevole definizione di peace-keeping, vanto e orgoglio delle Nazioni Unite, veniva relegata fra i ricordi del passato (rimane in atto solamente a Cipro e in poche altre situazioni), mentre si formulavano nuove definizioni, peace-making, peace-building, peace enforcement e via definendo. Si è adottata, almeno in ambito Nato, la definizione onnicomprensiva di operazioni di supporto della pace (Peace Support Operations), che a sua volta ricade nella più vasta categoria delle MOOTW (Military Operations Other Than War). Questa elencazione non avrebbe motivo di essere qui ricordata, se non fosse per la ragione che nuovi strumenti giuridici devono essere elaborati ed affidati ai militari per la condotta di tali operazioni.

Quando si parla di diritto umanitario dei conflitti armati si parla di quelle regole che il combattente deve adottare per rendere più umano il conflitto. Mi è molto piaciuto il motto lanciato l'anno passato dal Comitato Internazionale della Croce Rossa per celebrare i cinquant'anni delle Convenzioni di Ginevra: Even wars have limits.
Ciò è sacrosantamente giusto, è doveroso che ci siano dei limiti all'esercizio della forza, è indispensabile che le regole vengano applicate, ma è necessario che queste regole siano prima di tutto applicabili e, in secondo luogo, che vengano insegnate.
Non bisogna pensare, lo ripeto, che i militari siano riluttanti o scettici verso l'applicazione delle regole di diritto umanitario. Molte volte, non dico in Italia per carità, ma molte volte le regole non vengono applicate perché non sono conosciute. Troppo spesso si sente dire, e non da militari, che tanto la guerra è guerra, che non ha senso applicare regole e che alla fine verranno istituiti tribunali solo per la parte che ha perso. Fortunatamente questa mentalità sta scomparendo e la presenza fra di noi del professor Conso, presidente della Conferenza di Roma per la Corte Penale Internazionale lo conferma ampiamente.
Inoltre, il problema dell'insegnamento è una specifica responsabilità degli stati, sottoscritta con la ratifica delle convenzioni, anche se questo dovere molte volte viene colpevolmente negletto.

Le regole di diritto umanitario vanno applicate e questa è responsabilità altissima dei Comandanti. Ma le regole, ho già detto, devono essere elaborate, approvate, rese applicabili e insegnate.
Le regole erano "abbastanza" chiare, se ci riferiamo alla "guerra di ieri", ma lo sono assai meno oggi in cui le nostre forze armate sono mandate ad operare in situazioni non sempre chiaramente configurate né politicamente né giuridicamente. Mi chiedeva un colonnello irlandese a Sanremo: "Qual è lo statuto giuridico di un nostro soldato inviato in missioni di pace? Non è un combattente, ma entra armato nel territorio di un altro stato, a volte senza l'autorizzazione delle locali autorità. Viene mandato a garantire o a imporre la pace, ma può essere costretto ad usare la forza. Gli si può forse garantire lo statuto di neutralità?" Domande senza risposta. A tutt'oggi non è chiaro il quadro giuridico in cui si muove un soldato impiegato all'estero in queste missioni, che giustamente definiamo di pace, e che sono l'unica forma di attività operativa per la quale prepariamo i nostri soldati, nelle presenti circostanze.

Nella confusa ed intricata situazione odierna, rimane purtroppo del tutto ambigua la definizione di combattente e di non combattente, l'unica che tuteli la popolazione civile, e quella di obiettivo militare, che consente la protezione dei beni culturali. Questa incertezza provoca dubbi nella norma e nella sua applicazione. Come deve comportarsi il nostro soldato? Non dimentichiamo, inoltre, che nei conflitti non internazionali, cioè nelle guerre civili, il tasso di odio è talmente elevato che qualsiasi principio di umanità scompare. Anche in questo caso, il nostro soldato si può trovare di fronte a situazioni in cui non gli sia chiaro il comportamento da tenere.
Le nuove forme insite nelle operazioni di supporto della pace rendono sempre più episodica l'azione dei soldati, che si muovono spesso in piccoli gruppi, per controllo del territorio, scorta dei convogli, protezione di civili, quindi lontano dall'occhio e dal comando dei loro superiori. Ne consegue che il loro addestramento specifico deve essere particolarmente accurato ed incentrato essenzialmente sulle regole del diritto umanitario da osservare.

Se dovessi avanzare una critica all'attuale sistema addestrativo dei quadri e dei gregari in
vista delle missioni di pace, trovo che esiste ancora una certa confusione e che ci si muove con notevole incertezza.
Significativo è che anche gli stati dell'Alleanza Atlantica non abbiano ancora elaborato un sistema omogeneo di addestramento e di formazione nel settore del diritto umanitario. A parte gli stati Nordici ed il Canada, che da anni sono stati in grado di sviluppare una particolare sensibilità in materia, abbiamo alcuni stati che prevedono cicli di formazione permanenti e modulari per le loro truppe, altri che svolgono corsi di un quadrimestre o almeno di una certa durata, altri che si limitano ad istruire le truppe da inviare all'estero un paio di settimane prima dell'esigenza. Senza considerare alcuni stati, certo non dell'Alleanza, che non forniscono alle loro truppe inviate in missioni di pace alcun indirizzo in materia di diritto umanitario.
Questo è particolarmente grave, e lo dico nell'ottica del militare, perché il comandante di un contingente multinazionale avrà alle sue dipendenze personale formato e addestrato con criteri differenti nel campo del diritto umanitario. L'addestramento del personale è, infatti, responsabilità esclusivamente nazionale e, quindi, ci si può trovare paradossalmente di fronte a comportamenti differenti, secondo la nazionalità del contingente, in presenza di uno stesso episodio.
Vorrei inoltre ricordare, anche se l'ipotesi è puramente scolastica, che non tutte le Convenzioni di diritto umanitario sono state ratificate dagli stati con cui esercitiamo rapporti di alleanza e che, di conseguenza, la preparazione dei contingenti militari potrebbe essere disomogenea. Prendiamo il caso dei Protocolli Aggiuntivi, come noto non ratificati da tutti gli stati, o l'esempio ancora più vicino della Corte Penale Internazionale. In questo caso potrebbe presentarsi l'ipotesi di una difformità di comportamenti, o anche solo d'interpretazioni, all'interno di un contingente multinazionale che ha avuto una diversa formazione addestrativa.

Parallelamente a queste considerazioni, vorrei ancora ricordare che il personale militare, oggi più che in passato, riceve - o dovrebbe ricevere- una formazione sui diritti umani che, specie nelle operazioni di pace, hanno sovente la preminenza sul diritto umanitario.
I problemi per i militari diventano, quindi, vieppiù complessi.
Ad una codificazione giuridica fatalmente non aggiornata e non sempre applicabile, sono da aggiungere direttive sull'addestramento non sempre chiare, frutto di un periodo di transizione e di assestamento come quello attuale.
In ogni caso, il diritto umanitario dei conflitti armati, ed in parallelo i diritti umani, devono costituire la base professionale e morale della formazione e dell'addestramento dei nostri soldati di oggi, chiamati non più a vincere le guerre ma a difendere la pace, in ambienti spesso difficili, a volte ostili, sempre incerti.
E i militari, a buon diritto, si possono considerare i portatori della cultura della sicurezza in virtù della loro professionalità, del loro intelligente impegno, degli sforzi che compiono, dei rischi che corrono.

 
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