Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Compromesso necessario? Angelo Panebianco - Franco Cordero
Legalitą e sicurezza: riflessioni su terrorismo e diritto
Paper

Sicurezza e fondamentalisti della legalitą. Il compromesso necessario di Angelo Panebianco, (c) Corriere della Sera, 13 agosto 2006

Il diritto nell?era del terrorismo di Franco Cordero,
(c) La Repubblica, 28 agosto 2006
Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
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Documento aggiornato al: 2006

 
Sommario

Le esigenze della sicurezza nazionale devono necessariamente far accettare il compromesso per il quale quando è in gioco la sopravvivenza della comunità (a cominciare dalla vita dei suoi membri), deve essere ammessa l'esistenza di una «zona grigia», a cavallo tra legalità e illegalità?

 
Indice dei contenuti
 
1. Sicurezza e fondamentalisti della legalità. Il compromesso necessario

Angelo Panebianco

(c) Corriere della Sera, 13 agosto 2006

2. Il diritto nell´era del terrorismo

Franco Cordero

(c) La Repubblica, 28 agosto 2006
 
Abstract
 

1. Sicurezza e fondamentalisti della legalità
Il compromesso necessario


Angelo Panebianco

(c) Corriere della Sera, 13 agosto 2006


Facciamo un'ipotesi, di fantasia ma non proprio del tutto implausibile.

Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l'Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell'undici settembre, con migliaia e migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani tramite tortura, di un jahadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente.

Chi se la sentirebbe in Occidente di condannare quei torturatori?

La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.

La cosa interessante è che a emettere sentenze di condanna senza nemmeno riconoscere l'esistenza di un «dilemma etico» nella vicenda in questione non ci sarebbero solo quelli che Giuliano Ferrara sul Foglio ha definito gli appartenenti al «nemico interno» (il quale esiste, eccome), alleato di fatto del terrorismo jahadista. No, fra coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi né tentennamenti ci sarebbero anche tante brave persone in buona fede che hanno orrore del terrorismo ma che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che chiamano (in genere, senza sapere bene cosa sia) lo «stato di diritto» debbano sempre avere la precedenza su tutto: anche sulla salvezza di migliaia di vite umane.

Come si spiega che in Italia più che altrove sia venuta totalmente meno l'idea (che però resiste in altri Paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla Francia) che la convivenza democratica possa poggiare solo su un compromesso, precario quanto si vuole, ma pur sempre un compromesso, fra stato di diritto e sicurezza nazionale? La spiegazione deve mettere in gioco vari elementi. C'è in primo luogo il lunghissimo periodo di pace che abbiamo alle spalle. Quella fortunata età dell'oro che è stata la lunga pace post '45 ha reso un gran numero di persone, soprattutto quelle nate dopo la Seconda guerra mondiale, incapace persino di mettere a fuoco l'idea di «nemico», il nemico vero, assoluto, quello che ti ucciderà se non riuscirai a neutralizzarlo. Per queste persone, la guerra è un fenomeno letteralmente incomprensibile. Ciò le rende disponibili a credere che la guerra dichiarata all'Occidente dal terrorismo jahadista possa essere affrontata con gli stessi strumenti con cui ci si difende dai ladri di polli o dai rapinatori di banche.

La seconda ragione ha a che fare con la vicenda italiana recente. La caduta dell'Urss e la successiva vicenda di Mani pulite determinarono in molte persone, all'inizio degli anni 90, una singolare metamorfosi: esse passarono, senza soluzione di continuità, dagli ammiccamenti per la Rivoluzione (fra tutti gli eventi, il più «illegale» che si possa immaginare) alla apologia della «legalità». Da bravi neofiti costoro hanno trasformato lo «stato di diritto» in una specie di feticcio davanti a cui ci si dovrebbe solo inchinare acriticamente.

Nessuno ha spiegato loro che lo stato di diritto è solo uno strumento, altamente imperfetto, che serve a regolare i rapporti entro la comunità democratica in condizioni di normalità. Uno strumento che fallisce quando scatta l'emergenza, quando qualcuno ti dichiara guerra. Sono questi neofiti che, se uno osa dire che dalla guerra, anche quella asimmetrica, non ci si può difendere con mezzi legali ordinari, gli spiegano subito con sussiego che se la democrazia non rispetta rigorosamente la «legalità» diventa come i terroristi la vogliono. Dimenticando che i principi vanno sempre adattati alle situazioni e che servono solo se si resta vivi.

