Il fenomeno nazionalista si è ripresentato con virulenza eccezionale ed inaspettata all'indomani del crollo del regime bipolare, in una fase di estrema incertezza sulle sorti dell'ordine mondiale. Il fatto più interessante della reviviscenza improvvisa con cui si è manifestato è l'area di azione che ha coinvolto: non ne sono infatti stati interessati unicamente gli stati del terzo mondo, o comunque quelli in cui lo state building non aveva ancora raggiunto uno stadio avanzato e vivevano nell'immobilismo generato dall'equilibrio incrociato est-ovest, ma i vicini di casa dei più stabili stati europei, giungendo perfino a mettere in discussione i confini e la forma di stato di questi ultimi.
È difficile sistematizzare i movimenti nazionalisti che hanno interessato l'Europa occidentale entro una categoria statica; in questo caso, il fenomeno è iscritto nel codice genetico degli stati in cui è sorto e ha uno stretto legame di dipendenza con il processo di costruzione della nazione del XIX secolo, con propaggini nel passato. Non si può tuttavia escludere l'esistenza di un complesso di cause che hanno scatenato questo revival, anche in considerazione del fatto che ha interessato un'area in cui i conflitti identitari sembravano essere relegati alle guerre di religione del XVI e XVII secolo.
Ad esempio, è senz'altro significativo che la recrudescenza delle rivendicazioni nazionaliste in Europa occidentale sia coincisa con il declino pressoché inarrestabile del prestigio dello stato nazione, mutilato nelle sue competenze effettive sia da progressive concessioni di sovranità verso l'alto - con l'istituzione delle Comunità europee e dell'Unione europea da un lato e con la costituzione di un apparato di difesa confluito sostanzialmente in quello americano della NATO dall'altro - e verso il basso, per effetto della pressione esercitata dalle entità substatali nella prospettiva di ritagliarsi un'azione autonoma.
In un contesto del genere, il crollo del comunismo e la rinascita dei nazionalismi oppressi in Europa dell'est e l'accelerazione della costruzione dell'Unione e delle sue istituzioni in un lasso di tempo relativamente breve hanno reso possibile ai movimenti nazionalisti operanti nei vari stati europei una maggiore autonomia di espressione politica e di manifestazione delle proprie rivendicazioni senza il carico ideologico a cui li relegava il semplificato linguaggio propagandistico bipolare.
Degno di analisi è il fatto che se in Europa orientale la rinascita del nazionalismo si presentava come una logica conseguenza dell'oppressione subita dalle minoranze nazionali sotto il regime comunista, in Europa occidentale la situazione era alquanto diversa.
I principi democratici a cui si ispiravano le costituzioni degli stati ed i vincoli a carattere europeo ed internazionale a cui erano legati circa la protezione delle comunità allogene sul proprio territorio sembravano tutto ad un tratto insufficienti a garantire un sistema efficace di tutela e la stabilità delle istituzioni nazionali.
Il principio di protezione delle minoranze, che rappresenta uno dei capisaldi del regime instaurato all'indomani della prima e della seconda guerra mondiale come palliativo alle modifiche confinarie, è tra i punti più controversi del diritto internazionale e costituisce l'argine al nazionalismo ufficiale - quello dello stato centrale - e ai suoi tentativi di sopraffazione delle lealtà alternative. Pertanto, nella trattazione di questa tesi, risulterà indispensabile uno sguardo d'insieme circa le applicazioni concrete della protezione delle minoranze in ambito internazionale ed europeo oltre che l'individuazione degli strumenti a disposizione degli stati per rendere la tutela effettiva, anche attraverso l'adozione di una forma di stato più adeguata, con particolare enfasi alla formula dell'autonomia regionale e del federalismo.
Quando le rivendicazioni poste dalle minoranze nazionali subiscono un'evoluzione verso un'autoaffermazione a tutto tondo, che non si esaurisce in forme più meno sviluppate di autonomia, il dilemma degli stati riproduce il dilemma della comunità internazionale: fino a che punto il principio di autodeterminazione può ritenersi applicabile nel contesto dell'Europa occidentale, specialmente nella sua versione più estrema e radicale della secessione? Quest'aspetto, anch'esso molto controverso, verrà esaminato alla luce del più recente diritto internazionale, sottolineandone non solo la liceità giuridica che pare limitata ad alcune ipotesi, ma soprattutto l'inopportunità politica nella maggior parte dei casi.
Il fatto che ogni stato europeo sia un caso a se stesso, dato il lungo trascorso storico caratteristico ed unico di ciascuno, non può più costituire un limite all'elaborazione di una strategia comune, che permetta di giocare sulla flessibilità delle frontiere europee senza provocare strappi istituzionali insanabili, che influenzerebbero anche il futuro dell'Unione. Senza contare che la costruzione europea non può prescindere da una democratizzazione dal basso che il processo di integrazione non ha, fino a questo momento, preso in troppa considerazione. Adottare un approccio più locale significa applicare alla realtà più immediata il principio di sussidiarietà, e predisporre a livello statale un sistema strumentale che ne consenta la realizzazione. In questa ottica, il quadro di riferimento politico e giuridico che l'Europa fornisce può rappresentare un espediente che garantisca simultaneamente una partecipazione più democratica e la stabilità sistemica.
