I Caschi blu sono l'esempio emblematico della scarsa efficacia dell'Onu e la cartina di tornasole per cogliere la causa di quell'inefficacia: l'anarchia della comunità internazionale attuale, composta di Stati incapaci di mettersi d'accordo per mantenere l'ordine internazionale.
Al contempo, nel "disordine multipolare" attuale, i Caschi blu costituiscono il tentativo generoso di salvare il salvabile, con mezzi modesti e quasi a mani nude. I Caschi blu non erano stati previsti dai "padri fondatori", quando si riunirono a San Francisco, nel 1945, per creare l'Onu. Allora si pensava di poter dotare l'Onu di un vero e proprio esercito internazionale, capace di usare la forza armata per imporre il rispetto del diritto e della giustizia.
Questo esercito sarebbe stato costituito da contingenti messi stabilmente a disposizione da membri dell'Onu, e sarebbe stato agli ordini del Consiglio di sicurezza, assistito dal "Comitato di Stato maggiore" composto dai capi di stato maggiore dei cinque Membri permanenti del Consiglio.
I Cinque Grandi avrebbero così gestito a loro discrezione le crisi internazionali. Disegno utopistico, perché presupponeva un accordo costante tra i Cinque.
Già nel 1946, quando si cominciava ad avvertire i primi geli della Guerra Fredda, i dissensi tra Usa e Urss uccisero sul nascere l'esercito mondiale, che dunque non venne mai creato. Poiché però i conflitti internazionali si moltiplicarono ed occorreva fare qualcosa, nel 1956, in occasione della crisi di Suez (dopo che Nasser aveva nazionalizzato il canale di Suez l'Egitto fu attaccato da truppe israeliane e successivamente dall'Inghilterra e dalla Francia) il ministro degli Esteri canadese Lester Pearson suggerì la creazione di una forza di interposizione che assicurasse e controllasse la cessazione delle ostilità. Furono così create le operazioni di peacekeeping, condotte dai Caschi blu. Da allora quelle operazioni si sono moltiplicate: 60 fino ad oggi (di cui 18 in corso).
Cosa fanno i Caschi blu?
Sono come i poliziotti inglesi di una volta, che erano armati solo di un manganello e di un fischietto. I Caschi blu, che agiscono nel quadro di operazioni di peacekeeping, hanno un ruolo radicalmente diverso da quello di un esercito vero e proprio. Operano solo con il consenso dello Stato sul cui territorio sono dislocate (è come se un carabiniere, pur se fornito di mandato di perquisizione, dovesse chiedermi il permesso di entrare in casa per accertare se tengo esplosivi pericolosi). Sono armati solo di armi leggere e possono usare la forza non per imporre coercitivamente la volontà dell'Onu ad un governo recalcitrante, ma solo in legittima difesa: se attaccati possono rispondere al fuoco, sia pure in modo circoscritto.
È evidente che se non si limitassero all'autodifesa, il Governo che li ospita potrebbe ritirare il consenso e segnare la fine della missione. Hanno essenzialmente il compito di separare i contendenti, mantenere l'ordine, sorvegliare l'osservanza di tregue o la cessazione delle ostilità; non possono dunque assumere un ruolo attivo e propulsivo, non possono minacciare ed usare la forza militare per imporre ad uno Stato di disarmare o di ritirarsi da una certa zona, o ai ribelli di consegnare le armi.
Come scrisse nel 1957 l'allora Segretario-Generale Dag Hammarskjöld, i caschi blu non devono imporre soluzioni politiche né influenzare l'equilibrio politico esistente, non devono interferire in conflitti interni.
In una parola, devono essere neutrali ed imparziali.
Inoltre, i Caschi blu dipendono dal Segretario Generale dell'Onu (che però a sua volta risponde, di regola, al Consiglio di sicurezza) con la conseguenza che i vari contingenti militari nazionali messi a disposizione dell'Onu devono passare attraverso una trafila burocratico- militare complessa, una catena di comando che arriva fino a New York e che si è dimostrata troppo farraginosa per rispondere rapidamente alle esigenze sul campo. Un'altra caratteristica distingue i Caschi blu dall'illusorio esercito mondiale previsto dalla Carta dell'Onu: mentre quell'esercito doveva costituire il braccio armato dei Cinque Grandi, i Caschi blu, in principio, sono composti solo da contingenti di medie e piccole potenze, a significare che la funzione di peacekeepingnon deve essere manipolata dalle Grandi Potenze.
