Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Guerra e pace Prof. Giovanni Battaglini
Guerra ed interventi armati nella società internazionale
Conferenza

Contributo alla conferenza
Guerra ed interventi armati nella società internazionale
12 maggio 1999, Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
www.studiperlapace.it - no ©
Documento aggiornato al: 1999

 
Sommario

Quando Loro mi hanno scritto come "Gruppo Studi per la Pace" degli studenti di giurisprudenza di Ferrara ed ho pensato ad una mia piccola partecipazione a questo incontro, mi son subito detto che io vi avrei suggerito in apertura lo studio della guerra.

 
Abstract
 

Quando Loro mi hanno scritto come "Gruppo Studi per la Pace" degli studenti di giurisprudenza di Ferrara ed ho pensato ad una mia piccola partecipazione a questo incontro, mi son subito detto che io vi avrei suggerito in apertura lo studio della guerra.

Ciò anzitutto a motivo di una impressione sugli eventi generali presenti che mi insegue sin dall'aprile e perché la stessa m'è venuta ispirando qualche ipotesi di lavoro. Ho dunque l'impressione che da più parti continui il tentativo di esorcizzare la guerra togliendone il contenuto maligno - "le diable probablement" come nel titolo di un film di Bresson - e considerandola in definitiva guerra alla criminalità; o addirittura facendone sparire l'immagine:

"Guerra è un termine antiquato", ha spiegato un diplomatico olandese in missione a Bruxelles intervistato dal quotidiano americano Washington Times: "Non si parla più di guerra alla fine del ventesimo secolo. Per dir la verità, di fatto, non la chiamiamo in alcun modo. Se proprio dobbiamo, ci riferiamo alla "campagna aerea" o alla "crisi".
[ La Stampa 15 aprile 1999, p.4]

La prima posizione si rifà in modo trasparente all'idea di ordine pubblico internazionale, dove la connotazione è per l'appunto pubblicistica e la tendenza non può, pertanto, non essere quella di intravvedere, nella società internazionale, delle strutture, delle strutture quanto meno embrionali di tipo statale. Codesta posizione che oserei dire "alla moda" nell'attualità è, però, - come spesso avviene per altre collezioni di moda - una scelta di ritorno alle fantasie degli anni '46-'50, quando un internazionalista degli Stati Uniti d'America, Eagleton, intitolava "International Government" la sua rappresentazione delle Nazioni Unite come Governo Universale, con al vertice il Consiglio di Sicurezza "al di sopra della giustizia".

E nella Commissione dei giuristi occidentali alla conferenza del disarmo (a Ginevra), negli anni '60, era pervicace l'insistenza di qualche giovane elemento della delegazione degli Stati Uniti sull'idea (cui già allora nessun altro dava credito in quella commissione) - o piuttosto sull'auspicio - che la "Carta" delle N.U. fosse la costituzione di una entità statale allargata - se non addirittura mondiale - in formazione. Viceversa la realtà era, a rigore, oramai conosciuta dalla dottrina solo nel senso (leggo da Rolando Quadri il Diritto Internazionale Pubblico del 1949, alle pagine 247 e 57) che
la Carta delle nazioni Unite, pur avendo attribuito ai 5 grandi una competenza della competenza, non è in concreto riuscita a concretarsi in una Istituzione reale, in un Governo, del quale il requisito essenziale è l'effettività, per difetto del presupposto della Carta stessa: l'unione e la compenetrazione delle forze dei grandi. Se altrimenti fosse, La Carta delle Nazioni Unite, anziché punto di arrivo di una evoluzione di progresso, come da taluni si sostiene, dovrebbe riguardarsi come un pactum subiectionis di rigore mai conosciute nella Storia. (...) Non potendo cioè l'accordo dei 5 Grandi concretarsi in una Istituzione governamentale, la Comunità Internazionale nelle sue strutture tradizionali prende il sopravvento. Ed allora riemerge il carattere utopistico delle norme che a prima vista sembrerebbero davvero avere abolito e guerra e neutralità.

