Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
Profili del diritto penale di guerra statunitense contro il terrorismo (dopo il Nine-Eleven) :: Studi per la pace  
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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War on terrorism Prof. Silvio Riondato
 
Versione integrale
Profili del diritto penale di guerra statunitense contro il terrorismo (dopo il Nine-Eleven)
Paper

Silvio Riondato
Padova, 9 febbraio 2003
tratto da (c) www.riondato.com
Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
www.studiperlapace.it - no ©
Documento aggiornato al: 2003

 
Sommario

Incerte appaiono le vie future della lotta statunitense al terrorismo. Una sicura vittima dell'esercizio dei pieni poteri reclamati dall'Esecutivo è stata la certezza del diritto, sì che, ad oggi, non è dato sapere chi cadrà sotto i rigori della disciplina emergenziale.

 
Indice dei contenuti
 
1. Terrorismo tra giurisdizione ordinaria e commissioni militari.
2. Terrorismo nelle fattispecie di diritto penale sostanziale
3. Terrorismo nel regime della giurisdizione e del processo. Aspetti notevoli.
4. Applicazioni giurisprudenziali e sorte dei detenuti
5. I sospetti terroristi detenuti, tra diritto statunitense e diritto internazionale.
6. Evoluzione della "war on terrorism". Prospettive future
7. Conclusioni ("europee")
Note
 
Abstract
 

Gli Stati Uniti si misurano ormai da molto tempo con una continua, grave emergenza-terrorismo che nella rappresentazione collettiva è un drammatico fattore lacerante.

Si pensi - solo per citarne alcuni - agli atti terroristici contro il World Trade Center del 26 febbraio 1993 e agli ordigni fatti esplodere presso le ambasciate statunitensi di Nairobi, in Kenia e di Dar Es Salaam, in Tanzania, il 7 agosto 1998. Ma sono i fatti dell'11 settembre 2001 (c.d. Nine-Eleven) che hanno prepotentemente suscitato riflessioni nel senso dell'urgenza di apprestare strumenti legislativi più adeguati, calibrati ad hoc (anche) sul fronte della tutela penale - mentre i processi per i fatti sopra accennati sono stati celebrati secondo le norme penali ordinarie e davanti ai giudici esercenti l'ordinaria giurisdizione (district courts, giudici distrettuali federali).

In effetti, l'attacco alle torri e la loro sanguinosa distruzione ha costituito per la prima volta una inequivoca, devastante, tragicissima aggressione dall'esterno di enorme ampiezza, aggressione realizzata nel cuore del territorio statunitense, per ragioni politiche, da una forza armata organizzata. Insomma, un atto di vera guerra, sia pur, volendo, la post-post-moderna guerra terroristica, senza quartiere1.

Ne è sortita, nella rappresentazione statunitense, un'impellente necessità di fondere il tradizionale rigore delle sanzioni penali conseguenti alla commissione di reati di terrorismo con l'esigenza di un accertamento giudiziario celere e lineare, collegato ad un'attività di "polizia", rivolta all'apprensione dei colpevoli, che ha integrato una limpida risposta bellica statunitense all'atto scatenante. Si sono quindi determinate profonde riforme del diritto penale statunitense in materia di terrorismo, che hanno dato vita ad un inedito diritto penale di guerra al terrorismo, tramite vari provvedimenti legislativi innovativi. Nel presente lavoro sono presentati soltanto alcuni dei principali profili di novità introdotti dalle Novelle statunitensi, una più ampia disamina dovendo essere rinviata in ragione di economie espositive2.


1. Terrorismo tra giurisdizione ordinaria e commissioni militari.

Gli Stati Uniti sono (anche) giuridicamente in stato di guerra, almeno dal loro punto di vista. Il 18 settembre 2001 al Presidente sono stati conferiti i poteri di guerra contro chiunque fosse implicato nell'attacco alle torri3. Il 13 novembre il Presidente ha firmato l'ordinanza militare che ha introdotto la parte più aspra del menzionato nuovo diritto penale di guerra al terrorismo, l' executive order on the "Detention, Treatment, and Trial of Certain Non-Citizens in the War Against Terrorism"4. Lo spirito dell'ordinanza militare penale presidenziale si coglie bene laddove afferma a chiare lettere che non saranno validi "the principles of law and the rules of evidence generally recognized in the trial of criminal cases in the United States district courts". Insomma, sono revocati i principi dello Stato di diritto5.

L'Amministrazione si è trovata di fronte ad una scelta: affidare, come in passato, la repressione giudiziaria del terrorismo internazionale alle ordinarie corti distrettuali, ovvero battere una strada nuova, optando per una giurisdizione di diversa natura. Occorre però notare che, nel sistema complessivo, la determinazione della giurisdizione ridonda in determinazione del diritto penale sostanziale applicabile.

