Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
Un primo bilancio della Corte Penale Internazionale :: Studi per la pace  
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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CPI Dr. Fabio Marcelli
 
Versione integrale
Un primo bilancio della Corte Penale Internazionale
Paper

In corso di pubblicazione su Diritti dell'uomo, cronache e battaglie.
Pubblicato sul sito dei Giuristi Democraitici
www.giuristidemocratici.it. Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
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Documento aggiornato al: 2006

 
Sommario

bisogna davvero essere convinti, con Giovanni Conso, che a Roma nel 1998 è stato compiuto un passo fondamentale. Vero è che la via è ancora lunga e piuttosto accidentata. Ma molto, se non tutto, dipende da noi.

 
Indice dei contenuti
 
1. Introduzione.

2. Un bilancio tutto sommato alquanto insoddisfacente.

3. Il caso dell'Iraq.

4. Problematiche della giurisdizione universale e ruolo della società civile internazionale organizzata.
 
Abstract
 




1. Ad oramai otto anni dalla firma del Trattato istitutivo della Corte penale internazionale, avvenuta a Roma il luglio 1998, occorre chiedersi fino a che punto questo strumento sia risultato utile per reprimere le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale che continuano a verificarsi in varie aree del pianeta.

E' bene ricordare come la firma del Trattato era stata accompagnata da grandi speranze e proclamazioni secondo le quali essa si configurava addirittura alla stregua di segnale decisivo di avvio di una nuova era nella quale l'impunità dei più gravi delitti sarebbe stata eliminata definitivamente.

Tali aspettative sono ben riassunte in un importante passaggio dell'intervento svolto all'epoca dal Presidente della Conferenza diplomatica che approvò il Trattato, Giovanni Conso, il quale affermò quanto segue: "The satisfaction we all feel is great because we have all contributed to a page of history. This is truly an event without precedent, an event which will achieve a radical change in the course of a long voyage to protect the fundamental values of humanity". E ancora: "After fifty years of the Universal Declaration of Human Rights approval by the General Assembly of the United Nations, there is a new message that now comes from Rome, which is also a very specific notice: the international community will no longer tolerate the horrors that chill the conscience of every individual nor will it tolerate impunity for the perpetrators of those atrocities".

Beninteso, occorre esser ben consapevoli del carattere per l'appunto storico del processo che, da relativamente lungo tempo intrapreso, ha conosciuto nel 1998 a Roma un'accelerazione notevole e un fondamentale punto di svolta, adottando necessariamente la prospettiva dei tempi lunghi, che è propria di ogni processo di questo tipo e dimensione.

Eppure, non si può al tempo stesso negare che, se pure il Trattato ha costituito indubbiamente un enorme passo avanti dal punto di vista dell'evoluzione del diritto internazionale, per l'importanza dei principi di universalizzazione della difesa dei diritti umani e di necessità di reprimerne le violazioni che esso afferma con forza, la traduzione pratica di questi principi risulta, a tutt'oggi, estremamente insoddisfacente.

Si è infatti registrata, al contrario, una recrudescenza della violazione dei diritti umani che colpisce oggi gran parte del globo. E l'aspetto più inquietante di questa situazione è costituito proprio dalla circostanza che fra i maggiori criminali internazionali ci sono le maggiori potenze mondiali. Basti pensare agli Stati Uniti che, in compagnia del Regno Unito e di altri alleati, hanno violato apertamente l'art. 2, para. 4, conducendo una guerra di aggressione contro l'Iraq, commesso in tale occasione una serie di gravi crimini contro i civili, reintrodotto l'uso della tortura in luoghi oramai tristemente famosi come Abu Ghraib e Guantanamo, ed allestito una rete internazionale clandestina volta alla tortura e segregazione di presunti terroristi.

Si tratta, a ben vedere, di veri e propri crimini di Stato, figura che non a caso la prassi internazionale più recente ha mirato ad espungere dal novero dei concetti del diritto internazionale, ma che mantiene ciò nonostante una sua precisa pregnanza, sulla base dell'esperienza maturata a partire dal processo di Norimberga e che ha visto, negli ultimi sessanta anni di vita della comunità internazionale, un'elaborazione concreta da parte delle giurisdizioni interne e un crescente supporto da parte dell'opinione pubblica internazionale, strutturata in movimenti ed organizzazioni di impatto crescente e influenza sempre più consolidata.