A differenza dei neofiti della legalità, i liberali di antica data hanno sempre saputo che lo stato di diritto deve convivere, se si vuole sopravvivere, con le esigenze della sicurezza nazionale. Il che significa che si deve accettare per forza un compromesso, riconoscere che, quando è in gioco la sopravvivenza della comunità (a cominciare dalla vita dei suoi membri), deve essere ammessa l'esistenza di una «zona grigia», a cavallo tra legalità e illegalità, dove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi.

I neofiti della legalità non lo capiranno mai ma questo compromesso è anche l'unica cosa che, in condizioni di emergenza, possa salvare lo stato di diritto e la stessa democrazia.

Perché quando arrivano le bombe, quando le strade si tingono di sangue, o ci affida a quel tacito compromesso oppure si deve scontare l'inevitabile reazione che porterà, prima o poi, dritto filato verso soluzioni autoritarie.

Le democrazie più salde e consolidate ne sono consapevoli e per questo difendono quel compromesso.

Il rischio è che una malintesa, fondamentalista, visione della legalità ci porti ad abbassare drammaticamente le difese, per esempio a isolare i nostri addetti alla sicurezza dal resto dei servizi segreti occidentali, perdendo così l'input più prezioso nella guerra simmetrica contro il terrorismo: le informazioni.

Una classe dirigente degna di questo nome non può fare finta di nulla.

È assolutamente necessario, come dimostrano anche i contraccolpi dell'inchiesta giudiziaria sul sequestro di Abu Omar, che un confronto tra politica, operatori del diritto (magistrati, avvocati) e operatori della sicurezza abbia luogo. Per ricostituire quel compromesso tra stato di diritto e sicurezza nazionale che in Italia, proprio in uno dei momenti più cupi e pericolosi della storia recente dell'Occidente, è venuto meno. È un'esigenza vitale. Letteralmente.

***

2. Il diritto nell´era del terrorismo

Franco Cordero

(c) La Repubblica, 28 agosto 2006

I quaresimalisti lavoravano sulle midolla, vedi Paolo Segneri a proposito d´inferno, morte improvvisa, sorti dell´anima.

La forma moderna del sermone è l´editoriale.

Ad esempio: viviamo nel rischio d´attentati; in ogni istante può scatenarsi il diavolo; esplosioni, gas tossico, peste manufatta; e quando la posta sia enorme, avrebbe senso rifiutare espedienti forse utili, quali la tortura, in ossequio all´etica inerme?
Shock nel pubblico.

L´autore se ne compiace: voleva scuoterlo; il problema, capitale nel pensiero politico, è se la tutela assoluta delle libertà sia compatibile con una guerra endemica, fuori d´ogni regola. No, l´apparato pacifico non ferma i kamikaze.

Fortunatamente esiste la via d´uscita: un «compromesso tacito» dove lo Stato conservi l´aspetto virtuoso, mantenendo acque grigie tra legalità e delitto, dove nuotino tranquilli i pesci dell´agenzia che combatte l´alieno; lì non vigono norme; lo Stato in maschera virtuosa s´arresta sulla soglia; vi mette piede solo nei casi straordinari, «con la massima cautela», senza disturbare gli addetti al lavoro talvolta sporco.

E i possibili effetti degenerativi?

Vigilerà il governo ma sia chiaro: l´affare nasce e muore nella sfera politica; il diritto non c´entra.

Spira aria burlesca (vengono in mente Voltaire, Candide ou l´optimisme, e sul versante fosco, Molière, Tartuffe), ma vuol essere un sermone serio, terribilmente serio.

Vediamo dove porta.

Se ho capito bene, l´oratore non invoca arnesi legali d´eccezione quali gli stati d´assedio, martial law, i pieni poteri d´Hitler votati dal Reichstag a salvaguardia «del popolo e dello Stato», 23 marzo 1933, o il «Patriot Act» Usa 26 ottobre 2001 (misure interinali a carico dello straniero sospetto) o gli assai più incisivi «Military Commission Orders» del Presidente, 21 marzo e 21 giugno 2003, nonché le otto «Military Instructions» che li attuano: niente d´analogo; e finché esista l´attuale Carta, nascerebbe invalida ogni previsione d´impunità.