Orbene, si è preferito cumulare i vantaggi offerti, di volta in volta, dall'esercizio di una giurisdizione di nuovo conio ovvero di quella ordinaria. Infatti, da un lato, il 13 novembre 2001 il Presidente degli Stati Uniti, in qualità di comandante in capo delle FF.AA., ha emesso il menzionato order che istituisce una nuova specie di giudice militare - le military commissions -commissioni che applicano un nuovo diritto penale sostanziale ad hoc. Dall'altro lato, il Congresso, con lo USA Patriot Act del 26 ottobre 2001, ha riformato la previgente disciplina di diritto comune applicata dalle ordinarie corti distrettuali, lasciando intatta la possibilità del processo davanti all'ordinario giudice federale.

Il problema di regolare il concorso delle corti distrettuali e delle commissioni militari nella repressione giudiziaria del terrorismo internazionale è stato risolto secondo criteri molto "politici". Il provvedimento governativo del 13 novembre affida al Presidente il potere di scegliere, caso per caso, se il sospetto terrorista debba essere processato dall'autorità giudiziaria civile ovvero da quella militare di nuova introduzione.

La discrezionalità del Presidente incontra un solo limite: i cittadini americani, infatti, sono a priori esclusi dalla giurisdizione delle commissioni militari. Il discrimine permea buona parte dell'intera reazione normativa al Nine-Eleven, che si è ancorata ad una sorta di (dissennata) lotta a tutto campo contro lo straniero, una lotta di stampo maccartiano6.

Per quanti non sono american citizens, si è dunque condizionato l'esercizio della giurisdizione da parte delle commissioni militari all'adozione di un atto che, peraltro, non necessita di alcuna motivazione che ne manifesti la razionalità e che, di conseguenza, va francamente ritenuto arbitrario, o, volendo, "politico"7. In seguito si dirà come pure il limite della cittadinanza americana sia stato di recente travalicato da parte dell'Amministrazione (par. 6).

Più in generale si impone di rilevare almeno che l'ordine del 13 novembre contrasta apertamente con la lettera dell'art. 1 della Costituzione federale, laddove è stabilito che il potere di costituire tribunali inferiori alla Corte Suprema spetta (non al Presidente) ma al Congresso, cioè all'organo legislativo federale. Tuttavia, una parte della dottrina8 e la giurisprudenza9 opinano che il potere di istituire commissioni militari rientri nei c.d. "poteri di guerra" (war powers) di cui il Presidente è titolare in qualità di comandante in capo delle FF.AA.

Al nuovo processo militare speciale non si applica il diritto penale militare ordinario - contenuto nell'Uniform Code of Military Justice - che regola la cognizione giudiziaria delle courts-martial. La disciplina che interessa le commissioni militari, infatti, trova fonte, quanto ai principi, nell'ordine esecutivo del Presidente e, quanto alla disciplina di dettaglio, in un military order del Segretario alla Difesa (Rumsfeld) del 21 marzo 200210. Le military commissions presentano scarse e secondarie somiglianze con le corti marziali che ordinariamente esercitano la giurisdizione militare, come si dirà in seguito (par. 3) .


2. Terrorismo nelle fattispecie di diritto penale sostanziale

La formulazione normativa del reato di terrorismo internazionale disegnato dall'ordine esecutivo presidenziale è quanto meno singolare. La nuova disciplina punisce, oltre che il mero collegamento ad organizzazioni terroristiche, qualunque fatto che, secondo l'insindacabile apprezzamento del Presidente, sia da ritenersi - anche indirettamente - lesivo degli interessi degli Stati Uniti11. Questa inedita definizione contraddice apertamente la nozione tradizionale di terrorismo e la svuota di ogni finalità di eversione o comunque di ogni finalità politica in senso ampio. La formulazione di questa norma incriminatrice è così generica da consentire il processo davanti alle commissioni militari, per terrorismo internazionale, perfino nei confronti di un (preteso) autore di fatti bagatellari.

Insomma, in base all'ordine esecutivo emesso dal Presidente degli Stati Uniti il 13 novembre 2001, colui che (sprovvisto di cittadinanza americana) sia sospettato di aver commesso un qualsiasi fatto lesivo degli interessi statunitensi può essere accusato di terrorismo internazionale, davanti a una commissione militare, qualora ciò derivi dalla scelta "politica" del Presidente che così lo sottragga, in uno, alla giustizia ordinaria e alle ordinarie norme incriminatrici. Inoltre, la disciplina speciale rimette la determinazione delle sanzioni irrogabili (ivi compresa la pena capitale) alla mera discrezionalità dell'autorità giudiziaria, senza alcun criterio prefissato di valutazione.

E' peraltro da credere che si attiveranno meccanismi di integrazione, i quali dovrebbero essere favoriti dalla common law che ancora in parte ispira il sistema penale statunitense - non è però detto che integrazioni del genere risulteranno favorevoli al colpevole. I sospetti terroristi ai quali non si applichi la disciplina speciale, per esserne stati esclusi dal Presidente o perché muniti di cittadinanza americana, sono giudicati dalle ordinarie district courts. Nelle corti distrettuali federali si applica il diritto penale comune e, nel caso, la più dettagliata disciplina del terrorismo contenuta nelle sezioni 2331 e ss. del titolo 18 US Code, recentemente riformata dal menzionato Patriot Act del 26 ottobre 2001, Novella che peraltro a sua volta costituisce un giro di vite12, soprattutto a carico degli stranieri, reintroducendo il guilty by association, la punibilità, cioè, in base alla semplice associazione a organizzazioni terroriste, mentre è vaga nella definizione delle organizzazioni "terroriste", che finisce per riguardare qualsiasi gruppo che faccia, abbia fatto, o soltanto propagandato l'uso di pratiche violente che portino o possano portare a danneggiamento di beni materiali13.


