Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
"Guerra asimmetrica" e guerra giusta :: Studi per la pace  
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Guera in Iraq Prof. Michael Novak
"Guerra asimmetrica" e guerra giusta
Paper


Roma, intervento pronunciato il 10 febbraio 2003 al Centro Studi Americani di Roma; fonte: www.usembassy.it.
Le opinioni contenute in questo articolo non rappresentano necessariamente quelle del governo americano.
Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
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Documento aggiornato al: 2003

 
Sommario

Il primo motivo per cui le autorità di governo degli Stati Uniti hanno sollecitato le Nazioni Unite a preoccuparsi seriamente dell'Iraq, riguarda la guerra preventiva che è stata dichiarata contro gli Stati Uniti l'11 settembre 2001.

 
Abstract
 

I motivi per cui gli Stati Uniti faranno la guerra a Saddam Hussein, se egli non adempierà ai solenni impegni presi di rispettare l'ordine internazionale, o non lascerà il potere, non hanno nulla a che vedere con la nuova teoria della "guerra preventiva".

Al contrario, tale guerra rientra nell'ambito della dottrina tradizionale della guerra giusta, in quanto questa guerra è una conclusione legittima della guerra combattuta e vinta in breve tempo nel gennaio 1991.

All'epoca, la guerra era stata interrotta anzi tempo per negoziare le condizioni di resa con l'ingiusto aggressore, Saddam Hussein. Al tavolo delle trattative di pace, le Nazione Unite avevano insistito che, come condizione indispensabile per rimanere alla presidenza dell'Iraq, Saddam Hussein doveva
(a) disarmare e
(b) fornire all'ONU le prove dell'avvenuto disarmo, rendendo conto in maniera trasparente di tutti gli arsenali e sistemi d'arma in suo possesso.

In particolare, era stato ordinato a Saddam Hussein di distruggere le sue scorte di iprite, sarin, botulina, antrace e altri agenti chimici e batteriologici.

Doveva anche dimostrare di aver distrutto tutto il lavoro precedentemente compiuto per mettere a punto armi nucleari.

Nei dodici anni successivi, nonostante ripetuti avvertimenti, Saddam Hussein ha avuto la sfrontatezza di farsi beffe di tali impegni. Alla fine del 2002, il Consiglio di Sicurezza ha di nuovo intimato solennemente a Saddam Hussein di dimostrare di aver rispettato tali impegni, ai quali era legato il suo diritto di rimanere al potere, in base al diritto internazionale. Ancora una volta, egli non ha fornito tali prove: anzi, il suo comportamento è stato un'offesa continua per il Consiglio di Sicurezza.

Nel frattempo, l'11 settembre 2001, in maniera improvvisa e violenta una nuova guerra è stata lanciata contro gli Stati Uniti - e contro tutto l'ordine civile internazionale. È stata una guerra repentina e immotivata, legata ad un nuovo concetto strategico, quello della "guerra asimmetrica", che ha prospettato in una luce del tutto nuova il comportamento di Saddam Hussein e ha centuplicato il pericolo che il Raìss rappresenta per il mondo civile.

Prima di approfondire questo aspetto, vorrei ricordare che la autentica dottrina cattolica sulla guerra giusta, così come è stata formulata da Sant'Agostino e da San Tommaso, indicava con chiarezza il percorso logico che dovevano seguire le autorità di governo che agivano nella loro veste ufficiale, quando dovevano decidere se andare o non andare in guerra. Inoltre, nel valutare tali eventualità, il nuovo catechismo cattolico attribuisce la responsabilità primaria non a lontani commentatori, bensì alle suddette autorità di governo.