Tra gli strumenti che consentono il raggiungimento di questo duplice obiettivo si può annoverare il potenziamento del ruolo delle regioni, che costituiscono l'ente territoriale intermedio tra lo stato nazionale e il megastato europeo; e, quando alle regioni vivono minoranze autoctone radicate sul territorio, enfatizzarne la capacità di agire sia in ambito statale che europeo ed internazionale significa creare i presupposti per un'autonomia di ampio respiro, particolarmente se le minoranze autoctone in questione hanno carattere nazionale ed aspirano ad uno status di maggiore indipendenza. In altri termini, l'Europa fornisce una molteplicità di strumenti per regolare pacificamente le dispute tra i nazionalismi delle minoranze e le ragioni dello stato nazionale. A volte, sarebbe scorretto negarlo, i mezzi già esistenti si sono dimostrati inadeguati, anche per la riluttanza degli stati a vedersi privati di crescenti porzioni di sovranità dall'alto e dal basso; tuttavia, con indispensabili migliorie, sia a livello generale che a livello particolare, questo sembra il percorso da seguire.
Chi è partitario di una edificazione dell'Europa che non soffochi né le legittime riserve degli stati nazionali né soprattutto l'opinione ed eventualmente il dissenso dei loro cittadini non può non salutare con soddisfazione quelle iniziative che mirano ad intensificare uno scambio più equo tra le istituzioni e quelli che esse rappresentano. Considerare l'Europa un'opportunità per tutti, e non solo per gli stati, permette di trovare delle soluzioni adeguate anche in quelle situazioni in cui i confini statali costituiscono più un ostacolo che una delimitazione del senso di appartenenza.
È proprio in questo contesto che il caso dei Paesi Baschi risulta esemplificativo, anche in luce ai recenti sviluppi della posizione nazionalista, che si avvicina sempre più pericolosamente ad uno strappo con il governo centrale. Una soluzione sul piano nazionale, oltre a rivelarsi inattuabile data l'attuale fase di stallo, sarebbe tra l'altro limitata per via della vastità del fenomeno nazionalista in Europa occidentale e il nuovo quadro di relazioni in cui la Spagna si trova coinvolta, che provoca una inevitabile e necessaria "europeizzazione" delle tensioni interne. In un certo senso, l'Europa, che ha avuto in origine un ruolo fondamentale nel processo di pacificazione franco-tedesca, è chiamata a farsi carico anche della risoluzione dei conflitti inerenti i rapporti degli stati membri con le rispettive articolazioni interne. Verranno perciò analizzati quali sono questi strumenti e in cosa potrebbero rivelarsi perfettibili, in particolare nell'ambito delle minoranze nazionali e delle loro rivendicazioni, e in che modo l'Europa possa compiere fino alle ultime conseguenze il suo "progetto di pace".
Ancora una volta, i Paesi Baschi rappresenteranno il caso empirico volto a dimostrare tanto l'efficacia che i limiti di una soluzione parziale e, tutto sommato, raggiungibile - dato il quadro di riferimento che è rigorosamente iscrivibile in seno all'attuale configurazione dell'Europa - a quelle rivendicazioni del nazionalismo che appaiono legittime nel contesto più generale della necessità di democratizzazione dell'integrazione europea.
Si può affermare che in potenza l'Europa dispone, attualmente, del più flessibile apparato di proposte che permette una modulazione del principio di autodeterminazione pressoché infinita: il modello tracciato per i Paesi Baschi rientra nella necessità più generale di un approccio dal basso nella costruzione dell'Unione e permette inoltre di attenuare degli attriti che possono essere assorbiti dall'attuale strumentazione a disposizione.
Si cercherà in definitiva di dimostrare che il quadro di soluzione per i conflitti etnici ed identitari è da ricercare nell'ambito delle opportunità che ha creato l'Europa: di quanto qualsiasi soluzione nazionale sia insufficiente e fallimentare nel processo di devoluzione dei poteri sovrani da parte dello stato nazione; e di come alcuni cambiamenti sistemici non determinino necessariamente il passaggio ad un altro sistema, ma che anzi contribuiscano a stabilizzare quello attuale e ad accentuarne le caratteristiche di solidarietà trasversale.
Solamente se l'Europa diventa, e, soprattutto, se viene percepita un'opportunità da ogni categoria, che sia stato, minoranza, opposizione o cittadino farà fede al suo obiettivo ultimo, che, come recita il preambolo del progetto di Costituzione citando Tucidide, è diffondere il potere non nelle mani di pochi, ma nelle mani dei più.
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