3. Terrorismo nel regime della giurisdizione e del processo. Aspetti notevoli.

Tra le novità di maggiore spicco della nuova disciplina speciale meritano un ulteriore breve cenno almeno l'istituzione del nuovo giudice militare ad hoc14 e l'attribuzione al Segretario alla Difesa del potere di disciplinare, attraverso propri regolamenti, il processo che si svolge davanti alle commissioni militari15. Le military commissions non costituiscono una novità assoluta, ma il loro uso è stato finora limitato - sia nella prassi giudiziaria statunitense sia in quella di altri Paesi - alla punizione di crimini di guerra16.Si discute se i fatti di terrorismo internazionale integrino crimini di guerra17.
Di conseguenza, la legittimità dell'esercizio della giurisdizione militare nel caso di specie non è pacifica, sia sotto il profilo del diritto internazionale consuetudinario sia dall'angolo visuale del diritto federale statunitense18.

Il nuovo processo militare soggiace a standards garantistici nemmeno paragonabili a quelli tipici del processo avanti le corti distrettuali, e comunque di livello molto inferiore a quelli propri del giudizio militare ordinario davanti a corti marziali. In particolare, vale la pena di osservare tra l'altro che non esiste per il condannato (da una commissione militare) il diritto di impugnare la sentenza: infatti la decisione è oggetto soltanto di un procedimento di controllo amministrativo eseguito d'ufficio, che culmina con la final decision del Presidente. Ovvio che ciò desta gravi perplessità sulla possibilità che la cognizione giudiziaria delle commissioni sia davvero approfondita nonché "giusta". Si noti che ben diverso è l'appellate review previsto dall'ordinamento militare avverso le sentenze di primo grado delle corti marziali: i ricorsi giurisdizionali esperibili contro una sentenza di una court-martial si articolano su tre gradi di giudizio, che comprendono l'esame - nell'ordine - della Corte degli Appelli Criminali (di cui possono far parte anche giudici ordinari cioè non militari), della Corte d'Appello per le Forze Armate (composta esclusivamente da giudici non militari) e, infine, della Corte Suprema. Il military order di Rumsfeld conferisce solo per alcuni aspetti il crisma di costituzionalità al processo delle military commission, fugando parte dei gravi dubbi originati dall'executive order presidenziale del 13 novembre 200119. In particolare, anche a seguito del military order del Segretario alla Difesa, nel processo penale militare speciale è esclusa l'applicazione: dell'art. 2 della Federal Costitution, che assicura il controllo del giudice ordinario sulla legittimità di ogni forma di detenzione; del Quarto Emendamento che protegge l'individuo da irragionevoli searches and seizures; del Sesto Emendamento che garantisce all'imputato un giudizio celere e pubblico ed il diritto di essere informato dell'accusa.


4. Applicazioni giurisprudenziali e sorte dei detenuti

Secondo il military order del Segretario alla Difesa del 21 marzo 2002, sez. 6 (B), in linea di principio i nuovi processi militari sono pubblici. Ad oggi non ve n'è alcuno ufficialmente pendente. L'inizio dei processi militari speciali, dato per imminente già in un articolo del Washington Post del 18 novembre20, è stato di recente annunciato da The Miami Herald21.
Diversamente, i processi davanti alle comuni corti distrettuali sono già iniziati. Ad oggi, soltanto uno ha raggiunto la conclusione, con palese trattamento di favore per l'imputato. Si tratta del processo a carico di John Walker Lindh, giovane cittadino statunitense combattente con gli afgani, la cui vicenda giudiziaria, iniziatasi con l'accusa per una serie numerosa di reati di terrorismo, comportante in astratto anche la pena capitale, si è conclusa con un plea agreement, una sorta di "patteggiamento" o meglio transazione giudiziaria molto "libera" (compresa tra l'altro la rinuncia a doglianze contro trattamenti iniqui in stato di carcerazione preventiva), che ha "limitato" la pena detentiva a vent'anni di reclusione e prodotto altri notevolissimi benefici per il condannato22. Da notare che il mercato sulle sanzioni, tipicamente americano, parrebbe escluso dal diverso regime correlato al giudizio davanti alle commissioni militari.

