Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
Effettività e idealità del diritto penale internazionale :: Studi per la pace  
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Potere e diritto Dr. Silvio Riondato
Effettività e idealità del diritto penale internazionale
Conferenza

Intervento alla Conferenza
Crimini di guerra e giurisdizione internazionale
Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara
11 giugno 1999 Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
www.studiperlapace.it - no ©
Documento aggiornato al: 1999

 
Sommario

La vicenda della Germania nazista ha insegnato che non si può proprio restare fermi, perché alla fine si diventa corresponsabili: prima di tutto sul piano morale. Gli individui devono muoversi. E' vero, siamo in democrazia, ma la democrazia non può annientare se stessa, la democrazia non è legittimata a tollerare gravi crimini.

 
Abstract
 

Mi soffermerò sui temi dell'effettività e della idealità dei sistemi di giustizia penale internazionale. Dirò anche qualcosa che forse potrà non piacere, ma ha scopo provocatorio, per stimolare un'ulteriore riflessione che possa appassionare ancora di più nella lotta per il diritto che bisogna sostenere affinché questi sistemi siano sempre più efficienti, e quindi sempre più effettivi, e soprattutto sempre più conformi alle esigenze di fondo di cui dirò.

Penso che si debba fare un grande sforzo per rendere la giustizia penale universale effettiva. Noi per ora abbiamo questi due tribunali (Jugoslavia Ruanda) che sono un piccolo inizio, e ne abbiamo un altro, un bel gigante, che è ancora allo stadio de iure condendo, la Corte criminale internazionale permanente. La strada è molto lunga e molto impervia ma non si deve disperare. Io ritengo che anche una giustizia imperfetta, quindi anche la giustizia che in molta parte è ineffettiva ma in piccola parte effettiva, sia preferibile a una non giustizia tout court (alcuni la pensano diversamente, come dirò dopo). Detto questo, dobbiamo anche, come giuristi, guardare al diritto con spirito pratico e saper cogliere il diritto come effettivamente è, oltre che come dovrebbe essere secondo ispirazioni ideali. Quando trattiamo di questi sistemi di giustizia internazionale, tribunali per la Jugoslavia e Ruanda, Corte internazionale permanente, dovremmo cercare di chiarire qual'è il frutto del bilanciamento che sta a capo di essi.

Infatti, c'è un bilanciamento tra due contrapposte istanze, una che proviene dalla forza degli stati, la forza degli stati che assiste la volontà dei governanti -insomma, la sovranità degli stati- e l'altra è quella del consenso degli individui, delle comunità nazionali e non, delle organizzazioni non governative, dei singoli individui in complesso, per dirla anche con una parola grossa, il consenso dell'umanità. Queste istanze,sovranità degli stati contro umanità, sono contrapposte, e dunque necessitano di un bilanciamento. Ci sono dei dogmi che resistono e che qualcuno dice si stanno per infrangere: si tratta, appunto, del principio di sovranità, di indipendenza di ciascuno stato nell'ambito della comunità internazionale, e del suo corollario (che forse anzi è il suo prius ma lo chiamano corollario), cioè il difetto di soggettività, nell'ambito internazionale, degli individui e delle comunità, i quali sarebbero assoggettati all'imperium dei governi, di coloro che governano il proprio stato nazionale. Questi dogmi non sono ancora caduti. La formazione di una giustizia penale universale che abbia propri organi, ed il potere di disporre di una forza, non c'è. Una forza che porti ad esecuzione le decisioni è sempre stata ostacolata dagli stati e in particolare dalle grandi potenze. Dopo la seconda guerra mondiale, negli anni della guerra fredda, c'è stata una continua politica del rinvio, una politica del rinvio anche oggi mascherata per non far vedere la volontà negativa. Siamo rimasti con un assillante problema, centrale per questo diritto penale universale.