Certo, sarebbe illusorio ritenere e ingenuo pretendere che l'istituzione della Corte potesse, ipso facto, determinare un miglioramento della situazione dei diritti umani nel mondo. Ma l'atteggiamento da essa assunto in determinate circostanze non lascia ben sperare neanche rispetto al futuro.

2. Il Trattato firmato a Roma nel 1998 avrebbe voluto costituire un ulteriore consolidamento e sviluppo di questa prassi, mettendo a punto un corpus normativo definito nonché un apparato centralizzato, imperniato sulla figura del Procuratore, volto a intervenire tutte le volte che i tribunali penali interni non volessero o potessero farlo proprio per le implicazioni di carattere politico più generale che le azioni criminali dei singoli venissero ad assumere in determinate circostanze.

Ebbene, questo ambizioso disegno sembra infrangersi sulle situazioni di potere effettivo esistenti in ambito internazionale. Il carattere diffuso e sistematico dei crimini di guerra e contro l'umanità compiuti dalle truppe occupanti in Iraq e la sostanziale impunità di cui queste continuano a godere sembrano essere una dolorosa conferma di questo triste assunto. Di fronte a crimini di questa specie e intensità nulla ha potuto la Corte penale internazionale. Occorre allora chiedersi quali siano i limiti di fondo della sua azione, quale ne sia il risultato e se essa, nonostante tutto, serva a qualcosa. E' in altre parole necessario ed urgente un rigoroso bilancio delle sue attività.

Ricordiamo che, ai sensi dello Statuto della Corte penale internazionale (art. 13), questa può esercitare la propria competenza su uno dei crimini previsti dall'art. 5 (genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra, aggressione), qualora ne sia richiesta da uno Stato parte (art. 14), dal Consiglio di sicurezza operante sulla base del Capo VII della Carta e delle Nazioni Unite, o dal Procuratore che abbia aperto un'inchiesta sul crimine ai sensi dell'art. 15.

Nel caso del crimine dell'aggressione è inoltre previsto che, al fine di rendere operativa la relativa norma, sia adottata, ai sensi degli artt. 121 e 123 dello Statuto, una disposizione che la definisca e stabilisca le condizioni per l'esercizio della competenza della Corte al riguardo, con l'approvazione di un emendamento in questo senso da parte della maggioranza della Conferenza degli Stati parte, che viene convocata non prima di sette anni dall'entrata in vigore dello Statuto.

Limiti alla competenza della Corte sono previsti ratione temporis, dato che la Corte può esercitare la propria competenza solo riguardo a crimini commessi dopo l'entrata in vigore dello Statuto (art. 13) e deve sussistere uno dei criteri di collegamento previsti dall'art. 12, vale a dire deve essere parte allo Statuto o lo Stato sul cui territorio è stato commesso il crimine o quello di cui è cittadino l'autore o entrambi.

L'art. 15 prevede la possibilità per il Procuratore di aprire il procedimento di propria iniziativa, sulla base di informazioni relative a crimini di competenza della Corte. A tale riguardo egli deve anzitutto verificare la serietà delle informazioni ricevute, raccogliendo elementi supplementari da Stati, organi dell'ONU, organizzazioni intergovernative e non-governative, o altre fonti degne di fede che giudichi appropriate, e raccogliere deposizioni scritte ed orali presso la sede della Corte.

Se ritiene che vi sia una base sufficiente per aprire un'inchiesta egli sottopone una richiesta in questo senso alla Camera preliminare costituita presso la Corte. Questa dà la sua autorizzazione se riscontra l'esistenza di una base ragionevole per procedere e che il caso sembri rientrare nella competenza della Corte.

Anche qualora la Camera adotti un giudizio negativo, il Procuratore può tornare sul caso sulla base di nuovi elementi (fatti od elementi di prova).

Alla luce di queste schematiche indicazioni normative risulta quindi evidente come il Procuratore disponga di un notevole potere, sia pure soggetto all'ulteriore filtro procedurale costituito dalla Camera preliminare.

Che uso è stato fatto di questo fondamentale potere? A tutt'oggi, il Procuratore della Corte, Luis Moreno-Ocampo, ha aperto la procedura prevista dallo Statuto in ordine a tre situazioni: Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Darfur.