Altro processo in corso davanti al giudice ordinario è quello contro Moussaoui che è imputato di aver cospirato allo scopo di mettere a segno gli attacchi dell'11 settembre. Di recente, l'Esecutivo ha considerato l'ipotesi di "cambiare giudice" a Moussaoui23, togliendo il processo alla District court of Virginia ed affidandolo ad una commissione militare. Il 30 settembre è stato disposto un rinvio di sei mesi, e il 21 ottobre un altro sospetto terrorista che nel mese di luglio aveva pesantemente accusato Moussaoui, ha ritrattato le accuse24. Guarda caso, proprio dopo la ritrattazione del teste-chiave, il Ministero della Giustizia (da cui dipende il prosecutor, cioé la pubblica accusa) ha pensato di cambiare giudice in corso di processo, "passando" alla commissione militarre. Questa eventualità, paventata nel novembre 2002, non si è realizzata e pare che il processo-Moussaoui rimanga per ora incardinato davanti al giudice federale ordinario25.


5. I sospetti terroristi detenuti, tra diritto statunitense e diritto internazionale.

La maggior parte dei sospetti terroristi arrestati si trova ancora in stato di carcerazione preventiva. I detenuti in attesa di giudizio possono essere distinti in due categorie.
Alla prima appartengono quanti si trovano in carceri dislocate sul territorio degli Stati Uniti. Questi indagati sono soggetti al controllo del Bureau of Prisons, cioè di un'articolazione interna al Dipartimento alla Giustizia e, dunque, al potere regolamentare del Ministro. La legittimità della carcerazione preventiva cui sono sottoposti può essere sindacata mediante l'esercizio di specifiche azioni giudiziarie previste dall'ordinamento federale. In particolare, l'art. 1 sez. 9 della Costituzione prevede la facoltà di sollecitare l'emissione, da parte del giudice ordinario, del writ of habeas corpus, provvedimento che ordina all'Amministrazione di esibire gli elementi di fatto e di diritto che fondano la legittimità della restrizione della libertà personale cui il ricorrente è sottoposto.
Della seconda categoria fanno parte quanti sono attualmente detenuti nella base militare statunitense di Guantanamo, sull'isola di Cuba. In gennaio e febbraio 2002 sono stati promossi due distinti procedimenti giudiziari (il primo davanti alla district court di Los Angeles, il secondo davanti alla corte distrettuale di Washington)26 con cui si lamentava l'espoliazione dei detenuti di Guantanamo dei più elementari diritti garantiti dalla Costituzione e dai trattati internazionali di cui gli U.S.A. sono parte. Tra questi, il diritto al "due process of

law" (cioè ad un processo "giusto"), ad essere informati della natura e del fondamento delle accuse mosse a loro carico, a fruire dell'assistenza di un legale. I ricorrenti sollecitavano, pertanto, l'emissione da parte del giudice adito, del writ of habeas corpus.
In entrambi i casi la domanda è stata rigettata27. Le corti distrettuali, infatti, hanno ravvisato (conformandosi ad un precedente della Corte Suprema del 1950) l'esistenza di una norma di common law che esclude che la garanzia dell'art 1 sez. 9 della Costituzione si estenda fuori del territorio sul quale grava la sovranità degli Stati Uniti28. Ai ricorrenti non è bastato opporre che la base di Guantanamo è - di fatto - soggetta alla piena sovranità degli Stati Uniti29.

La collocazione a Cuba dei detenuti reputati più pericolosi risponde, dunque, a chiare ragioni di opportunità: la formale extraterritorialità del luogo di detenzione consentirebbe all'Amministrazione, sotto il profilo del diritto interno statunitense, di detenere chiunque sine die e sine iudicio, e per giunta senza difesa.

Sotto il profilo del diritto internazionale, la condizione dei detenuti di Guantanamo presenta profili di dubbia legittimità.

I detenuti di Guantanamo sono di eterogenea estrazione: taluni facevano parte dell'esercito regolare afgano, altri provengono da organizzazioni ritenute terroristiche (Al Qaeda, anzitutto). Queste ultime, benché siano insuscettibili di essere inquadrate nella nozione di esercito regolare, mantenevano con il governo dei Talebani profondi legami ideologici, logistici, militari.

L'Esecutivo statunitense ha costantemente definito i detenuti di Guantanamo "combattenti illegittimi", rifiutandosi di riconoscere loro lo status di "prigionieri di guerra" (POW) con i conseguenti diritti e tutele previsti dalla Terza Convenzione di Ginevra del 12 agosto 194930. Ma l'art. 4 di questo trattato stabilisce che lo status di prisoner of war deve essere riconosciuto: ai membri delle Forze Armate di una parte in conflitto, in ogni caso; ai membri delle altre milizie e degli altri corpi di volontari (che la norma definisce "gruppi di resistenza organizzati"), qualora concorrano certe condizioni e, precisamente, allorché (1) abbiano alla loro testa un comandante responsabile dei propri subordinati, (2) portino un segno distintivo fisso riconoscibile a distanza, (3) portino apertamente le armi, (4) si attengano, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi di guerra.

Secondo la disciplina della Convenzione di Ginevra, dunque, coloro che, militando nell'esercito talebano, furono catturati sul campo di battaglia, devono essere riconosciuti prigionieri di guerra31.

Con riferimento a quanti, invece, sono accusati di appartenere ad Al Qaeda, si impone un'ulteriore distinzione.