Tale attribuzione di responsabilità nasce da un duplice motivo. In primo luogo, alle autorità di governo compete il dovere d'ufficio e l'obbligo istituzionale primario di proteggere la vita e i diritti del loro popolo. In secondo luogo, in base al principio di sussidiarietà, sono le autorità più vicine ai fatti in questione, e - data la natura attuale della guerra ad opera di reti terroristiche clandestine - hanno accesso ad informazioni estremamente riservate. Ad altri compete il diritto e il dovere di esprimere il giudizio della propria coscienza. Il giudizio definitivo spetta comunque alle autorità di governo.

"La valutazione di tali condizioni di legittimità morale appartiene al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune". (Catechismo n° 2309).

Ricapitolando, la novità nella teoria della guerra giusta nel mondo del ventesimo secolo è il concetto della "guerra asimmetrica". Tale concetto è stato elaborato da organizzazioni terroristiche internazionali che, per quanto dipendano dall'assistenza clandestina degli Stati disposti ad aiutarli in segreto, non sono responsabili nei confronti di alcuna autorità di governo. Per dimostrare l'incapacità dei governi democraticamente eletti di difendere la vita dei loro popoli, queste cellule terroristiche compiono attacchi sensazionali contro civili innocenti.

Verosimilmente, quanto più drammatici e sanguinosi saranno tali attacchi, tanto maggiore sarà la loro efficacia, scuotendo alle fondamenta i governi legittimi.

Questo nuovo concetto strategico, e le mutate condizioni tecnologiche, culturali e logistiche che lo rendono attuabile, hanno provocato da più parti la condanna morale di tali gruppi del terrorismo internazionale come nemici del mondo civile. Il Vaticano stesso ha pronunziato tale condanna dopo la strage dell'11 settembre 2001.

Allorché divenne chiaro che il centro di comando e il campo di addestramento principale degli autori della strage dell'11 settembre si trovavano sotto la protezione del governo taliban in Afghanistan, le autorità morali hanno riconosciuto altresì che una guerra limitata e condotta con grande attenzione per provocare un cambiamento di regime in Afghanistan rappresentava un obbligo morale.

Nei mesi successivi, i servizi segreti hanno accertato che i terroristi progettavano altri attacchi contro monumenti famosi nelle capitali europee, fra cui Parigi, Londra e la Città del Vaticano. Mesi dopo, gli attacchi contro il Teatro dell'Opera a Mosca, alcune chiese cristiane in Pakistan e una affollata discoteca in Indonesia hanno confermato la dimensione planetaria di tale minaccia.

Ciononostante, nel caso dell'Iraq, Civiltà Cattolica ha sostenuto di recente che la guerra sarebbe ingiusta, proponendo la teoria che le motivazioni americane fossero legate al petrolio iracheno: "Il motivo fondamentale sembra essere la posizione geopolitica detenuta dall'Iraq in Medio Oriente (in quanto uno dei) tre principali produttori di petrolio e di gas naturale (Iraq, Iran e Arabia Saudita)". (La rivista non dice nulla di simile riguardo alle motivazioni di Francia, Russia, Cina o altri paesi). Ma l'America ha motivi seri per fare la guerra, ben più importanti del petrolio iracheno.*

La considerazione fondamentale nel difendere l'interesse nazionale è che, in un momento che non abbiamo scelto noi e con modalità che non volevamo, l'11 settembre 2001 è stata dichiarata contro di noi una guerra vera e propria, nelle parole e nei fatti. L'aggressore non aveva un esercito permanente i cui movimenti avrebbero potuto far intuire l'imminenza di un attacco. Al contrario, l'attacco è giunto assolutamente imprevisto, colpendo vittime innocenti in una calda e luminosa giornata di settembre. Le armi utilizzate non erano armamenti militari convenzionali, bensì aerei civili americani carichi di combustibile per il lungo viaggio fino alla California. I bersagli stabiliti -due grattacieli a Manhattan - non hanno lasciato alle ignare vittime alcuna possibilità di scampo.