Quanto alla prima di tali tre situazioni, sin dal luglio del 2003, il Procuratore ha avviato un'indagine inizialmente focalizzata sulla regione di Ituri. Nel settembre del 2003 il Procuratore informava gli Stati parti di essere in procinto di chiedere alla pre-trial Chamber di essere autorizzato ad aprire ufficialmente l'inchiesta e al tempo stesso rendeva noto che l'assistenza dello Stato coinvolto sarebbe risultata utile e gradita. Quest'ultimo, con lettera del novembre 2003 dava il benvenuto all'apertura dell'indagine e, con successiva comunicazione del marzo 2004, chiedeva al Procuratore di intervenire su ogni situazione di sua competenza esistente all'interno del territorio congolese, impegnandosi a sostenerne l'azione.

Anche l'inchiesta del Procuratore relativa all'Uganda è stata aperta su iniziativa dello Stato coinvolto, il quale ne ha chiesto l'intervento nel dicembre 2003. L'azione sviluppata dalla Corte in questa vicenda appare di particolare complessità per l'intreccio esistente con il tentativo di instaurare negoziati di pace con la formazione cui sono imputati molti dei crimini, il cosiddetto Esercito di resistenza del signore (Lord's Resistance Army) capeggiato da Joseph Kony.

Nel caso del Darfur, invece, il Procuratore è stato investito dal Consiglio di sicurezza con risoluzione n. 1593 (2005) del 31 marzo 2005. Dato che in questo caso, al contrario che negli altri due, non si è finora registrata alcuna approvazione, neppure di ordine meramente formale, da parte dello Stato interessato, gravi difficoltà sono opposte alla conduzione dell'inchiesta. Anche in questo caso peraltro si verifica una connessione con altre iniziative, in particolare quella di schierare nella zona una forza internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite, tuttora avversata dal governo sudanese.

Anche la Repubblica centroafricana ha deferito al Procuratore una situazione verificatasi nel suo territorio, ma essa appare tuttora all'esame preventivo all'apertura dell'inchiesta vera e propria.

Varie altre sollecitazioni ad aprire inchieste sono pervenute al Procuratore, in relazione a situazioni diverse come l'Iraq e il Venezuela. Fortemente segnate da un pregiudizio e un intento di strumentalizzazione politica appaiono le ultime, data l'evidente inesistenza di situazioni in qualche modo riconducibili allo Statuto della Corte penale internazionale nello Stato latino-americano, che sta vivendo una fase di intensa e positiva trasformazione sociale riuscendo al tempo stesso a rispettare i fondamentali canoni dello Stato di diritto nonché le norme internazionali, specialmente quelle relative ai diritti umani.

Se questo è il quadro delle iniziative giudiziarie finora assunte dalla Corte, l'impressione è quella di una certa parzialità, al limite della tendenziosità, per il fatto che vengono avviati procedimenti solo nei confronti di determinati Stati, in genere falliti, se non addirittura rogue, o comunque vicini al fallimento, mentre si ignora la corposa criminosità che sgorga dal cuore di tenebra dell'Occidente.

Certo non può essere sottovalutato l'impatto positivo, sui diritti delle vittime, che l'azione della Corte può svolgere, se non altro come deterrente nei confronti di sistemi giudiziari che non vogliono o non possono rispondere a gravi violazioni dei diritti umani. Ma è bene avvertire che questa azione potrà avere risultati se la Corte dimostrerà nei fatti di essere indipendente e imparziale. E' questa a ben vedere una condizione imprescindibile per travolgere le resistenze di Stati che, come fa oggi il Sudan, potrebbero sembrare giustificati invocando la violazione della loro sovranità o denunciando la natura di strumento "neocoloniale" o "imperialista" della Corte. Quest'ultima non può dare neanche l'impressione di soggiacere alla logica dei "due pesi, due misure". Ma un'importante occasione in questo senso è stata persa proprio in relazione alle denunce pervenute sull'Iraq.

3. In effetti, un'occasione per dimostrare di essere effettivamente al di sopra delle parti era stata offerta, al Procuratore, dalla presentazione, a cura di vari organismi e singoli individui, di esposti concernenti le numerose violazione del diritto internazionale umanitario, che si atteggiano in vari casi come veri e propri crimini di guerra e contro l'umanità, compiuti dalle forze di occupazione dell'Iraq, durante una guerra di aggressione che ha prodotto, a tutt'oggi, un numero di vittime che, secondo le stime più prudenti, oscilla da 38.839 a 43.269, per non parlare dei casi di tortura e di singoli episodi di atrocità che, lungi dal costituire fatti isolati appaiono inquadrabili in una vera e propria strategia sistematica di terrorismo di Stato. Ben 240 sono le comunicazioni relative all'Iraq finora pervenute al Procuratore. Fra tali segnalazioni va ricordata in particolare quella formulata da alcuni giuristi esperti di diritto internazionale, autori di un esposto contro il primo ministro britannico Blair per varie ipotesi di crimini di guerra che sarebbero stati commessi in occasione della partecipazione alla guerra e all'occupazione che ne è conseguita.