E se l'ottica della migliore dottrina s'è andata ultimamente spostando, è, piuttosto, per negare complessivamente sia la pretesa "analogia federale" nella Carta delle Nazioni Unite, sia le sue implicazioni. Si vedano "Le Nazioni Unite" a cura di Laura Picchio Forlati, del settembre 1998 e leggeranno, in quella postfazione di Gaeteno Arangio Ruiz alle pagine 237, 241,258, 259:

Non è azzardato ritenere che i rapporti giuridici d'ordine internazionalistico in senso proprio restino in ultima analisi sempre e soltanto quelli paritari, malgrado ogni egemonia. (...)

Non diremmo che l'instaurazione o il mantenimento dell'egemonia di uno o più Stati introduca nel diritto internazionale un elemento di gerarchia o "verticalizzazione" in senso giuridico. Le relazioni tra Stato egemone e "Stati-seguito" non assurgono a fenomeno di egemonia giuridicamente istituzionalizzata. L'egemonia opera di fatto, sul terreno politico, sfuggendo ad ogni definizione giuridica e lasciando intatta la struttura paritaria del sistema. (...)

Le cose starebbero a prima vista diversamente riguardo alle misure militari di cui all'art.42, giacché il Consiglio per la sicurezza dovrebbe poter ricorrere a tali misure direttamente, qualora le misure di cui all'art.41 risultassero inadeguate. L'art.42 dice infatti che in tal caso il Consiglio "può intraprendere, con forza aeree, navali o terrestri, ogni azione necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale". Ma questa disposizione - la più rilevante della Carta ai fini della valutazione della capacità di azione propria dell'ONU - à rimasta lettera morta e sembra destinata a restare tale, come si accennava, nonostante la fine della guerra fredda, a causa della mancata attuazione delle disposizioni dell'art.43 ss., le quali prevedono l'obbligo degli Stati membri di rimettere delle forze armate a disposizione del Consiglio, nonché il compito di un "Comitato di Stato Maggiore" di "consigliare e coadiuvare il Consiglio... in tutte le questioni" riguardanti le sue esigenze militari e l'impiego e il comando delle forze disponibili.

La mancata attuazione di tali norme non solo induce a dubitare seriamente dell'esistenza di un minimo di istituzionalizzazione della sicurezza collettiva nelle mani del Consiglio di Sicurezza ma ha già determinato situazioni che denunciano l'inesistenza di ogni parvenza di tale fenomeno.

Tutte le volte che il Consiglio ha applicato l'art.42 esso è ricorso al metodo di "autorizzare" gli Stati membri disponibili (...)

(...) benché l'ONU sia senza dubbio un'organizzazione, avente nella Carta di San Francisco il suo statuto giuridico (e in tal senso una sua costituzione), la Carta non è affatto, come tanti sembrano credere, "la costituzione" o "una costituzione", né della comunità degli Stati membri, né della comunità di tutta gli Stati esistenti e ancora meno della comunica dei popoli o del genere umano. L'ONU è essenzialmente, come si spiega più avanti, l'organizzazione di una parte delle relazioni fra Stati e della loro cooperazione. Essa non è, invece, l'organizzazione degli Stati membri, quasi che questi vi fossero ricompresi o dissolti e nemmeno - malgrado la grossa bugia con la quale si apre il testo della Carta. "We the Peoples" - l'organizzazione dei popoli degli Stati membri, quasi ce fossero un solo popolo.

Gli Stati restano pienamente sovrani rispetto alla Carta, oltre che gli uni rispetto agli altri, e sarebbero rimasti tali, dato il modo nel quale l'organizzazione è stata creata, anche se la Carta non lo dicesse (...)