I criteri normali accettati dai teorici della guerra giusta non erano specificamente presenti: non c'erano stati né movimenti di corpi militari convenzionali, né segni visibili di un attacco imminente, né la voce ufficiale di uno Stato-nazione ostile. L'orrore della catastrofe è stato comunque immenso.

Con ogni evidenza, era stata lanciata una guerra internazionale. I suoi autori la definivano una jihad internazionale, scatenata non soltanto contro gli USA, ma contro tutto l'Occidente, anzi, contro tutto il mondo non islamico. (Il mondo aveva già pianto per la distruzione degli antichi monumenti buddisti in Afghanistan, una perdita incommensurabile).

Nessuna importante autorità morale ha incontrato difficoltà a riconoscere che una guerra per prevenire questo terrorismo di nuovo genere non soltanto è giusta, ma è un dovere morale.

Che ruolo ha l'Iraq in questo quadro? Dal punto di vista delle autorità di governo che devono calcolare i rischi di un intervento - o di un non intervento - nei confronti del regime di Saddam Hussein, i punti salienti sono due. Saddam Hussein dispone dei mezzi per portare la devastazione e la morte a Parigi, Londra o Chicago, o qualsiasi altra città, a suo piacimento, gli basta trovare alcuni "fantaccini" clandestini non identificabili per far arrivare su bersagli prestabiliti piccole quantità di sarin, botulina, antrace ed altre sostanze letali. In secondo luogo, cellule terroristiche indipendenti sono già state addestrate proprio per queste missioni, ed hanno sbandierato ai quattro venti la loro intenzione di provocare tale distruzione, volentieri e con gioia. L'unica cosa che manca ancora, fra questi due elementi incendiari, è una scintilla che stabilisca il contatto.

Con i ben noti precedenti di Saddam nell'impiego di tali armi, e il disprezzo che ha ripetutamente dimostrato per il diritto internazionale, soltanto uno statista imprudente, se non addirittura temerario, potrebbe aspettarsi fiducioso che queste due forze rimarranno separate per sempre. In realtà, potrebbero incontrarsi in qualsiasi momento, in segreto, per uccidere decine di migliaia di persone ignare e innocenti.

Che sia ben chiaro: se dovesse esserci un tale attacco, avverrà senza una minaccia imminente, senza essere segnalato da movimenti di armi convenzionali, senza preavviso di nessun genere.

In altre parole, esiste già una probabilità fra 0 e 10 che le armi micidiali di Saddam cadano nelle mani di al Qaeda. (Esistono anche altre ramificazioni della rete del terrore internazionale). Ragionevoli osservatori possono discettare se il rischio attuale sia due, quattro, o otto. Ma una cosa è indiscutibile: coloro che giudicano che il rischio è basso, e di conseguenza permettono che Saddam rimanga al potere, avranno una spaventosa responsabilità, se commettono un errore di valutazione, e se in futuro si verificheranno attentati.

È ben altra cosa che siano osservatori esterni a calcolare tali rischi, o che invece lo facciano autorità di governo legittimamente costituite e tenute a proteggere i loro popoli da attacchi terroristici.

Naturalmente, coloro che oggi scelgono la via della guerra si assumano la responsabilità di tutti gli amari frutti della guerra futura. La questione morale, qui come in tanti altri settori in cui è doveroso invocare la prudenza, impone di soppesare i rischi, con un atteggiamento responsabile. Per risolvere tale questione morale è anche necessario essere a conoscenza delle informazioni raccolte dai servizi di intelligence che seguono costantemente le reti terroristiche e le loro attività.

In breve, oggi come oggi alcune persone (come me) sostengono che in base alla dottrina cattolica originale del justum bellum, una guerra limitata e condotta con grande attenzione per portare ad un cambiamento di regime in Iraq sia, come extrema ratio, moralmente obbligatoria. Se le autorità di governo non si impegnassero in una simile guerra, riporrebbero imprudentemente la loro fiducia nella ragionevolezza e nella buona volontà di Saddam Hussein.

