1. Il punto di partenza: attualmente, la battaglia per i diritti umani è affetta da molti difetti.
In particolare:
(1) il "fronte di battaglia" è troppo vasto (le istituzioni internazionali cercano di promuovere tutti i diritti umani, sia i diritti civili e politici che i diritti economici, sociali e culturali, in base alla teoria per cui i diritti umani sono universali e indivisibili). Questo indebolisce la battaglia e rende più difficile ottenere risultati efficaci.
Questa conclusione vale in particolare per alcuni fondamentali diritti economici e sociali (come il diritto ad un'alimentazione sufficiente, al lavoro, all'istruzione, ad un ambiente sicuro), così come per alcuni diritti civili e politici (come il diritto alla vita, il diritto a non essere sottoposti a tortura o a trattamenti disumani o degradanti, il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona). Inoltre, alcune categorie di persone finiscono con l'essere più vulnerabili e relativamente meno prottete di altre (pensate ad esempio ai bambini);
(2) esistono troppi meccanismi di controllo, e quasi tutti sono lenti, macchinosi e poco efficaci. In particolare, esistono troppe strutture che si occupano della stesura di rapporti all'interno della Commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite; sono spesso superflue, e in ogni caso ottengono molto poco.
In breve, nonostante gli enormi sforzi compiuti negli ultimi 55 anni dalla comunità internazionale e in particolare dalle Nazioni Unite, troppi Stati non sono ancora assoggettabili al rispetto degli standard internazionali sui diritti umani. Gravi violazioni continuano ad essere praticate senza diminuire e raramente i responsabili vengono chiamati a risponderne.
2. Si suggerisce che la comunità mondiale si concentri nei prossimi 10 anni su (1) un numero limitato di diritti umani cruciali, e (2) su pochi meccanismi di supervisione e applicazione. Questa azione mirata potrebbe essere intrapresa almeno su basi sperimentali, per verificare il conseguimento o meno di risultati positivi, sia a breve che a lungo termine.
3. Per quanto riguarda i diritti sostanziali si suggerisce che la comuntà internazionale si concentri sui seguenti diritti:
(i) il diritto ad un'alimentazione sufficiente;
(ii) il diritto al lavoro;
(iii) il diritto ad un ambiente sicuro;
(iv) il diritto alla vita;
(v) il diritto a non essere sottoposti a tortura o ad un trattamento o punizione crudeli, disumani o degradanti;
(vi) il diritto a non essere sottoposti ad arresto o detenzione arbitrari;
(vii) il diritto a non essere discriminati, nel proprio territorio o all'estero.
4. Naturalmente la promozione dei suddetti diritti è estremamente difficile. I primi tre diritti umani risultano di cruciale importanza nei Paesi in via di sviluppo. La loro realizzazione richiede cambiamenti radicali nelle relazioni economiche internazionali, in particolare nel commercio internazionale, così come un mutamento nell'orientamento dell'azione delle istituzioni internazionali responsabili della promozione dello sviluppo.
Il vantaggio derivante dal fatto di trattare questi problemi come questioni di diritti umani è che viene concentrato su di essi l'intero armamento di dottrine e strumenti relativi ai diritti umani.
In un certo modo questo potrebbe drammatizzare le questioni economiche, sociali e politiche coinvolte, e contribuire alla loro graduale soluzione. In un certo modo, si adotterebbe l'approccio che è alla base del mal concepito e maltrattato diritto allo sviluppo. Tuttavia, mentre questo diritto sarebbe troppo vasto, indefinito e vago, i diritti in discusione offrono il vantaggio di essere relativamente ben definiti, sebbene naturalmente anch'essi presentino enormi ramificazioni e implicazioni.
5. Per quanto riguarda i meccanismi di controllo e applicazione, si suggerisce di
(1) non eliminare i meccanismi esistenti (anche se dovrebbe essere posto un limite alla proliferazione di strutture che si occupano della stesura di rapporti all'interno della Commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite);
(2) tuttavia, alcuni di questi meccanismi già esistenti dovrebbero essere rafforzati considerabilmente; questo è particolarmente vero per quelli che operano sula base delle due Convenzioni delle Nazioni Unite;
(3) dovrebbero essere stabilite nuove procedure allo scopo di costringere gli Stati ad ossevare gli standard sui diritti umani.
6. Le nuove procedure dovrebbero mirare a far rispettare i diritti umani. Questo fine potrebbe essere conseguito in due modi:
(1) estendendo a livello universale la giurisdizione penale dei tribunali nazionali per le gravi violazioni dei diritti umani, e in particolare per tortura, crimini contro l'umanità e genocidio;
(2) prevedendo risposte internazionali energiche alle atrocità su larga scala e alle altre gravi violazioni dei diritti umani.
