Già il Patto sui diritti civili e politici
del '66, all'art.4, esclude che anche nei casi di "pubblico pericolo
eccezionale che minacci l'esistenza della Nazione e venga proclamato
con atto ufficiale" gli Stati parte possano derogare al divieto di
tortura e a trattamenti crudeli, disumani e degradanti.
La Convenzione di New York,
dal canto suo, vietando all'art.2 gli atti di tortura e i trattamenti
degradanti di individui comunque sottoposti alla giurisdizione di
ciascun Stato che l'abbia ratificata, ribadisce che "nessuna
circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di
guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di
qualsiasi altro stato di emergenza pubblica, può essere invocata per
giustificare la tortura".
Un divieto, insomma, che non tollera
eccezioni: neppure quella derivante dalla necessità di contrastare il
terrorismo. Per la verità, il rischio che le risposte
di uno Stato al pericolo di atti terroristici possano tradursi in una
violazione degli obblighi della Convenzione di New York si fa
particolarmente forte proprio quando si tratta di contrastare, con ogni
mezzo, il terrorismo "internazionale", come è ora per gli Stati Uniti
d'America. La legislazione adottata all'indomani dell'attentato dell'11
settembre ha infatti determinato il governo americano ad emanare una
serie di ordinanze per la condotta di quella che espressamente viene
dichiarata la "guerra al terrorismo". Nella "probabilità" che si
possano verificare "potenziali atti di terrorismo" e nella convinzione
dell'esistenza di "una straordinaria emergenza ai fini della difesa
nazionale", l'Ordinanza militare del 13 novembre 2001 ha inteso per
l'appunto "regolare" la detenzione e il trattamento nei confronti dei
non-cittadini americani dei quali, caso per caso, vi siano ragioni per
ritenere che siano stati o siano membri di "Al Qaeda" o che abbiano
"preso parte, aiutato o sostenuto o progettato di commettere atti o
azioni in preparazione di terrorismo internazionale" ai danni degli
Stati Uniti, dei loro cittadini, della sicurezza, politica estera o
economia nazionali (Ordinanza Militare del Presidente G.W. Bush,
riprodotta in Guantanamo. Usa, Viaggio nella prigione del terrore, di
Carlo Bonini, Einaudi editore, 2004).
E' cosa nota - lo provano il Rapporto Annuale di Amnesty International
del 2003 e il dettagliato resoconto di Carlo Bonini - che, a seguito
della citata ordinanza (e di quelle che nel tempo si sono susseguite),
più di 600 cittadini stranieri, la maggior parte dei quali catturati in
Afghanistan, sono stati rinchiusi nella base americana di Guantanamo
Bay, a Cuba: le condizioni di detenzione dei reclusi di Guantanamo e,
prima ancora, il modo in cui essi vi sono stati trasferiti hanno
destato e continuano a destare viva preoccupazione.
Negli stessi giorni in cui il governo americano dichiarava guerra al
terrorismo e poneva le basi per la sua azione a Guantanamo, il Comitato
contro la tortura - organismo di controllo della Convenzione di New
York - si affrettava ad assumere una decisa presa di posizione circa
l'inderogabilità degli artt. 2, 15 e 16 della Convenzione, ribadendone
la non-derogable nature: chiarendo, altresì, che "whatever responses to
the threat of international terrorism are adopted by State parties,
such responses will be in conformity with the obligations undertaken by
them in ratifying the Convention against torture" (Statement of the
Committee against torture:22.11.2001. CAT/C/XXVII/Misc.7). Solo così le
misure intraprese dagli Stati a questo fine risulterebbero, del resto,
in conformità per davvero con le risoluzioni adottate dal Consiglio di
Sicurezza - tra cui la n.1373 - cui pure rinvia il Comitato contro la
tortura: quella risoluzione che pur riconoscendo "the need to combat by
all means, the threats caused by the terrorist" richiama gli Stati al
rispetto della Carta delle Nazioni Unite.
Ora, anche gli Stati Uniti d'America hanno ratificato, oltre al Patto
sui diritti civili e politici, la Convenzione contro la tortura,
assumendosi così l'obbligo di rispettare i diritti che tali accordi
prevedono debbano essere assicurati a tutti gli individui (cittadini e
non) comunque sottoposti alla loro giurisdizione: dunque anche nei
confronti dei detenuti di Guantanamo. Né possono rilevare le riserve,
eventualmente interpretative, rese dagli Stati Uniti al momento del
deposito della ratifica della Convenzione di New York (Declarations and
Reservations to the Convention as of 21 November 2003, United States of
America, in www.un.org). E' ben vero che per il diritto internazionale
possono avere effetti anche le riserve, non espressamente previste dal
trattato, quando però vi sia l'accordo degli altri contraenti e in
nessun caso inficino il contenuto del trattato. Ora, a questo riguardo,
la Convenzione di New York ha ad oggetto l'obbligo di modificare il
diritto interno assolutizzando il reato di cui trattasi secondo la
nozione del suo articolo 1 e la modifica necessaria della legislazione
penale interna in quel preciso senso: pertanto, qualora quest'obbligo
assoluto sia incompatibile con la costituzione dello Stato si pone,
semmai, per lo Stato medesimo l'unica prospettiva dell'impossibilità di
ratificare. Sicché in ultima analisi, laddove questo non si dia, anche
lo stesso sforzo interpretativo non può che defilarsi sulla stretta
linea della Convenzione rispetto a tutti gli individui soggetti alla
giurisdizione statale.
Non stupisce, d'altro canto, che nel clima che s'è andato diffondendo
negli Stati Uniti - un clima che ben si coglie nello scritto di Guido
Rossi, La sfida dei diritti al tempo della guerra, La Repubblica, 16
novembre 2003 - non manchi pure chi giunge ad affermare che "per
combattere la tortura credo che sia arrivato il momento di regolarne
l'uso", poiché "soltanto se la legge fisserà i pochi e tassativi casi
in cui è ammessa la coercizione di un prigioniero, di un detenuto, se
ne indicherà altrettanto tassativamente le modalità, sarà possibile
ridurre il ricorso clandestino e indiscriminato" (così Alan Dershowitz
in una conversazione raccolta da Carlo Bonini, Guantanamo, p. 110-111).
E allora se persino giuristi pure attenti alla protezione dei diritti
umani pensano di poter "regolamentare" la tortura ritenendo che ciò
costituisca quantomeno "un rimedio necessario per sconfiggere il
terrore e la tortura indiscriminata" (ancora Alan Dershowitz) la presa
di posizione del Comitato contro la tortura assume una valenza
particolarmente forte: ribadire l'inderogabilità delle sue norme e dei
principi che in essa si affermano significa richiamare gli Stati
all'osservanza stretta di un divieto che non ammette eccezioni proprio
nel momento in cui la lotta al terrorismo può trasformarsi in barbarie.
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