Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
Rapporto sui diritti globali 2006 :: Studi per la pace  
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Versione integrale
Rapporto sui diritti globali 2006
Paper

EsTratto da
Rapporto sui diritti globali 2006
a cura di Associazione SocietàINformazione
(c) Ediesse, Roma, 2006 (pp. 655 ss)
www.dirittiglobali.it

Il rapporto può essere acquistato in libreria, oppure richiesto direttamente alla casa editrice scrivendo a ediesse@cgil.it o, ancora, sul catalogo on line sub www.ediesseonline.it.
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Documento aggiornato al: 2006

 
Sommario

Insuccesso angloamericano in Iraq e internazionale in Afghanistan, terremoto politico nella situazione israelopalestinese, aumento rilevante delle azioni terroristiche a vari livelli, escalation della crisi politica internazionale con l'Iran, protrarsi di alcuni conflitti di lungo corso: questi, in estrema sintesi, gli elementi più significativi dell'ultimo anno sullo scenario internazionale.

 
Indice dei contenuti
 
I TROPPI FALLIMENTI DELLA "GUERRA AL TERRORE"
Il drammatico "pantano" iracheno
I costi reali per gli USA della guerra in Iraq (omesso)
La "democratizzazione" afghana Crisi israelopalestinese: un "terremoto" politico pieno di incognite
Rapporto Economia a mano armata 2006 (omesso)
La complessa questione del nucleare iraniano
Terrorismo islamico sempre più diffuso e variegato
Il reclutamento di terroristi in Europa (omesso)

GLI ALTRI CONFLITTI
Cecenia e Colombia: drammatici esempi di crisi protratte
La verità nascosta della strage di Beslan (omesso)
La continua instabilità africana
Le crisi dell'Asia meridionale e orientale Italia: uranio impoverito "assolto" dalla CommissioneLA

TRAPPOLA DELLA GUERRA INFINITA
(...)
L'importanza del Warfare
Rafforzare il sistema ONU e porre fine alle ipocrisie
 
Abstract
 

Insuccesso angloamericano in Iraq e internazionale in Afghanistan, terremoto politico nella situazione israelopalestinese, aumento rilevante delle azioni terroristiche a vari livelli, escalation della crisi politica internazionale con l'Iran, protrarsi di alcuni conflitti di lungo corso: questi, in estrema sintesi, gli elementi più significativi dell'ultimo anno sullo scenario internazionale. Posizioni e interpretazioni varie e divergenti su ognuno di questi capitoli non possono comunque negare l'evidenza, cioè che da tali questioni deve partire qualsiasi analisi sulla situazione internazionale, perché dai loro sviluppi e dagli interventi che in tali ambiti saranno adottati dipende gran parte della fragile e incerta stabilità mondiale. Certo, si tratta solo dei problemi più rilevanti in un quadro globale che conta attualmente circa 20 conflitti armati, più una serie di varie altre aree di crisi. L'approssimazione quantitativa è dovuta alle continue evoluzioni dei tentativi di pacificazione, delle nuove tensioni e dei rigurgiti di conflitto in alcune regioni dove sono stati siglati accordi di pace o di cessate il fuoco. Un dato rilevante e inquietante, conseguenza evidente delle crescenti tensioni internazionali degli ultimi anni, è la generale corsa al riarmo. Nel 2005 le spese militari mondiali hanno superato i 1000 miliardi di dollari, cioè solo il 6% in meno di quanto fu speso tra il 1987 e il 1988, periodo che segnò il picco più alto nella storia delle spese militari mondiali allora fortemente alimentate dalla Guerra fredda.