Il problema non consiste nel determinare come questo diritto tecnicamente deve strutturarsi, perché è già stato studiato abbastanza. Consiste nel conseguimento di effettività. Tutto il resto diventa quasi secondario. Il punto sul quale dobbiamo esigere estrema chiarezza è che noi abbiamo a che fare con la cultura dell'impunità una cultura dell'impunità che persiste e che riguarda, si badi bene, i governanti. La cultura dell'impunità è la cultura degli uomini che detengono il potere. Gli esiti di questa cultura sono riservati da questi uomini a loro stessi, mentre per coloro che si contrappongono è riservata la cultura della punizione. Tanto deriva dalla forza della sovranità che gli stati tuttora detengono e alcuni stati più che altri.

Orbene, che questi tribunali nuovi, formati o in via di formazione, siano una risposta alla domanda di giustizia che si contrappone alla cultura dell'impunità, probabilmente è ancora tutto da dimostrare, anche se viene così tanto affermato. Si tratta di una risposta molto relativa, perché è condizionata proprio dalla cultura dell'impunità in cui questi sistemi sono ancora bene inseriti. C'è, comunque, una modesta novità, la concessione a che gli autori di gravissimi crimini internazionali corrano il rischio di essere puniti almeno quando abbiano perso il potere che detenevano. Questo sistema è infruttuoso, perché non realizza esigenze di prevenzione generale. Più che altro realizza la probabilità che si concretizzi una punizione, ciò che vale soprattutto sul piano simbolico, anche se questo non significa che non ci si debba impegnare per assicurare quanta più effettività possibile. A dimostrazione di quello che sto dicendo già abbiamo avuto qualche accenno dalle parole del giudice Perduca e anche dalla dottoressa Noli. Io vorrei soffermarmi su uno degli istituti di cui ci hanno già parlato, il divieto del procedimento in contumacia.

Il meccanismo del procedimento in contumacia dimostra completamente come non sia possibile processare qualcuno che attualmente gestisce il potere. Abbiamo bisogno, prima, di arrestarlo, in quanto è impensabile che si presenti volontariamente ( nel caso è lui che decide che il processo abbia luogo). Abbiamo bisogno, prima, di arrestarlo, questo è il punto. Il potere deve cessare e per farlo cessare non basta una decisione di una corte penale, deve cessare per altre ragioni, deve cessare perché c'è una rivoluzione interna, deve cessare perché c'è una guerra che altri stati muovono. E' storia di questi giorni: che ne sarà di chi ha commesso questi crimini, che ne sarà di chi sta in testa, dipenderà da quanto si premerà sull'acceleratore in queste operazioni belliche o di polizia internazionale o chiamatele come volete. E' vero, in questi statuti sono previste delle grandi novità, per esempio l'irrilevanza delle varie immunità. Non perché il diritto interno o il diritto internazionale prevedono una qualche immunità - come in effetti prevedono o prevedevano -, si è esentati da responsabilità penale, quindi non perché sei il Capo dello stato o perché sei il capo del governo e via dicendo, non perché sei un rappresentante dello stato. Ciò vale sul piano del diritto penale sostanziale. Ma non vale sul piano della persecuzione dei crimini, sul piano, chiamiamolo così, processuale. L'interessato deve essere presente al dibattimento (o ci sei o non ti posso processare in contumacia). Qui evidentemente l'arresto non ha lo stesso significato che ha nella procedura penale interna, quella nazionale. Si vuole evitare di processare il così detto individuo organo (si arriva fino alla messa in stato d'accusa al massimo, poi ci si blocca). Questa è uno degli esempi che potrei fare tra i tanti. Pensiamo all'iter dello statuto della corte permanente di cui ci hanno parlato. Ci vogliono le firme, le ratifiche, c'è un continuo rinvio ad altre norme che devono essere emanate, ad altre commissioni che devono stabilire quali sono i reati, perché evidentemente non sono abbastanza descritti; insomma, c'è un continuo rinvio dei tempi. Ci rendiamo conto che la politica del diritto penale internazionale è ancora troppo forte rispetto al diritto della politica internazionale e al diritto penale, in specie, della politica internazionale.