Quanto alla seconda posizione (quella dell'intervista al Washington Times) l'ho qualificata in un mio breve scritto d'un umorismo sinistro; tuttavia voglio ora recuperarla come ipotesi lavoro, razionalizzandola nel senso d'un sistema rigorosamente chiuso di rapporto, quello delle Nazioni Unite in assoluto, in cui - qualunque cosa accada - non vi sarebbe più spazio per alcun fenomeno da potersi valutare secondo i concetti e principii di quella che fra gli altri, il Trattato di Mario Giuliano e dei colleghi Treves e Scovazzi, consente ancora di qualificare come la "società naturale necessaria" dei soggetti di diritto internazionale in rapporti sempre di coordinazione. In effetti, se tutto si riconduce addirittura ai presunti poteri impliciti delle N.U. in vari casi d'interventi armati, non avrebbe più spazio la violazione del divieto di uso della forza della "guerra" nel senso del diritto internazionale tradizionale contro l'art.2, IV, della "Carta" dell'ONU, né quindi più l'idea di responsabilità internazionale, e così via, in tale materia. Ma scartati i "poteri impliciti" secondo la "Carta" potrei rifarmi, semmai, alla visione di un regime realistico-ricostruttivo allargato dagli usi della forza nell'ambito delle nazioni Unite. Penso a talune affermazioni accattivanti di paolo Picone, Interventi delle nazioni Unite e Obblighi "erga omnes", in Interventi delle Nazioni Unite e Diritto Internazionale", Padova (Cedam), 1995, pagine 536, 540, 541, 556-559 (da leggere insieme a pagina 561, per il "rilievo centrale" degli "elementi di carattere formale" negli "atteggiamenti" degli Stati "rispetto all'Organizzazione" - indi per gli sviluppi le pagine 563ss.):

(...) anche per lo Statuto, l'eventuale attribuzione all'Organizzazione di poteri di gestione e di attuazione di obblighi erga omnes non può prescindere dal riconoscimento che, in caso di paralisi dell'Organizzazione, gli Stati "si riprendano" il potere di gestire uti universi le reazioni necessarie, anche attraverso l'uso della forza (se ciò è evidentemente consentito dal diritto internazionale generale): non è infatti manifestamente ammissibile che degli obblighi erga omnes siano potenzialmente inattuabili a causa della sola inattività dell'Organizzazione (...)

Una valutazione della prassi illustrata potrebbe indurre a ritenere (dato soprattutto l'elemento di possibile confusione derivante dal carattere "collettivo" delle reazioni assunte o suscettibili d'essere assunte dagli Stati, ai sensi del Capo VII, in quanto membri dell'Organizzazione) che le ipotesi in esame siano espressione del formarsi in via di fatto, in capo all'Organizzazione, già a partire dalla fase indicata, di competenze ulteriori, non previste originariamente dalla Carta, a tutela di obblighi erga omnes. Ma è chiaro che una tale conclusione sarebbe del tutto erronea. (...)

(...) non è l'Organizzazione delle Nazioni unite, in quante organizzazione, a poter assumere in prima istanza con la sua attività, come parte della dottrina erroneamente ritiene, funzioni dirette di gestione e tutela di obblighi erga omnes, non previste originariamente dallo Statuto, delegando poi eventualmente l'esercizio dei relativi poteri agli Stati in quanto Membri dell'Organizzazione stessa; ma sono gli Stati, una volta divenuti potenziali gestori uti universi ai sensi del diritto internazionale generale, degli obblighi medesimi, in un determinato settore dell'ordinamento, a poter investire l'Organizzazione delle relative funzioni sostituendo almeno "in prima battuta" l'attività della medesima ai loro comportamenti unilaterali (...)

La ricostruzione prospettata trova una conferma empirica nel fatto che la maggior parte degli interventi più recenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di cui è maggiormente contestata o contestabile la conformità alla Carta, fanno riferimento a situazioni non solo rapportabili all'esistenza di obblighi erga omnes, ma gestire nella sostanza unilateralmente, sotto la "copertura" delle Nazioni Unite, da alcuni Stati operanti uti universi. (...)

Tale situazione sembra essersi particolarmente manifestata con riguardo agli interventi più strettamente "umanitari" (soprattutto in Somalia, nella ex Jugoslavia e in Ruanda), in cui la "delega" agli Stati di esercitare la forza per conto delle Nazioni Unite, è stata generalmente funzionale al sostegno di operazioni di "peace-keeping", almeno in partenza tradizionali. (...)