La risposta di Moreno-Ocampo è contenuta in un documento di dieci pagine consultabile sul sito della Corte penale internazionale. Esso è preceduto da una stringata premessa, nella quale Moereno-Ocampo, mette, per così dire, le mani avanti, sostenendo che "while sharing regret over the loss of life caused by the war and its aftermath, as the Prosecutor of the International Criminal Court, I have a very specific role and mandate, as specified in the Rome Statute. My responsibility is to carry out a preliminary phase of gathering and analysing information. I can seek to initiate an investigation only if the available information satisfies the criteria of the Statute. The Rome Statute defines the jurisdiction of the Court and limited set of international crimes".

Il Procuratore sottolinea poi come la sua posizione non possa essere assimilata a quella di un omologo nazionale, data la stretta sottoposizione delle sue attività al regime previsto dallo Statuto. Tre sono in particolare a suo avviso le condizioni necessarie per poter esercitare la sua giurisdizione e precisamente: a) l'informazione disponibile deve costituire una base ragionevole a ritenere che sia stato commesso o in corso di svolgimento un crimine rientrante nella competenza della Corte; b) devono risultare soddisfatti i requisiti relativi alla gravità del crimine e alla cosiddetta complementarietà con le giurisdizioni nazionali; c) deve essere data considerazione alle esigenze di giustizia.

Ciò detto, il Procuratore dà atto di aver compiuto una completa review di tutte le comunicazioni e un'exhaustive search di tutte le informazioni disponibili in materia, ricevendo altresì, al fine di riempire eventuali lacune, informazioni addizionali dagli Stati interessati e da altre entità che possono essere identificate con gli interessi delle possibili vittime e in grado di fornire informazioni indipendenti.

Gli accennati requisiti relativi alla competenza escludono d'altra parte la possibilità di esercitare la giurisdizione con riguardo ad azioni compiute da cittadini di Stati che non siano parte dello Statuto sul territorio iracheno, dato che l'Iraq non ha finora ratificato lo Statuto. Resta d'altronde esclusa anche la possibilità di prendere in considerazione la legalità della decisione di dare inizio al conflitto.

Molto scarse appaiono al Procuratore le allegazioni relative ad eventuali crimini di genocidio e contro l'umanità: "the available information provided no reasonable indicia that Coalition forces had 'intent do destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group as such', as required in the definition of genocide (Artiche 6). Similarly, the available information provided no reasonable indicia of the required elements for a crime against humanity, i.e. a widespread or systematic attack directed against any civilian population (Article 7)".

Il Procuratore non arriva peraltro neanche a ravvisare l'esistenza di crimini di Guerra, pur ricordando la vigenza in materia dei due principi di distinzione (divieto di attacchi deliberatamente portati contro la popolazione civile) e di proporzionalità (divieto di attacchi che, pur se scatenati contro un obiettivo militare, vengano compiuti nella consapevolezza che i "danni collaterali" alla popolazione civile risulterebbero chiaramente eccessivi rispetto al vantaggio militare conseguibile), entrambi richiamati dall'art. 8 dello Statuto). Le comunicazioni, pur ricordando l'elevato numero di vittime civili, non avrebbero indicato l'esistenza di attacchi intenzionalmente diretti a colpire la popolazione civile, mentre il materiale disponibile non conterrebbe informazioni adeguate sugli elementi dell'eccesso dei danni in relazione al vantaggio militare e del coinvolgimento di cittadini di Stati-parte.

L'informazione pervenuta da parte del governo britannico afferma che "lists of potential targets were identified in advance; commanders had legal advice available to them at all times and were aware of the need to comply with international humanitarian law, including the principles of proportionality; detailed computer modelling was used in assessing targets; political, legal and military oversight was established for target approval; and real-time targeting information, including collateral damage assessment, was passed back to headquarters... nearly 85% of weapons released by UK aircraft were precision-guided, a figure which would tend to corroborate effort to minimize casualties". Insomma, si sarebbe trattato di ... bombe intelligenti!