In primo luogo, a coloro che non presero direttamente parte al conflitto afgano va certamente negato lo statuto di prigionieri di guerra.
In secondo luogo, i detenuti che combatterono a fianco dell'esercito regolare talebano sono da ritenere comunque membri delle FF.AA. afgane, purchè, di fatto, fossero sprovvisti di autonomia operativa ed eseguissero gli ordini dei comandi militari regolari (art. 4.2 Conv. Ginevra cit.). Qualora, al contrario, operassero nell'ambito di cellule indipendenti, devono essere riconosciuti "gruppi di resistenza organizzati" e - di conseguenza - gli interessati sono ammessi allo status di prigionieri di guerra solo ove ricorrano le specifiche condizioni previste dall'art. 4 come sopra menzionate. Comunque, qui interessa rilevare che lo status giuridico dei detenuti di Guantanamo non può essere definito a priori in modo generalizzato, ma al contrario deve essere determinato caso per caso con relativo accertamento. E' chiaro però che, se si nega o comunque si impedisce l'accesso ad un'autorità competente per questo accertamento, allora è facile sfuggire al dettato del diritto internazionale. Infatti l'Amministrazione statunitense disattende l'art. 5 della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, laddove è disposto che: il potere di accertare se un prigioniero sia stato legittimo combattente alla stregua del diritto internazionale spetta in via esclusiva all'autorità giudiziaria; ogni Stato contraente deve, attraverso i propri strumenti legislativi, fissare i criteri per l'individuazione del giudice competente. Eppure, per quanto riguarda l'ordinamento federale statunitense, una army regulation32, emanata il primo ottobre 1997 dal Dipartimento alla Difesa, dispone che il potere di determinare lo status dei detenuti spetta ad un tribunale militare composto da tre ufficiali.
E' in definitiva priva di ogni fondamento, alla stregua sia del diritto internazionale che del diritto interno, la pretesa dell'Esecutivo di sfuggire al controllo giudiziario33. Peraltro, la questione si proporrà davanti alle commissini militari.

I diritti e le tutele afferenti lo status di prigionieri di guerra sono (sarebbero) notevoli. In primo luogo, l'art. 118 della Convenzione di Ginevra dispone che il prigioniero di guerra deve essere rimpatriato al termine delle ostilità. Si spiega, in parte, la fermezza dell'Amministrazione nel negare ai detenuti tale status: una volta riconosciutolo si imporrebbe immediatamente il rimpatrio, o quanto meno il problema si sposterebbe sull'avvenuta cessazione delle ostilità.

Inoltre, la Convenzione di Ginevra non consente, nel caso di specie, l'uso di commissioni militari. L'art. 102, infatti, esige che il prigioniero di guerra venga giudicato dalle stesse corti ed in ottemperanza alla stessa procedura che si seguirebbe allorché lo stesso fatto fosse commesso da un membro delle Forze Armate della potenza detentrice. In particolare, dato che il diritto penale militare ordinario degli Stati Uniti non conosce il reato di terrorismo, il militare americano che ne fosse accusato verrebbe processato da una corte distrettuale, in base al diritto penale comune. Pare dunque logico che, ove fosse riconosciuto lo status di prigionieri di guerra ai detenuti di Guantanamo, la giurisdizione delle commissioni militari dovrebbe essere sostituita da quella delle corti distrettuali.

In ultima analisi, applicare le tutele delle Convenzione di Ginevra significherebbe rinunciare integralmente ai nuovi principi di fondo cui si informa nell'ordinamento statunitense la repressione giudiziaria del terrorismo internazionale.

Ciò posto, muoviamo ora dal rifiuto dell'Amministrazione americana di riconoscere ai detenuti di Guantanamo lo status di prigionieri di guerra, ai quali è invece attribuita la qualifica di combattenti illegittimi, e chiediamoci quale sia il trattamento spettante ai combattenti illegittimi, appunto (ammessa e non concessa la qualifica).

Storicamente, i combattenti illegittimi sono sottratti alla possibilità di fruire delle più elementari tutele. Secondo il diritto internazionale consuetudinario tradizionale, possono essere condannati (di solito alla pena capitale) dopo un processo sommario34. Dall'esperienza giudiziale successiva alla Seconda Guerra Mondiale è emerso che il fatto di avere messo a morte un combattente illegittimo non espone l'autore a responsabilità penale35.

Tuttavia, si vorrebbe che in tempi più recenti la coscienza giuridica di tutti i popoli abbia espresso l'idea che nessuno possa subire sanzioni penali (in primis la pena capitale) senza un processo o, che è lo stesso, in base ad un accertamento giudiziario meramente simbolico. La cennata costruzione di diritto internazionale consuetudinario, che tradizionalmente nega ogni tutela ai combattenti illegittimi, potrebbe essere considerata non più attuale (a parte rimangono più generali rilievi sulle difficoltà di ricognizione del precipitato penalistico del diritto internazionale36). Ciò discenderebbe, più precisamente, anzitutto dall'art. 8 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo adottata nel 1948, testo che peraltro non è da sé vincolante.