Saddam Hussein è un leader di riconosciuta "megalomania" (come ha detto di lui il Presidente egiziano Mubarak), un leader estremamente crudele, che in passato ha utilizzato sistematicamente le armi di distruzione di massa contro i suoi stessi sudditi.

Se Saddam violasse la loro fiducia lanciando un violento attacco con armi batteriologiche contro qualche città occidentale, le autorità di governo che gli avessero dato credito lasciando la propria sicurezza nelle sue mani, avrebbero colpevolmente ignorato il suo comportamento passato.

A questo punto, è doveroso fare un accenno alla dottrina cattolica originale dello justum bellum, ma soprattutto a quei problemi ad bellum che si pongono nel prendere le decisioni che precedono la guerra. Si tratta di problemi che, naturalmente, precedono i problemi in bello, quelli che approfondiscono il comportamento da seguire nel condurre la guerra. La dottrina della guerra giusta affonda le sue radici nella comprensione cattolica del peccato originale, articolata in tale contesto da Sant'Agostino nel Libro XIX de La Città di Dio. In questo mondo, i cristiani avranno sempre a che fare con il male del cuore umano che semina divisione, devastazione e distruzione. Agostino ha vissuto in prima persona molti mali del genere, in particolare gli orrori del Sacco di Roma del 410 A.D. Ciononostante egli sosteneva che i cristiani che agiscono come autorità di governo sono vincolati dalle leggi della carità e della giustizia, anche quando fanno la guerra.

Agostino definiva la pace come la "tranquillità dell'ordine", rappresentata da un assetto internazionale dinamico e mutevole, creato da comunità politiche giuste e mediato dal diritto. Allorché le autorità di governo intervengono contro aggressori ingiusti per difendere tale ordine, si muovono secondo finalità politiche giuste. La dottrina della guerra giusta nelle sue considerazioni ad bellum espone le norme in base alle quali le autorità di governo sono tenute a muoversi per difendere i loro popoli e per ripristinare le condizioni minime essenziali per l'ordine internazionale, con mezzi bellici. Secondo questa dottrina, la guerra è una finalità politica moralmente appropriata e può costituire un obbligo morale per le autorità di governo allorché le circostanze rendono indispensabile agire per fermare il male.

L'obiettivo di una guerra giusta è quello di bloccare un grande male, di ripristinare la pace e tutelare le condizioni minime della giustizia e dell'ordine mondiale. Sia per Sant'Agostino che per San Tommaso d'Aquino, la riflessione sulla guerra è regolata dai principi della carità e della giustizia. A loro parere, la guerra giusta non "comincia con una presunzione contro la violenza", bensì con una presunzione che affronta in primo luogo i doveri delle autorità di governo di agire secondo carità e giustizia e, in secondo luogo, in un mondo peccaminoso in cui l'ingiustizia e la violenza contro gli innocenti continueranno nei secoli dei secoli. E certamente sono continuate nel XX secolo, e adesso nel XXI secolo.

Oggi come oggi, nessuno nega che il terrorismo internazionale costituisca un attacco deliberato contro la possibilità stessa di un ordine internazionale. È universalmente riconosciuto che le autorità di governo hanno il dovere di affrontare tale terrorismo e sconfiggerlo.

È questo il contesto in cui si pone attualmente il problema ad bellum in merito ad una guerra limitata e condotta con grande attenzione contro l'Iraq. Il dovere primario delle autorità di governo in democrazie ben strutturate consiste nel tutelare la vita e i diritti dei loro popoli.

Inoltre, nel valutare le molteplici circostanze che è doveroso soppesare nel procedere verso una decisione ad bellum, quelle stesse autorità di governo cui spetta la responsabilità immediata e che sono le più vicine ai fatti, devono assumersi anche una priorità morale. Il Catechismo cattolico lo dichiara senza la minima ambiguità, come abbiamo visto in precedenza (no 2309).