Le guerre in Afghanistan e Iraq, che hanno fallito nella pacificazione dei due Paesi e nel debellare il terrorismo, un risultato l'hanno sicuramente ottenuto: la crescita senza precedenti della spesa militare statunitense, che sfiora i 500 miliardi di dollari costituendo il 47% del totale della spesa mondiale, e un aumento delle spese militari in tutte le regioni del mondo, con una crescita globale del 23% negli ultimi 10 anni. Così, mentre le crisi afghana e irachena sono tutt'altro che risolte, mentre l'Iran non intende rinunciare al nucleare e mentre Cina e Russia svolgono esercitazioni militari congiunte, la spesa militare complessiva equivale a circa il 2,6% del Prodotto mondiale lordo e, facendo una media tra la popolazione mondiale, per ogni abitante del pianeta si spendono almeno 162 dollari in armamenti. Certo, le differenze sono rilevanti tra i 1627 dollari pro capite spesi in Israele o i 1533 spesi negli USA e invece i 27 dollari pro capite spesi in Cina e i 14 in India, ma è la tendenza generale a destare preoccupazione. Non certo per l'industria degli armamenti: i 100 maggiori produttori mondiali hanno incrementato le loro vendite del 25% nel solo periodo 20022003 (vedi la scheda "Cresce la spesa per gli armamenti nel mondo"). Nell'ambito della generale corsa al riarmo si registra anche una tendenza che si credeva ormai superata: il riarmo nucleare. Oltre alla cosiddetta "proliferazione orizzontale", cioè il tentativo di un numero crescente di Paesi di accedere ad armamenti nucleari, è in corso anche una preoccupante "proliferazione verticale", che riguarda lo sviluppo qualitativo di testate nucleari e vettori da parte di Paesi che già posseggono armi nucleari. Si stanno infatti studiando le mininukes, ordigni nucleari di potenza ridotta utilizzabili in conflitti regionali, cosa che stravolgerebbe la tradizionale distinzione tra armi nucleari e armi convenzionali (vedi la scheda "Riarmo nucleare e nuove minacce"). Altro risultato della "guerra al terrorismo" è stata la moltiplicazione delle attività terroristiche, cosa che segna il completo fallimento della strategia, ammesso che il suo reale obiettivo fosse quello di debellare il fenomeno riducendone l'organizzazione e le attività.

L'Iraq è divenuto la nuova "fucina" della Jihad internazionale, prendendo il posto dell'Afghanistan dei taliban, anche perché "palestra" migliore per coloro che vogliono esercitarsi direttamente nel conflitto anziché in semplici campi d'addestramento. Mentre si sta diffondendo una "nuova generazione" di jihadisti, veri e propri free lance del terrorismo per i quali Al Qaeda rappresenta semplicemente un riferimento ideologico o simbolico. Infine, oltre alla tragica evidenza dei costi umani, con decine di migliaia di vittime, e l'assurdità dei costi economici (10002000 miliardi di dollari stimati dall'economista Joseph Stiglitz per la sola guerra in Iraq, come si dirà di seguito), questa "guerra al terrorismo" ha segnato un altro enorme fallimento relativo alla "democratizzazione" del Medio Oriente. Le affermazioni politiche di Hamas in Palestina, dei Fratelli musulmani in Egitto, di Hezbollah in Libano, dei partiti religiosi sciiti e sunniti in Iraq, degli ultraconservatori khomeinisti in Iran e l'inserimento di fatto della sharia nella nuova Costituzione afghana, dimostrano come l'imposizione armata della democrazia nella regione abbia ottenuto il risultato opposto: si sono rafforzate le "formazioni che non credono alla democrazia come valore ma come mezzo per raggiungere un preciso fine: la fondazione di uno Stato islamico" osserva il sociologo studioso di Islam Renzo Guolo, secondo cui la questione non è se democratizzare ma come farlo. "L'errore dei neocon e di Bush è stato quello di pensare che l'esportazione della democrazia, con le armi o mediante ingiuntive pressioni sui Paesi alleati [...], potessero automaticamente far primeggiare forze democratiche. Così non è stato. Un realistico bilancio della democratizzazione del mondo islamico appare oggi in rosso: a beneficiarne sono stati innanzitutto gli islamisti" (Guolo, 2006 a). Ed era prevedibile, perché come nota il politologo Ralf Dahrendorf, "raramente una consultazione elettorale basta a risolvere problemi fondamentali. Di per sé le elezioni non creano un ordinamento liberale. [...] Al contrario, la democrazia è un'impresa di lungo respiro", che non nasce certo da bombardamenti e umiliazioni, ma piuttosto da un tessuto sociale oggi soffocato da violenze, autoritarismi e fondamentalismi (Dahrendorf, 2006).