Vi è stabilito, in sostanza, che ogni individuo ha facoltà di agire in giudizio per la tutela dei diritti che gli sono riconosciuti dalla Costituzione o dalla legge. L'art. 9 aggiunge che nessuno può essere sottoposto ad arresto, detenzione od esilio arbitrari. In secondo luogo ha rilievo l'art. 75 del Primo Protocollo Addizionale alle Convenzioni di Ginevra, adottato a Ginevra l'8 giugno 1977, che stabilisce che gli individui che non siano titolati a godere del più favorevole trattamento riservato ai prigionieri di guerra devono comunque "essere trattati umanamente in ogni circostanza"; essi devono essere ammessi a beneficiare di alcune fondamentali garanzie processuali, tra cui il diritto ad essere informati dell'accusa, di godere della presunzione di innocenza, di essere presenti al processo, di poter chiamare a deporre testi a discarico e di esaminare direttamente quelli a carico.

Peraltro, gli Stati Uniti hanno firmato il Protocollo il 12 dicembre 1977 ma non l'hanno ancora ratificato. Ne consegue, secondo gli Stati Uniti, che ai combattenti illegittimi di Guantanamo non è dovuto il trattamento previsto dalla normativa convenzionale. Tuttavia, l'elevato numero di ratifiche raccolto dal Protocollo è un attendibile indicatore del percorso evolutivo seguito dalla prassi internazionale sul trattamento dei combattenti illegittimi.

Si potrebbe quindi riconoscere una norma tendente ad escludere che i combattenti illegittimi possano essere sottratti ad ogni forma di tutela. Qualora abbiano commesso determinati crimini di guerra, possono essere processati da military commissions, in conformità ad una prassi internazionale che ha profonde radici storiche. I crimini di terrorismo che non sono crimini di guerra spettano alla cognizione del giudice ordinario.In dottrina si è, inoltre, affermato che anche ai combattenti illegittimi debbono essere riconosciuti i diritti previsti dall'International Covenant on Civil and Political Rights (Patto internazionale sui diritti civili e politici - Nazioni Unite, 16 dicembre 1966 -, che gli Stati Uniti hanno ratificato nel 1992). Rileverebbero, per esempio, il diritto di non essere sottoposti a misure restrittive della libertà personale se non nei casi previsti dalla legge, il diritto di contestare il giudizio la legittimità di ogni misura restrittiva, il diritto di essere informati della natura dell'accusa formulata a proprio carico37.

Su tutte queste basi trova, nel caso, apprezzabile fondamento un certo standard minimo internazionale38 di tutela. Ma ancora una volta il diritto statunitense prefigura percorsi non coincidenti col diritto internazionale. Se ammettessimo che talvolta i fatti illeciti parlano da soli riguardo alla loro illiceità, allora i fatti di Guantanamo sarebbero da ritenersi tra i più loquaci.


6. Evoluzione della "war on terrorism". Prospettive future.

A sedici mesi dal Nine-Eleven e ad un anno dalle prime deportazioni a Guantanamo, la war on terrorism ha imboccato la strada del confronto strenuo, privo di regole certe. L'Amministrazione americana si è dimostrata propensa a sacrificare, in nome della sicurezza, non solo gli elementari standards garantistici cristallizzati nel diritto internazionale consuetudinario e le stesse regole del diritto federale interno, ma anche i principi che informavano la war on terrorism dei primi mesi. Invero, l'executive order del 13 novembre 2001 poneva in buona sostanza un solo limite alla discrezionalità del Presidente nell'individuare i soggetti destinatari della disciplina speciale: erano categoricamente escluse le persone munite di cittadinanza statunitense, come si è detto. Questo vincolo tuttavia è caduto, almeno di fatto. E' interessante osservare che la crisi del discrimine (fino a pochi mesi fa ritenuto assiomatico) non è stata conseguenza di una modifica, attraverso un atto normativo ufficiale, della disciplina introdotta con il provvedimento presidenziale del 13 novembre 2001 e con il regolamento del Segretario alla Difesa del 21 marzo 2002. Ad oggi, tale disciplina è integralmente vigente, almeno dal punto di vista formale, ed è stata applicata fino al menzionato caso di John Walker Lindh. Lindh non è però stato l'unico cittadino statunitense a combattere a fianco dei Talebani. Almeno un altro cittadino americano è stato catturato in circostanze pressoché identiche: Yaser Hamdi.

Orbene, Hamdi, come Lindh, è stato fatto prigioniero sul campo di battaglia in Afghanistan, ma, paradossalmente, pare destinato ad una sanzione ben più grave. In un primo tempo, egli è stato internato a Guantanamo, sotto l'autorità del Segretario alla Difesa (e sotto i rigori della disciplina speciale). Dopo aver scoperto che Hamdi è nato negli Stati Uniti e non ha mai rinunciato al suo status di cittadino, l'Amministrazione ne ha disposto il trasferimento nella base militare di Norfolk, in Virginia, sempre sotto la potestà regolamentare del Dipartimento alla Difesa39.