Comunque, per parte mia, non sento il bisogno di richiamare, per un risultato analogo, né una concezione dell'ONU come sistema chiuso, né l'idea di poteri impliciti delle potenze che si attribuissero di esprimerli in una sorta di "azione popolare" per l'appunto nell'ambito dell'ONU. Per questa - diciamo così - "azione popolare" si ha la previsione dell'articolo 106 correttamente tradotta dal testo ufficiale della Carta (facente fede). Non "Tansitory Security Provisions" come nella traduzione italiana SIOI "Disposizioni transitorie di sicurezza", ma "Transitional Security Arrangements", intese di transizione per la sicurezza - e se ne ricavi pure, implicitamente, una disposizione più generale (sui cd. Poteri impliciti delle potenze?), ma secondo lo stesso articolo 106 nel senso che nell'inerzia degli organi competenti delle Nazioni Unite

gli Stati partecipanti alla Dichiarazione delle Quattro Potenze, firmata a Mosca il 30 ottobre 1943, e la Francia, giusta la disposizione del paragrafo 5 di quella Dichiarazione, si consulteranno fra loro e quando lo richiedano le circostanze con altri membri delle Nazioni Unite, in vista di quell'azione comune in nome dell'Organizzazione che possa essere necessaria al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionali.

Anzitutto, sul piano interpretativo, s'impone la lettura della Dichiarazione di Mosca, art.1,5,6.:

5.Che al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionali, una volta ristabiliti il diritto e l'ordine e messo in essere un sistema di sicurezza generale, essi si consulteranno fra loro e, ove ne sia il caso, con gli altri Membri delle Nazioni Unite, in vista di una azione comune per conto della comunità delle Nazioni.
6. Che dopo la fine delle ostilità essi non impiegheranno le loro forze militari nei territori di altri Stati eccetto che per gli scopi previsti in questa Dichiarazione e dopo consultazione collettiva.
V. Molotov, Anthony Eden, Cordell Hull, Foo Ping-Sheung

Inoltre si tratta di una "azione" che "possa essere" necessaria, ecc. , ma necessariamente come azione comune in nome della Organizzazione delle Nazioni Unite. Ora, su questo non può non avere influenza il quadro generale dei rapporti, stando, ad es., a quanto mette in luce in sintesi, correttamente, nella edizione del 1981, la Encyclopaedia Britannica Micropaedia, IV, p.469, con la neutralità che la distingue:

Perpetrators may be punished wether they are constitutionally responsible rulers, public officials or private individuals. They may be tried by a competent tribunal of the state in which the act was committed or by an international penal tribunal whose jurisdiction has been accepted by the contracting parties. Ma soprattutto one results of the convention has been the establishment of the principle that genocide, even if perpetrate by a government in its own territory, is not an internal matter ("a matter essentially within the domestic jurisdiction") but a matter of international concern. Any contracting state can call upon the United Nations to intervent and to take such action under its it considers appriopriate for the prevention and suppression of acts of genocide.

Dunque: niente dominio riservato e sempre "international concern" secondo la Convenzione sul genocidio anche riguardo a Stati non contraenti, e all'impiego di forze militari nei loro territori - per il fine, sia pure ultimo ed estremamente mediato, della pace e della sicurezza internazionale - ma con l'effettivo coinvolgimeto degli organi competenti (al plurale) delle N.U. sempre e necessariamente - lo ripeto - sulla base della stessa Convenzione. Ed eccone, infatti, l'articolo VIII:

Ogni Parte Contraente può invitare gli organi competenti delle Nazioni Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite ogni misura che essi giudichino appriopriata ai fini della prevenzione e della repressione degli atti di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti elencati dall'articolo III. D'altra parte, si badi che il precedente articolo II definiva il genocidio nei termini della massima, estrema crudeltà:

Nella presente Convenzione per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale:

a. uccisione di membri di gruppo;
b. lesione gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c. il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d. misure miranti ad impedire nascite all'interno del gruppo;
e. trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

E se si rompe, ex art.106 della Carta, il fragile filo, e si dica pure la sola formale connessione con l'ONU e con una azione fondatamente in suo nome? In tal caso non ho dubbio che si sia slittati dall'art.106 della Carta all'uso della forza come "guerra" nel senso del diritto internazionale tradizionale, che, del resto, anch'essa più di una volta s'apparentava con un buon fine detto universale. Basti pensare a quel ventennio di guerre contro i Sassoni condotte da Carlomagno nell'alto Medioevo con rovine innumerevoli ed eccidi di massa in nome della cristianità e umanità, esaltata da Eginardo

Quia Saxones, sicut omnes fere Germaniam incolentes nationes et natura feroces et cultui daemonum dediti nostraque religioni contrarii, neque divina neque humana jura vel polluere vel transgredi inhonestum arbitrantur.