In breve, i Caschi blu non sono militari che combattono per imporre la pace, ma strumenti di "diplomazia preventiva", come li definì Hammarskjöld nel 1960, che agiscono per stabilizzare le relazioni internazionali, preservare lo status quo e impedire che conflitti locali o regionali degenerino in guerre mondiali.
Naturalmente, dal 1956 a oggi varie cose sono cambiate.
Ad esempio, dal caso del Congo (1961) in poi i Caschi blu sono stati autorizzati in alcune situazioni (Somalia, ex Jugoslavia) ad usare la forza anche per imporre certe linee di condotta. Recentemente, poi, si è ritenuto sempre più utile far partecipare al peacekeeping contingenti militari di una delle Grandi Potenze.
Le linee essenziali dei poteri dei Caschi blu sono però rimaste immutate. Malgrado i loro limiti, dalla loro creazione ad oggi i Caschi blu hanno assolto un ruolo costruttivo di prevenzione o controllo di conflitti locali.
Ma si sono anche esposti a critiche.
Invece di risolvere la crisi a Cipro, l'hanno incancrenita dal 1974.
In Somalia hanno ucciso vittime innocenti nel 1993.
Hanno assistito impotenti al genocidio ruandese nel 1994 e al massacro di Srebrenica nel 1995.
Alcuni militari che fanno parte dei contingenti Onu hanno talvolta commesso crimini contro civili (in particolare, stupri e violenze).
Costano moltissimo: finora 41 miliardi di dollari, pagati proporzionalmente da tutti i membri dell'Onu (il bilancio del 2006-7 è di circa 5 miliardi di dollari).
Un problema che si discute in questi giorni per il Libano è perché le forze Onu non siano state dotate, almeno finora, del diritto di usare la forza non solo per autodifesa, ma anche per imporre coercitivamente l'attuazione delle decisioni del Consiglio di sicurezza. In realtà gli estensori della risoluzione 1701, nel definire la situazione in Libano "una minaccia alla pace", hanno usato il linguaggio del Capitolo VII della Carta dell'Onu (che contempla l'uso della forza), senza però voler richiamare esplicitamente quel Capitolo.
In ogni caso, per autorizzare il ricorso alla forza al di là della legittima difesa, sarebbe occorsa, ed occorre in ogni caso, un'autorizzazione esplicita del Consiglio. Non si dimentichi però che la trasformazione del peacekeeping in <peaceenforcement, fallita in Somalia, dalla metà degli anni '90 è stata sempre evitata: quella trasformazione ha senso solo se, tra l'altro, il comando militare viene sottratto all'Onu (cui resterebbe il controllo politico) ed affidato al comandante delle forze sul campo.
Torniamo ai Caschi blu.
Il loro ruolo va visto nella più ampia ottica del mantenimento della pace. Attualmente un esercito mondiale operante nella comunità cosmopolitica sognata da Kant, è lontanissimo, e non si vede spiraglio di luce.
Stando così le cose, si tende a ricorrere a tre surrogati, per reagire a conflitti sempre più numerosi e violenti. Il più frequente è il peacekeeping. Quando poi sono in gioco il petrolio o altri interessi geopolitici di importanza planetaria, il Consiglio di sicurezza autorizza alcune Grandi Potenze ad inviare robuste forze armate (come in Iraq nel 1991). Il terzo surrogato è l'intervento armato unilaterale in violazione della Carta dell'Onu (come nel Kosovo nel 1999 e in Iraq nel 2003). Con tutti i loro difetti, in più casi le operazioni di peacekeeping rimangono, per le popolazioni civili, l'unica speranza di un po' di ordine e stabilità, come ad esempio si è visto di recente a Timor orientale e nel Kosovo.
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