Conclusione, passibile di riesame in caso di nuove allegazioni: "the available information did not provide a reasonable basis to believe that a crime within the jurisdiction of the Court had been committed".

Il Procuratore ravvisa invece l'esistenza di altri crimini che rientrano nella giurisdizione della Corte, in particolare "uccisioni deliberate" (art. 8 (2) (a) (i)) e "trattamenti disumani" (art. 8 (29 (a) (ii), per un totale di meno di venti persone colpite. Ma neanche in questo caso egli ritiene di poter procedere per l'inesistenza di requisiti di ammissibilità relativa alla gravità dei crimini commessi, che non sarebbero attuazione di un disegno generalizzato e sistematico, pur riconoscendo che l'art. 8.1 dello Statuto non richiede in modo espresso tale condizione.

Se pure, aggiunge il Procuratore, si ritenesse applicabile la disposizione appena citata, difetterebbero in ogni caso i requisiti di "generale gravità" previsti dall'art. 53 (1) (b), quali il numero delle vittime di uccisioni deliberate e stupri. Ciò parrebbe esimere l'ufficio da indagini ulteriori relativamente al requisito della complementarietà, anche se il Procuratore si premura di precisare che "national proceedings had been initiated with respect to each of the relevant incidents".



4. In definitiva, il bilancio della Corte non appare per nulla soddisfacente per motivazioni che attengono non solamente ad essa ma al clima politico generale che vede oggi un sostanziale arretramento dei livelli di diritto e giustizia internazionale conseguibili.

In altre parole, i risultati fin qui conseguiti vanno attribuiti in buona misura alle stesse cause di fondo che determinano la crisi di fondamentali principi di diritto internazionale quali il non-ricorso alla forza e l'eguaglianza sovrana tra gli Stati, come pure producono la violazione dei diritti umani fondamentali.

Vale a dire, il processo di attuazione dell'ambizioso programma tracciato a Roma è entrato in oggettiva contraddizione con la struttura di potere vigente all'interno della comunità internazionale. Appare illusorio, da tale punto di vista, ottenere la fine dell'impunità dei crimini degli individui, specie se si tratti, come nel caso della Corte, di crimini quali quelli di genocidio, contro l'umanità e di guerra, senza mettere al tempo in stesso in discussione la condotta degli Stati. Ciò vale evidentemente in modo ancora più rafforzata per quanto riguarda i crimini di aggressione, che sono crimini di Stato per eccellenza e pratica necessità.

Tale aspetto è colto da Madeline Morris:

"Such crimes often are committed by or with the approval of governments. It is unlikely that a government sponsoring such crimes would consent to the prosecution of its national for his or her participation. Therein lies the problem with an international criminal that may exercise jurisdiction only if the defendant's state of nationality consents. The very states that are most likely to be implicated in serious international crimes are the least likely to grant jurisdiction over their nationals to an international court".

Tale presa di posizione evoca beninteso problemi teorici e pratici di enorme portata, mettendo in causa in sostanza il contrattualismo che costituisce tuttora, per motivi ovvi e non sempre necessariamente negativi il principale filone ideologico vigente nella comunità internazionale.

Vi sono però, a ben vedere, altri fattori all'opera e non può essere trascurato quello costituito dall'opinione pubblica internazionale che reclama con crescente consapevolezza e intensità la punizione di ogni crimine, da chiunque compiuto, fosse esso pure il massimo governante della più forte potenza mondiale.

La magistratura, a tutti i livelli, qualora essa riesca, come a volte avviene, ad essere effettivamente indipendente dal potere politico dominante, può ben farsi portavoce e strumento di tale consapevolezza, come dimostrato, per limitarsi a due casi recenti, dalla pronuncia della Corte suprema statunitense contro il campo di Guantanamo e dall'iniziativa della procura di Milano contro i rapitori di Abu Omar.