Quindi leggano non solo il diritto ma, per fare l'esempio che a questo punto m'interessa, opere come "La domenica di Bouvines 27 luglio 1214" di Georges Duby, in trad. Einaudi, a pagine 85-86:

All'inizio del XII secolo Luigi VI. Il re di Francia è il re del Giudizio Universale, di tutto il genere umano insieme riunito. In comunicazione diretta con il cielo, non soltanto può combattere durante la tregua perché è il braccio di Dio, ma gli è pure permesso di reclutare per la sua guerra, che è quella del bene, uomini che non hanno la vocazione combattere, e di schierarli sotto il sacro stendardo da lui innalzato.

Ma è nel contempo interessante verificare come la "guerra" (werra) in tutti i casi libera per il diritto internazionale tradizionale fin dalle sue origini, "mera autotutela" ovvero protezione di fatto non importa se dei propri diritti o dei propri semplici interessi, desse allora luogo a una "battaglia" come "procedura di pace" (leggo ancora Duby a pagina 136) solo quando si trovasse rimedio al suo inasprirsi con il grande scontro armato delle sole forze militari, come un "duello" in condizioni di parità, e rigorosamente senza coinvolgimenti delle persone inermi. Questa sola è la battaglia (op.cit, 143ss.)

La battaglia non è la guerra. Oserei dire perfino che è il suo contrario: la battaglia è una procedura di pace, è operazione di giustizia. Tra cristiani non prende mai la forma di una lotta di sterminio. Come in un processo, non cerca di distruggersi: è un dibattito che una sentenza conclude. Occorre inoltre che, come nel processo, la sentenza sia accettata dal contendente condannato.

Nel suo campo c'è stupore, delusione, perché anche lui è venuto, con tutti i suoi, sicuro del suo diritto. Precisamente per questo motivo è stata ingaggiata la battaglia, perché nessuna convinzione riusciva a dominare. Iniziata nella sacralità, la battaglia si svolge come una liturgia. Come l'ordalia, il duello giudiziario, essa richiede il proprio "campo".

Donde la specifica espressione con cui la si designa: proelium campestre, "battaglia campale", nelle traduzioni delle canzoni di gesta. Su di un campus si affrontano dei "campioni". Ogni battaglia è decisiva. E' uno sprazzo di luce che disperde le tenebre, apre gli occhi, pone termine a qualsiasi esitazione: è una sentenza che cade dall'alto senza appello, che fa penetrare in un'altra sfera: quella della gravità e di una sacra funzione del destino: campo in cui nessuno si avventura senza fremere.

(Lasciatemi pensare, in questo contesto ma nell'oggi, alla battaglia navale fra Regno Unito ed Argentina per le Falklands/Malvinas.)
E fuori da codesta prova quasi sacrale non v'è che la werra, non altro che la guerra animata dall'"odio" (Duby, 129):

La guerra è animata dall'"odio", dalla brama della tuitio e dell'ultio, di difendersi e vendicarsi. Per un momenti infrange l'ordine, ma soltanto per ripristinarlo meglio, rintuzzando l'ingiuria, rendendo a ciascuno il proprio diritto. O perché non è presente un'autorità giuridica costrittiva per colui dal quale ci si deve proteggere o del quale ci si deve vendicare, oppure perché la vittima sceglie di non farne denuncia, o perché infine il colpevole rifiuta di inchinarsi alle decisioni di un'assemblea di arbitri. Qui è di rigore l'offensiva che obbliga l'avversario a cedere, ad abbandonare la presa, ad arrendersi alle parole di pace, a riparare ai torti commessi. Per intimidirlo, sottometterlo, per fargli intendere ragione, che cosa di meglio si potrebbe fare che devastargli le terre? (...) nessun miglior combattente di quello "che ha talento per gran mal fare".

"Guerra" oggi come ieri con un "regresso" - e vorrei dire un preordinato regresso - dal divieto dell'uso della forza secondo la Carta delle Nazioni Unite alla guerra né giusta né ingiusta del diritto internazionale tradizionale: la sua mera autotutela ma quanto meno disumana di oggi.