In questo quadro, mi pare che non sia facile dire che questi nuovi tribunali non sono più come erano i precedenti, cioè i tribunali dei vincitori sui vinti. A me pare che siano ancora in sostanza dei tribunali del genere, sono tribunali di vincitori su vinti. Ma il problema è che questa affermazione non è sufficiente per decretare l'illegittimità o l'ingiustizia di questi tribunali. Io non ritengo che il tribunale di Norimberga sia un tribunale frutto di un ingiustizia, no. Frutto di ingiustizia è stato, semmai, che non siano stati giudicati gli appartenenti alle potenze vincitrici che avessero commesso fatti corrispondenti a quelli giudicati dal tribunale. Non perché si condanna un omicida e l'altro scappa, l'aver condannato un solo omicida è una ingiustizia. Peraltro molti la pensano diversamente, c'è chi pensa che effettività richieda uguaglianza, richieda giustizia ecc.. e quindi finchè non c'è uguaglianza e giustizia in assoluto non si giudica nessuno, non si condanna nessuno. Queste teorie non le condivido.

Date queste premesse, vorrei soffermarmi un momento anche su un altro degli slogan che si agitano intorno a questa giustizia penale internazionale, quello secondo cui l'anello mancante del sistema giuridico internazionale sono i tribunali penali internazionali. E' un anello mancante ma anche manchevole. Si parla di insufficienza dei sistemi giudiziali nazionali, del fatto che allo stato difetta la volontà o la forza di contrastare questi crimini. Ma io mi chiedo, se manca la volontà sul piano nazionale, perché mai questa volontà dovrebbe sorgere sul piano internazionale? Sul piano internazionale potrà semmai formarsi una forza più potente, ma bisogna che questa forza sia assistita da una volontà e da una decisione e quindi da un'azione che porti alla norma e all'effettività della norma. Per sostenere che la corte è stata creata perché gli stati non si assumono le loro responsabilità, bisognerebbe dimostrare che tramite queste corti sono venuti meno gli ostacoli che si frappongono alla persecuzione dei crimini da parte degli stati. Ma anche stati che prevedono in qualche misura una giurisdizione universale, cioè si dichiarano competenti a punire crimini ovunque commessi non importa da chi, quando e dove ecc., recalcitrano a farlo. Per esempio il Canada, Israele e la Spagna hanno rifiutato l'invito degli Stati Uniti di processare i crimini commessi da Pol Pot. Del resto, nemmeno gli Stati Uniti che lo chiedono ad altri processano Pol Pot, o cambiano la loro legislazione per processare Pol Pot. C'è stata una iniziativa spagnola contro Pinochet, ma anche li erano coinvolti dei cittadini spagnoli.

Qui gioca un ruolo equivoco - e riporto il tema su binari penalistici tradizionali- la nozione di bene giuridico nazionale, interesse nazionale, che sta in contrapposizione a quella di bene giuridico internazionale. Quest'ultimo, in quanto internazionale, non farebbe capo allo stato e quindi lo stato di per sè se ne disinteressa nella propria azione individuale, e trasferisce tutti i problemi sul piano internazionale. La difficoltà è dovuta anche alla dottrina che continua ad impiegare una nozione equivoca di bene giuridico internazionale. Noi avremmo bisogno di nuove categorie, cioè, una volta che si aprisse davvero l'epoca in cui la sovranità dello stato (anche esterna) cessasse di essere una libertà assoluta, una libertà selvaggia, che si rendessero effettive due norme fondamentali: l'una che consiste nell'imperativo della pace e l'altra che consiste nell'imperativo della tutela dei diritti umani. Questi sono interessi dei singoli uomini, rilevanti ovunque si verifichino fatti che siano contrari, chiunque li commetta, quindi dovrebbero essere allo stesso modo interessi degli stati nazionali, interessi nazionali, ancora prima che europei, internazionali, mondiali, universali o che dir si voglia.