Ciò risponde del resto a linee di evoluzione più generali dello stesso diritto internazionale in genere e della sua applicazione, se è vero che "la vita moderna è, come tutti possono constatare, sempre più dominata dall'internazionalismo; sul piano giuridico tale caratteristica si traduce nella tendenza a trasferire dal piano nazionale a quello dell'ordinamento internazionale la disciplina dei rapporti economici, commerciali, sociali; queste materie sono infatti sempre più regolate da convenzioni internazionali, cioè da quelle che possono considerarsi come la categoria più importante e più numerosa di norme internazionali. Il diritto internazionale, per intenderci, è sempre meno un diritto per diplomatici e sempre più un diritto destinato ad essere amministrato e applicato ... dagli operatori giuridici interni, in primo luogo dai giudici nazionali".

Quelli che si è soliti chiamare "i rapporti di forza" pregiudicano quindi pesantemente l'operato della giurisdizione penale internazionale. Per non soccombere a un fatuo determinismo occorre però protestare contro tale stato di cose, chiedendo in particolare al Procuratore e ai giudici che fanno parte della Corte di non farsi condizionare dal clima politico imperante e di operare, come richiede la loro missione, per l'effettiva e imparziale applicazione del diritto e la repressione dei crimini. Un maggiore coraggio da parte degli organi competenti, cui come è accennato un potere davvero non trascurabile, sarebbe da questo punto di vista estremamente raccomandabile, anche solo per evitare di dare l'impressione che si tratti di una giurisdizione sostanzialmente soggetta al volere delle grandi potenze, anche se paradossalmente estranee al sistema instaurato dallo Statuto.

L'eccessiva discrezionalità concessa al Procuratore da alcune disposizioni dello Statuto che abbiamo citato andrebbe forse limitata, al fine di evitare di esaltare la politicità dell'organo. Concetti come la "genuina" non-volontà o incapacità di procedere da parte degli Stati o la "gravità" degli atti commessi necessitano in questo senso di una maggiore elaborazione e precisazione.

Occorre d'altronde anche chiedere agli Stati che non l'hanno ancora fatto di firmare e ratificare il Trattato istitutivo conferendogli una portata effettivamente universale e di dare compimento al disegno originario procedendo in particolare alla criminalizzazione degli atti di aggressione, come pure neutralizzare i tentativi degli Stati che si sono posti al di fuori del sistema di immunizzarsi nei suoi confronti stipulando inaccettabili accordi di deroga alla giurisdizione della Corte penale internazionale. Va fatto riferimento, a tale proposito, alla vera e propria campagna scatenata dall'amministrazione Bush contro la Corte. Evidentemente consapevole dell'eventualità di intervento della Corte per vari crimini rimasti a tutt'oggi sostanzialmente impuniti, il governo statunitense ha del resto mirato ad evitare in ogni modo la possibilità che suoi agenti, di vario livello, vengano tradotti di fronte alla Corte penale internazionale. Anche a tali fondamentali riguardi potrà risultare decisiva la mobilitazione della società civile organizzata che reclama imparzialità e giustizia.

In conclusione, bisogna davvero essere convinti, con Giovanni Conso, che a Roma nel 1998 è stato compiuto un passo fondamentale. Vero è che la via è ancora lunga e piuttosto accidentata. Ma molto, se non tutto, dipende da noi. Per dirla con Giuseppe Bronzini, nella recensione all'importante libro di Danilo Zolo, "La giustizia dei vincitori": "la strategia dei diritti umani con la progressiva codificazione di uno jus cogens sanzionabile da parte di Corti (indipendenti, permanenti ed autonome) sovra-nazionali rimane una prospettiva che potrebbe non essere solo una via di fuga utopistica dagli orrori delle guerre 'umanitarie' se verrà accompagnata da una più convinta determinazione della società civile mondiale, e che, d'altra parte, costituisce l'esatto opposto di quei processi che sono stati costruiti secondo modelli che difettano di quei requisiti di imparzialità e terzietà, senza i quali - come ricorda Zolo - è improprio parlare di 'giurisdizione' in senso moderno".

Va detto, in ultima analisi, che, come afferma lo scrittore cubano citato, che le norme relative alla Corte penale internazionale non potranno essere rese effettive senza la collaborazione degli Stati sovrani, ma l'opinione pubblica internazionale, con le sue fondamentali articolazioni interne, costituisce un fattore imprescindibile in questo senso, data la capacità di operare pressioni ed ottenere mutamenti che essa possiede. Occorre se ne rendano conto al più presto procuratori e giudici della Corte, innestando un virtuoso dinamismo sinergico volto ad ottenere finalmente la realizzazione dei diritti umani fondamentali anche mediante la punizione di coloro che si rendono responsabili di loro gravi violazioni.

 
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