Vi è, inoltre, un terzo american citizen - Jose Padilla - che, in deroga ai principi che regolano i rapporti tra diritto penale comune e disciplina speciale, subisce un trattamento che - a rigore - dovrebbe essere riservato gli stranieri: arrestato a Chicago l'8 maggio 2002 e posto sotto l'autorità del Ministero della Giustizia, è stato detenuto sul territorio degli U.S.A per circa un mese, secondo il diritto penale comune, ma poi una certification del 9 giugno 200240 del Presidente degli Stati Uniti ha ordinato che Padilla fosse assoggettato alla disciplina speciale, detenuto sotto l'autorità del Segretario alla Difesa e, in proiezione, sottoposto alla giurisdizione delle military commissions (anziché delle district courts)41.

L'American Bar Association è insorta, chiedendo che l'Amministrazione illustrasse pubblicamente il fondamento giuridico del trattamento applicato ad Hamdi e Padilla, di fatto equiparato ai non-cittadini42. La stessa Commissione sulle Forze Armate del Senato, con una lettera (5 settembre 2002) inviata al Dipartimento alla Difesa ed al Dipartimento alla Giustizia, ha sollecitato spiegazioni.

Il trattamento cui sono sottoposti Hamdi e Padilla discende dalla particolare qualificazione giuridica del loro status. In entrambi i casi, infatti, l'Amministrazione li considera "enemy combatants" ("nemici belligeranti"). La posizione dell'Esecutivo, delineata nelle risposte43, si articola in più punti:
- il Presidente, quale comandante in capo delle FF.AA., ha il potere di detenere coloro che, militando nella fila avversarie, vengano catturati dagli Stati Uniti, anche qualora siano muniti di cittadinanza statunitense; questa prerogativa presidenziale trova fondamento nella lettera dell'art. 2 della Costituzione federale e costituisce una delle più tipiche espressioni dei war powers. Inoltre, nel caso della "guerra al terrorismo", i poteri del Presidente sono ulteriormente corroborati dal Congresso che, nella joint resolution del 18 settembre 2001, lo ha autorizzato ad usare "all necessary and appropriate force";
- non è esatto affermare che il cittadino statunitense qualificato "enemy combatant" dall'Esecutivo non goda della garanzia del controllo giudiziario sulla legittimità della carcerazione ante-iudicium: semplicemente, la giurisprudenza ha acclarato che il citizen-enemy combatant non è ammesso a fruire del writ of habeas corpus44;
- la durata della detenzione cui soggiacciono gli enemy combatants non è indefinita, giacché la Terza Convenzione di Ginevra impone di rimpatriare i combattenti catturati al termine delle ostilità45.

Gli argomenti di diritto su cui poggiano le tesi dell'Amministrazione non sono del tutto privi di consistenza. La stessa giurisprudenza, in una recente pronunzia46, ha rigettato il ricorso di Hamdi diretto ad ottenere la revoca della custodia in carcere by writ of habeas corpus, ritenendo legittima, in tempo di guerra, la carcerazione degli enemy combatants anche se cittadini. Il fatto che sussistano argomenti giuridici a favore della assoggettabilità alla disciplina speciale antiterrorismo anche dei cittadini statunitensi fa sospettare che l'esclusione dei citizens dalla disciplina emergenziale, solennemente sancita dall'executive order del 13 novembre, fosse fin dall'inizio concepita come un limite più apparente che reale, ad onta della messe di critiche concernenti la discriminazione dello straniero. Rimangono, peraltro, difficilmente giustificabili, sotto il profilo della assiologia giuridica, le ragioni che hanno indotto l'Esecutivo (cui è istituzionalmente legata la pubblica accusa) a tollerare una così vistosa disparità di trattamento tra Lindh ed i suoi concittadini Hamdi e Padilla.

Questi casi giudiziari stanno animando accesi dibattiti nel mondo accademico e tra i pratici del diritto statunitensi. Decine di docenti universitari si erano costituiti in giudizio, tra gli amici curiae in support of appellees, a fianco di Hamdi47; ad essi si contrapponevano (soltanto) sette amici curiae in support of appellants, a sostegno dell'Esecutivo. Il dissidio è ben lungi dall'essere composto: più che mai ora che l'esclusione dei cives, unico limite all'incontrollata discrezionalità dell'Amministrazione nell'applicazione del nuovo diritto penale, è stata ridotta ad incolore clausola di stile.


7. Conclusioni ("europee").

Incerte appaiono le vie future della lotta statunitense al terrorismo. Una sicura vittima dell'esercizio dei pieni poteri reclamati dall'Esecutivo è stata la certezza del diritto, sì che, ad oggi, non è dato sapere chi cadrà sotto i rigori della disciplina emergenziale. Inoltre si può affermare che la repressione del terrorismo mette a dura prova il funzionamento dei tradizionali checks and balances che permeano l'architettura costituzionale statunitense, primo fra tutti il controllo del Congresso sull'attività del Governo48. Non è dato sapere se gli Stati Uniti, per vincere la sfida della sicurezza, riusciranno a mantenersi fedeli al proprio assetto istituzionale; se i valori costituzionali (e costitutivi) della societas americana usciranno indenni dalla war on terrorism. Non pare, al momento.