In questa prospettiva -che è del dover essere del diritto penale internazionale e quindi non è una prospettiva effettiva, cioè stiamo facendo riferimento ad una prospettiva ideale-, ci interesserebbe il bene giuridico universale, quello che l'umanità come legislatore indica (per dirla così), l'umanità come legislatore, perché solo l'umanità come legislatore può affermare il principio di umanità, principio che deve stare alla base di questo diritto universale, compreso il diritto penale. Ma certo noi siamo ancora indietro rispetto a questo sistema. Un fatto lesivo degli interessi dell'umanità potrebbe essere punito con interventi degli organi di questa stessa comunità, separati ed indipendenti dai singoli stati. E questo può essere un sistema auspicabile, che del resto non vieta che uno stato organizzi i suoi tribunali in modo tale da applicare la norma penale universale, per quanto è possibile. Se uno stato non lo fa bisogna capirne le ragioni, che consistono nel fatto che il principio di giurisdizione internazionale è esssenzialmente concepito, semmai, sul piano nazionale (a parte il fatto che, quando c'è, in molti stati compare sempre con una grande serie di limitazioni, come per esempio in Italia dove il principio esiste, molto limitato, e le limitazioni fanno tutte capo a ragioni di opportunità politica: negli articoli 7 e seguenti del codice penale italiano abbiamo tutta una serie di espansioni della giurisdizione dello stato, ma con un blocco costituito dalla richiesta del ministro; ciò significa, in termini atecnici, che il governo decide se si fa il processo oppure no, se la norma penale funziona o no). L'effettività dipende da una scelta politica.

Il principio di giurisdizione universale, se lo concepiamo dal punto di vista del diritto ultranazionale per cui lo stato potrebbe, se non proprio dovrebbe, attivarsi per colpire i crimini internazionali, non è un principio generale di diritto penale internazionale, ma sarebbe un principio di diritto penale universale. E, quale diritto penale universale, viene ostacolato dagli stati tramite il loro diritto internazionale, questa è la verità dell'effettività. E' dunque vero quello che si dice, e cioè che la sovranità nazionale non ha nulla da temere dal consolidamento, volendo anche più incisivo, del diritto penale internazionale, ma non nel senso che la soddisfazione delle esigenze che vengono avanzate dall'umanità siano conciliabili con gli interessi dei governanti e quindi con l'interessi degli stati, perché tutti questi consolidamenti del diritto penale internazionale purtroppo procedono di pari passo con il consolidamento della soggettività internazionale degli stati, con il privilegio, in questo ambito, degli stati più forti, con la costruzione anche del diritto penale internazionale in funzione dei rapporti attuali di forza. In nome di questi rapporti il diritto internazionale resta tale e non è diritto universale.

Credo che la recente vicenda dei rapporti fra ONU e NATO nel conflitto contro la Serbia (e quindi di crimini internazionali commessi, in ipotesi, da una parte e dall'altra), apra con grande chiarezza più che in passato, una nuova stagione di riflessione su chi governi il mondo, quindi su chi governi la giustizia penale mondiale (chiamiamola così), e sulla perniciosa instabilità che questo mondo ha con la sua giustizia penale. In realtà, l'anello mancante non è il tribunale penale internazionale, o comunque non è soltanto questo o non l'unico. In realtà abbiamo bisogno di una organizzazione mondiale, avremmo bisogno di una organizzazione mondiale democratica. Un tribunale penale internazionale potrebbe essere una delle espressioni della sua funzione giurisdizionale.Questo potrebbe essere, secondo me, il punto d'arrivo.