Né versiamo nel contesto del romano iustitium, dal verbo «sistere», fermare corpi o fluidi in moto: tale è metaforicamente lo ius, macchina del diritto (succede anche al sole, «sol-stitium»); un senatoconsulto l´arresta perché incombono pericoli letali (Annibale alle porte, Catilina complotta, tumulti); fuori delle solite competenze, qualcuno salva la res publica; talvolta germinano poteri spontanei; capita che il privato agisca quasi fosse console.

Stasi breve.

L´atto cade in spazi legalmente vuoti: è valutabile poi, appena l´astro riprenda il corso interrotto; mettere a morte i catilinari era decisione dubbia, infatti Cicerone subisce un breve esilio.

Tutto chiaro invece nell´affare Roehm. Questo turbolento capo delle SA, guardia armata nazista, guasta l´armonia con le gerarchie militari ed economiche: Hitler è solo cancelliere, in attesa che il decrepito Hindenburg passi a miglior vita cedendogli la presidenza, acquisita la quale, diventerà Führer, e non ci pensa due volte; sabato 30 giugno 1934 matta i dissidenti, inclusi vari estranei. Due settimane dopo, racconta al Reichstag d´avere operato da supremo giustiziere. Gli canta un inno Carl Schmitt, politologo troppo intellettuale, quindi senza fortuna nella birreria nazista (le sue piccole e vaghe idee in brodo ornato riscuotono ancora un culto trasversale): Adolf Hitler è Führer; ordinata da lui, la carneficina diventa pura giurisdizione. Su scala minore era avvenuto in casa nostra. Bologna, domenica 31 ottobre 1926: qualcuno spara a Mussolini; gli squadristi linciano Anteo Zamboni, 15 anni; l´indomani il «Popolo d´Italia» chiama fulmini sui mandanti; sarebbe «un´onta» seguire le «procedure ordinarie».

L´oratore, dunque, non chiede leggi speciali né contempla stasi del diritto quali sopravvenivano nello iustitium: liquidare i catilinari o le SA era affare d´uno o due giorni, mentre il pericolo d´attentati permane; tra qualche anno forse sarà peggio, Iddio non voglia.

E allora?

L´ha detto, ci vuole uno stato equivoco in cui vigano le norme consuete, purché gli angeli abbiano mano libera, sotto un misterioso controllo politico: e calca l´accento sul qualificativo; è roba segreta; i giusdicenti non vi mettano becco.

Come dire «piove ma non piove». Diritto e logica esauriscono l´universo: nei sistemi a due qualificatori, l´atto è x o non-x; ha mai letto Wittgenstein? Supponiamo che gli operatori della cosiddetta sicurezza sequestrino dei sospetti, li tengano in prigioni occulte, li torchino ad eruendam veritatem, e la cosa trapeli. Il pubblico ministero indaga, indi agisce: tribunali o corti competenti accertano l´accaduto; risultando vera l´accusa, possono solo condannare.

L´unica alternativa è un illegalismo delittuoso: che il magistrato requirente chiuda gli occhi, complice del potere esecutivo la cui sfera non tollera sguardi profani (obbligo d´agire e pubblico ministero indipendente stanno sullo stomaco ai quaresimalisti): o se una testa storta lo instaura, il processo finisca in mano a giudici duttili, dallo stomaco forte, sicché i serventi segreti escano indenni; bella prospettiva, inquinare organicamente la giustizia.

Nelle monarchie assolute circolavano lettere col sigillo reale.

Qui avverrebbe tutto nelle anticamere, a bisbigli.

Poteri occulti sicuri dell´impunità sviluppano una versatile delinquenza, dai traffici lucrosi al colpo di Stato.

Così vuol difendere un paese moralmente debole, nella cui storia le collusioni politico-militari mischiano inettitudine, avventurismo, fantasia negromantica, sciagure?

Vedi Luigi Cadorna, comandante supremo 1915-17: dissangua l´esercito in undici stupide offensive, finché poche divisioni prestate dai tedeschi rompono l´assurdo schieramento italiano, allora diventa falsario; incolpa i soldati e la mano molle governativa, rammollita dall´ideologia democratica, quindi tollerante del «nemico interno»; opportunisticamente riabilitato, proclama che mai vi sarebbe stata Caporetto sotto il timone mussoliniano. Ancora più nefasti i successori nella seconda guerra mondiale. Giolitti memorialista, abitualmente cauto, usa parole dure sulla clique militare politicante.