L'inquadramento anche giuridico delle vicende "afgane" e correlate (per così dire), prescelto da parte dominante, quella statunitense, corrisponde in buona sostanza all'identificazione delle ragioni degli USA con quelle generali della comunità internazionale, e viceversa. Non deve quindi sorprendere che il diritto statunitense anche penale risulti in buona sostanza imposto come (come se fosse) diritto universale, quindi al posto del diritto internazionale anche penale. Chi è sovrano fa il diritto, e la sua operazione di polizia dà adito al suo processo secondo il suo diritto penale. Questo è in fondo il punto di vista dell'Amministrazione americana.

In secondo luogo è da notare che trattandosi di diritto sorto in nome dell'emergenza e più esattamente di una "guerra", non vi è da aspettarsi un buon livello di rispetto degli elementari principi di civiltà giuridica, compresa quella penale. Ma l'ordinanza militare penale presidenziale va molto oltre laddove pretende che non siano validi "the principles of law and the rules of evidence generally recognized in the trial of criminal cases in the United States district courts". Il diritto revoca il Diritto. Peraltro si può notare che si tratta di un ordinamento penale rispondente a radici culturali e storiche ben diverse da quelle proprie del nostro diritto italiano e comunque da quelle che sostengono gli ordinamenti penali europeo-continentali ispirati in via tendenzialmente esclusiva, appunto, al metodo di civil law. L'apprezzamento delle garanzie va quindi condotto tenendo conto dei diversi presupposti implicati dai sistemi che sono tributari (in tutto o in parte) del common law, diritto che rimane basilare. Sul fronte dei rimedi all'enormità dell'esclusione delle garanzie si deve considerare che la reazione dei giuristi, i quali reggono quelle basi di diritto, ha già prodotto qualche temperamento trasfuso nella disciplina di dettaglio introdotta tramite il menzionato military order del Segretario alla Difesa (Rumsfeld) del 21 marzo 2002. Per il resto è sufficiente accennare al profilo concernente la "retroattività" delle nuove disposizioni, le quali si applicano, nella migliore (cioè più favorevole) delle ipotesi, quanto a meno a partire dall'11 settembre 2001 compreso, ma probabilmente investono anche fatti pregressi (più o meno o niente affatto correlati). Il limite estremo della "retroattività" è segnato dall'art. 15, co. 2, del citato Patto internazionale sui diritti civili e politici, che, in tema di principio internazionale di legalità penale (nullum crimen sine iure), ammette la punizione dei condotte che al momento in cui furono commesse costituivano reato secondo i principi generali del diritto riconosciuti dalla comunità delle nazioni (e non pare dubitabile che l'attacco alle Torri costituisca un crimine di diritto internazionale generale).

D'altra parte, poiché rimane la pluralità di ordinamenti, il menzionato Sovrano non essendo ancora riuscito ad imporre integralmente la "sua" globalizzazione penale49, non è escluso il conflitto. Tanto è vero che si sono già verificati casi di rifiuti di certi Stati europei50 di collaborare alle indagini statunitensi su fatti di terrorismo, in quanto le imputazioni comportavano la pena capitale. E il Parlamento europeo ha messo in chiaro che collaborazioni dell'Unione con gli USA sul fronte anti-terrorismo non possono essere instaurate su presupposti che implichini la revoca dei principi dello Stato di diritto51. Vi sono state ulteriori reazioni "europee". Un'interessante sentenza (11 ottobre 2002) della Camera per i Diritti Umani per la Bosnia e l'Herzegovina52 (che opera nel quadro dell'accordo per la pace in quei Paesi), ha già posto certe premesse di diritto europeo non coincidenti con quelle statunitensi, censurando casi di espulsione di pretesi terroristi islamici, espulsioni funzionali alla consegna degli interessati agli Stati Uniti.

Meno incisiva è una pronunzia di una Corte britannica, la sentenza "Abbasi"53 emessa dalla Court of Appeal su appello proposto contro la Queen's Bench Division della High Court of Justice. L'appello è stato proposto dalla madre di Feroz Ali Abbasi - cittadino britannico catturato dagli USA in Afghanistan e detenuto a Guantanamo - che agiva per obbligare il Regno Unito a significativi comportamenti di difesa del proprio cittadino nei confronti degli USA e in particolare del trattamento riservato ai detenuti di Guantanamo (Camp X-Ray), che violerebbe i trattati internazionali. La Corte ha risposto in buona sostanza di non poter obbligare il Governo in materia riservata ai rapporti diplomatici. Così per certi versi i giudici inglesi, come quelli americani, iniziano a portare non lievi responsabilità nella legittimazione del nuovo diritto emergenziale "liberticida". Per altri versi tuttavia la decisione londinese costituisce un precedente utilizzabile in senso negativo rispetto al nuovo diritto statunitense, poichè afferma che la detenzione indefinita è contraria al diritto internazionale e ai principi dell' habeas corpus54 .


Note
omissis

 
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