Veniamo brevemente più in particolare alla posizione dell'Italia. Qualcosa è già stato detto sul principio di giurisdizione universale, che è molto limitato da ragioni di opportunità politica. Con riferimento ai fatti di oggi, dei quali si occupano i vari tribunali dei crimini internazionali, una delle contraddizioni è la seguente: le norme che abbiamo applicato coi nostri tribunali nel processo Priebke, per la strage delle fosse Ardeatine, non sono applicabili ai nostri militari che mandiamo all'estero in queste operazioni più o meno di pace, più o meno di guerra, più o meno di polizia internazionale. Infatti ogni qual volta mandiamo all'estero i nostri militari, promulghiamo una legge in cui è stabilito che quelle norme non si applicano. Sono norme contenute nel codice penale militare di guerra, che una volta tanto il legislatore fascista, in modo illuminato , aveva reso automatiche, cioè operanti immediatamente. In questo modo entrano in funzione le norme che prevedono i reati contro le leggi e gli usi di guerra, cioè le norme che prevedono i crimini di guerra. Nel 1940 eravamo all'avanguardia, avevamo previsto i crimini internazionali quando ancora c'era qualcuno che dubitava che esistessero dei crimini internazionali. Abbiamo giudicato Priebke per la strage delle fosse Ardeatine con quelle norme. Però non le vogliamo per i nostri militari che vanno all'estero: infatti, tutto il codice penale militare di guerra viene dichiarato inapplicabile. Peranto, rispetto a tutte le norme delle varie convenzioni, che ci obbligano ad avere una legislazione di guerra che funzioni, noi siamo inadempienti.

Ma perché facciamo queste cose? Perché mai c'è una fuga del potere politico dalla soggezione a norme internazionali che potrebbero essere impiegate tramite la legislazione interna, e anzitutto dai giudici interni (che sono quelli che funzionerebbero meglio degli altri almeno in certi casi per colpire certe deviazioni criminose)? C'è una fuga che noi abbiamo constatato non soltanto con riferimento a questa spedizione militare , ma in tanti altri casi. Pensiamo ad esempio alla vicenda Ocalan: sono state violate tutte le regole del diritto nazionale e internazionale, scegliendo una via di fuga esplicitamente politica, del resto non molto onorevole. Abbiamo assistito a un totale sacrificio a una critica subordinazione politica rispetto a potenze straniere nel caso del Cermis, dove gli stessi giudici, affaticati da problemi anche giuridici pesanti, non sono stati neanche assistiti da una volontà politica nel senso di sottoporre a forte critica le convenzioni internazionali (che sembrava dicessero una cosa, ma avrebbero potuto dire anche dell'altro). Oltretutto, abbiamo anche una costituzione che limita a volte queste convenzioni internazionali: noi ci rifiutiamo di estradare se c'è la pena di morte, giustamente, ci rifiutiamo di estradare quando c'è un eccesso; ma dovremmo rifiutarci di estradare anche quando certe convenzioni prevedono la rinuncia alla giurisdizione in favore di niente, in quanto non si può rinunciare alla giurisdizione in favore di un'altra giurisdizione che non esiste - noi non possiamo rinunciare alla giurisdizione quando sappiamo che l'altra che verrà è un simulacro di diritto che si riempie di una decisione politica esclusivamente, com'è nel caso della giustizia penale militare americana, che funziona solo nei film. Perciò, se non ci stiamo quando c'è la pena di morte, dobbiamo non starci anche quando non c'è nessun processo, nessuna giustizia, nessuna possibilità di vedere affermata una norma.

Allora, cosa dobbiamo fare quando il potere politico non si muove? La vicenda della Germania nazista ha insegnato che non si può proprio restare fermi, perché alla fine si diventa corresponsabili: prima di tutto sul piano morale. Gli individui devono muoversi. E' vero, siamo in democrazia, ma la democrazia non può annientare se stessa, la democrazia non è legittimata a tollerare gravi crimini. Sopra la legge stanno dei valori e allora tutti gli individui devono attivarsi perchè si raggiunga un obiettivo, cominciando nel diritto statale, che è il più immediatamente influenzabile. Fra l'altro, bisognerebbe pretendere che i giudici nazionali ricostruiscano il sistema di giustizia universale e vi si collochino come giudici investiti dall'umanità e non come giudici della sola comunità nazionale o peggio giudici dell'autorità costituita. Qualcosa del genere è successo nelle sentenze delle camere dei lord nel caso Pinochet, dove, al di là delle forme giuridiche, degli escamotage che i giuristi trovano, in sostanza si è cercato di dare una priorità ad una norma internazionale, a una norma di giustizia universale in un certo senso. Noi abbiamo bisogno anche di questo, che ci sia una passione personale, a questo io invito, e invito e mi autoinvito a riflettere. Vi ringrazio per l'attenzione.