7. L'idea sottostante ad una giurisdizione penale universale per le gravi violazioni è che uno dei modi migliori per mettere fine, o almeno per limitare in misura significativa, le gravi violazioni dei diritti umani consiste nel portare in giudizio i responsabili. Attualmente la maggior parte degli Stati è priva di una legislazione che autorizzi o obblighi i tribunali nazionali ad esercitare una giurisdizione penale basata sul principio del forum deprehensionis. Solo pochi Stati hanno questo tipo di legislazione, mentre tutti gli Stati firmatari di trattati quali la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura del 1984, in forza delle disposizioni di questi trattati, sono autorizzati ad esercitare la giurisdizione limitatamente all'area coperta dal trattato stesso.
Essendo i diritti umani diventati un bonum commune humanitatis, un nucleo di valori di grande importanza per tutta l'umanità, è semplicemente logico e coerente garantire ai tribunali di tutti gli Stati il potere ed anche il dovere di perseguire, portare in giudizio e punire le persone ritenute responsabili di intollerabili violazioni di quei valori. Così facendo i tribunali agirebbero come "organi della comunità mondiale". In altre parole, non opererebbero per conto delle loro autorità, ma nel nome e per conto dell'intera comunità internazionale. Così, sarebbe finalmente portata a compimento e tradotta nella realtà la teoria di Gerges Scelle del "dédoublement fonctionnel", a lungo considerata una dottrina utopistica.
8. Consideriamo ora la necessità di azioni energiche della comunità internazionale per porre fine ad atrocità compiute su larga scala.
Qui, naturalmente, non si tratta di riesumare la vecchia e unilaterale dottrina dell'intervento umanitario. Si dovrebbe piuttosto costruire nuovi dispositivi o meccanismi per conferire alla comunità mondiale il potere di intervenire, se necessario con l'uso della forza, di fronte a diffuse e gravi violazioni dei diritti umani.
Naturalmente la via migliore sarebbe quella di ricorrere al corpo responsabile per il mantenimento della pace e della sicurezza: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Questo organo dovrebbe essere spinto ad essere più vigile nei confronti delle gravi violazioni dei diritti umani e ad adottare un'azione energica attraverso le forze armate degli Stati Membri o, anche meglio, dovrebbe essere organzzata e messa a disposizione del Consiglio di Sicurezza una "Forza di Intervento Rapido".
Cosa fare, tuttavia, quando il Consiglio di Sicurezza è incapace di intervenire o perchè disaccordi, o addirittura un veto, gli impediscono di prendere una decisione, o perchè manca un accordo politico sul modo di reagire alle violazioni?
In una pubblicazione del 1999 nell'European Journal of International Law ho tentato di suggerire le condizioni in presenza delle quali l'intervento energico di un gruppo di Stati per fermare atrocità potrebbe essere legittimo in caso di mancato intervento del Consiglio di Sicurezza [vedi Ex iniuria ius oritur: Are We Moving towards International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the World Community? in EJIL Vol. 10 (1999) No. 1, p.23 ff.(versione integrale in inglese)].
Il saggio è stato scritto alla luce dell'intervento della NATO in Kosovo. Quell''intervento ha rappresentato una chiara e manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite. Sfortunatamente, la condotta delle forze della NATO fu tale da non suscitare una risposta positiva della comunità mondiale [vedi il mio saggio sucessivo in A Follow-Up: Forcible Humanitarian Countermeasures and Opinio Necessitatis in 10 EJIL, 1999, 791 ff.(abstract)].
Di conseguenza, non si affermò nessuna norma consuetudinaria su questa materia che autorizzi gli Stati ad adottare un'azione energica in assenza di un'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
Resta il fatto che è tempo per la comunità internazionale di trovare i mezzi per legittimare un'azione internazionale finalizzata a fermare le atrocità. Una possibile strada potrebbe consistere nel ricorrere all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, secondo le linee della risoluzione (di dubbia legittimità) dell'Assemblea Generale "Unirsi per la Pace" (ris. 377/V, adottata il 3 Novembre 1950).
Qualunque soluzione possa essere prevista, la comunità internazionale è chiamata con urgenza a predisporre un meccanismo per reagire con forza alle gravi violazioni dei diritti umani. Naturalmente, questo meccanismo dovrebbe essere coerente con la Carta delle Nazioni Unite, il più neutrale possibile da un punto di vista politico, ed efficace.
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