Il primo motivo, quindi, per cui le autorità di governo degli Stati Uniti hanno sollecitato le Nazioni Unite a preoccuparsi seriamente dell'Iraq, riguarda la guerra preventiva che è stata dichiarata contro gli Stati Uniti l'11 settembre 2001. E' stato evidente sin dall'inizio che diciannove studenti universitari di famiglie di ceto medio (per lo più residenti in Arabia Saudita) non avevano compiuto quell'attentato senza aiuti esterni. Disponevano dell'appoggio di vari Stati (in primo luogo l'Afghanistan, ma anche lo Yemen, l'Iran, il Sudan ed altri ancora), disposti ad agire come fuorilegge internazionali, nella clandestinità, senza uscire allo scoperto.

Nel frattempo, per dodici lunghi anni, Saddam ha continuato a violare in piena flagranza le condizioni che gli erano state imposte dalle Nazioni Unite per rimanere alla presidenza dell'Iraq. In un mondo diventato molto più pericoloso dopo l'11 settembre, delle due l'una: o la comunità mondiale è pronta a sostenere l'ordine internazionale, oppure viene meno agli impegni assunti con tanta solennità. Nella seconda ipotesi, singoli paesi sovrani rifiuteranno di rendersi complici della politica di appeasement. Agire diversamente equivarrebbe a partecipare alla congiura di Saddam contro l'ordine internazionale, e assumersi la responsabilità di qualsiasi atto egli possa compiere in futuro.

Molti altri paesi oltre l'Iraq sono stati costretti a distruggere le loro armi e a dimostrare di averle distrutte - basti pensare al Sud Africa, al Kazakistan e ad altre repubbliche della ex Unione Sovietica. Tutti hanno adempiuto tale obbligo, completamente e in maniera trasparente. L'Iraq non lo ha fatto. Non ha fornito giustificazioni per immense quantità di armi chimiche e batteriologiche che in precedenti occasioni aveva ammesso di possedere, o che gli ispettori internazionali avevano dimostrato essere in suo possesso.

L'onere della prova dell'inadempienza dell'Iraq non ricade sulla comunità internazionale. Tale fatto è stato già acclarato pubblicamente in ambito internazionale anni addietro. È compito di Saddam Hussein, come condizione essenziale per rimanere alla presidenza dell'Iraq, fornire le prove dell'avvenuto disarmo.

Sinora, egli non si è degnato di farlo. Saddam Hussein ha giudicato che alla comunità internazionale manca la volontà di far rispettare i suoi decreti.

Per alcuni anni è sembrato ragionevole (anche se vergognoso) non costringere Saddam Hussein a rispettare gli impegni presi, ma limitarsi ad aspettarlo al varco. Ma adesso, lo sviluppo di al Qaeda e di altre organizzazioni terroristiche internazionali altamente sofisticate aggiunge un nuovo pericolo alle violazioni commesse da Saddam Hussein contro le risoluzioni dell'Onu. Come è risaputo, Saddam Hussein è in grado di ordinare la perdita di un numero spaventoso di vite umane, lanciando un attacco improvviso e segreto contro importanti città occidentali, utilizzando piccole quantità di agenti chimici o biologici.

Ad esempio, è bastato meno di un cucchiaino da tè di antrace, sparso nelle lettere, per costringere migliaia di impiegati a Washington a sottoporsi a screening e ad un trattamento preventivo contro l'avvelenamento da antrace; inoltre, un edificio degli uffici del Senato è rimasto chiuso per molte settimane per la decontaminazione, due dipendenti di uffici postali sono morti, molti altri hanno sofferto malattie di durata non trascurabile.

Saddam Hussein non ha saputo render conto di oltre 5000 litri - cinque milioni di cucchiaini - di antrace di cui sappiamo che era in possesso qualche anno fa.

E questa cifra non comprende le migliaia di litri di botulina e di altre armi batteriologiche, fra cui il gas nervino e il sarin, di cui gli ispettori dell'ONU hanno denunciato la presenza nei suoi arsenali. Così come non comprende le scorte di iprite che gli ispettori dell'ONU hanno riferito essere in suo possesso. "L'iprite non è marmellata", è stato il famoso annuncio di Hans Blix nel gennaio scorso. "I governi devono sapere esattamente dove si trova e che cosa si fa con ogni contenitore di iprite". Si tratta infatti di un gas mortale.

In queste ultime settimane, i quotidiani hanno pubblicato rapporti di servizi europei di intelligence che parlavano di intense attività di gruppi appositamente addestrati di attentatori ceceni e di altri paesi islamici impegnati nella jihad, che preparavano attentati terroristici contro le città europee, nel caso di una guerra in Iraq. Che ci sia o no la guerra in Iraq, queste cellule nascoste sono ora entrate in attività, e rimarranno attive per molti anni a venire. Sussistono elevate probabilità che una di queste cellule, o anche più d'una, riescano a mettere le mani su agenti chimici o biologici. E il paese dove potranno farlo con la massima facilità è, di nuovo, l'Iraq.

Che quegli agenti chimici e biologici siano lì, pronti a finire nelle loro mani, deve esser considerato un fatto accertato, fino a che Saddam Hussein non fornirà le prove di avere distrutto tali sostanze. Per dodici anni egli ha rifiutato di farlo, preferendo far soffrire al suo paese il peso delle sanzioni economiche. Credere che proprio adesso egli sia disposto a fornire tali prove, rappresenta una sfida alla logica. Ciononostante, ancora una volta, gli è stata offerta una "finestra di opportunità" per dimostrare che ha distrutto tali sostanze, e che esse non costituiscono più alcun pericolo.

Speriamo che Saddam Hussein come ultima ratio si decida ad obbedire agli impegni solennemente presi nei negoziati di pace del 1991, e che così facendo garantisca finalmente quelle che sono le condizioni minime imprescindibili dell'ordine internazionale. In tal caso, non ci sarà guerra. In tal caso, la politica degli Stati Uniti avrà avuto successo, senza dover ricorrere all'uso delle armi.



* Attualmente, alcune compagnie petrolifere francesi, russe e cinesi hanno stipulato contratti per collaborare allo sviluppo dei giacimenti petroliferi iracheni. L'Europa dipende dal petrolio iracheno in misura molto maggiore degli Stati Uniti (soltanto una minima frazione del petrolio USA proviene dall'Iraq, circa il 6%). Il petrolio iracheno, anzi il petrolio proveniente dal Medio Oriente nel suo complesso, è molto più importante per gli interessi nazionali europei che non per quelli americani. Già da alcuni anni a questa parte gli Stati Uniti hanno deciso di coprire la stragrande maggioranza del proprio fabbisogno col petrolio del loro emisfero, in particolare del Canada, del Messico e del Venezuela, e di ridurre costantemente il ricorso al petrolio medio-orientale. L'Europa ha una dipendenza molto maggiore dal petrolio iracheno, ed è molto più coinvolta con l'industria petrolifera irachena. Io credo che gli USA debbano costituire un consorzio con le nazioni che attualmente hanno contratti per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi iracheni, consorzio che dovrà includere in primo luogo l'Italia, la Francia, la Russia e la Cina.

Entro quindici anni, gli Stati Uniti sperano che una percentuale significativa delle automobili e degli impianti di riscaldamento utilizzerà l'idrogeno come fonte di energia. I modelli sperimentali sono già utilizzati in misura piuttosto ampia, e il Presidente Bush ha annunciato un importante programma di ricerca per finanziare tale iniziativa. Gli Stati Uniti si propongono come obiettivo l'indipendenza energetica e, a più breve termine, la riduzione costante del ricorso al petrolio medio-orientale.