In un simile quadro internazionale, poi, continua a latitare l'ONU, fortemente indebolito dalla vicenda irachena (sia dalla guerra, con la decisione unilaterale angloamericana, sia dallo scandalo Oil for food), in stallo al Summit del settembre 2005 e in varie situazioni mondiali e ora messo a dura prova dalla crisi apertasi con l'Iran. Certo, è difficile immaginare un ruolo diverso e più incisivo dell'ONU se l'ambasciatore del suo membro più importante, gli USA, è un personaggio come John Bolton che dichiara: "Le Nazioni Unite non esistono. Esiste una comunità internazionale che in certe occasioni può essere guidata dall'unica vera potenza mondiale - gli USA - quando fa comodo ai nostri interessi e quando riusciamo a convincere gli altri a seguirci" (Weinberger, 2006).

Il drammatico "pantano" iracheno

Il 18 marzo 2006 ha segnato il terzo anniversario dell'inizio della guerra in Iraq e il 1° maggio i tre anni da quando il presidente statunitense George W. Bush definì "compiuta" la missione irachena. Le ragioni che portarono all'attacco angloamericano (le armi di distruzione di massa detenute dal regime di Saddam Hussein) si sono dimostrate totalmente false per ammissione degli stessi governi statunitense e britannico, tanto da portare nei primi mesi del 2006 il Congresso USA a paventare la possibilità di impeachment per il presidente, mentre le modalità unilaterali di decisione, con noncuranza del sistema ONU e conseguente spaccatura della comunità internazionale, saranno ricordate nella Storia come uno dei massimi esempi di pessime pratiche nelle relazioni internazionali. Eliminato il regime di Saddam Hussein e avviato il processo di democratizzazione, con elezioni e nuovi Parlamento e governo, si notava una tendenza generale a superare le divisioni e i contrasti internazionali che avevano preceduto l'attacco bellico per concentrarsi sui risultati ottenuti con l'operazione militare, una sorta di ricerca comune di raggiungere il fine ampiamente condiviso (democratizzazione del Paese) "dimenticando" i mezzi utilizzati per perseguirlo.

Tre anni dopo, però, la situazione dell'Iraq è talmente grave che chi era contrario all'intervento si guarda bene dal contribuire in qualche modo a una soluzione, coloro che avevano costituito la cosiddetta "coalizione dei volenterosi" fanno a gara a chi si defila prima, mentre i governi (e gli eserciti) di USA e Regno Unito sono rimasti col "cerino in mano" e un dilemma tragico: se continuano l'occupazione non faranno che accrescere le ragioni della guerriglia e dunque aumentare le perdite di uomini, con conseguente diminuzione dei già bassi consensi interni; se abbandonano l'Iraq lasciano un Paese in condizioni economicosociali drammatiche e sull'orlo della guerra civile, dichiarando così il fallimento della loro missione. Un'operazione dunque, quella dell'invasione dell'Iraq, iniziata male, proseguita peggio e di cui al momento non si riescono a definire i risvolti futuri. L'unica certezza, dopo tre anni, è un bilancio fallimentare che non deriva da un giudizio o un'opinione ma che è un dato oggettivo.

Risulta piuttosto significativo a questo proposito un recente studio pubblicato dal quotidiano statunitense "The New York Times", che mette a confronto alcuni dati relativi allo stesso mese dei 3 anni di guerra: tra il febbraio 2004 e il febbraio 2006

ü è più che raddoppiato il numero di soldati americani morti (21 nel febbraio 2004 e 54 nello stesso mese del 2006), il numero dei soldati iracheni morti (65 contro 158) e quasi quadruplicato quello delle vittime civili (280 contro circa 1000);
ü il numero di ribelli stimato nel febbraio 2004 era di 5000, nel febbraio 2006 di 18.000, mentre i ribelli stranieri erano stimati in 400 nel 2004 e sono stimati in 1300 oggi;
ü la media degli attacchi giornalieri della guerriglia era di 21 nel febbraio 2004 ed è di 75 nello stesso mese del 2006, mentre le autobomba sono passate da 10 a 22 (erano però state 65 nel febbraio 2005);
ü la produzione di petrolio è diminuita dai 2,3 milioni di barili al giorno nel febbraio 2004 (era di 2,5 milioni prima della guerra) a 1,8 milioni nel 2006 e quella di energia elettrica da 4100 megawatt del 2004 ai 3700 del 2006;
ü il tasso di disoccupazione è leggermente diminuito ma è rimasto ampiamente al di sopra del 30%, mentre la percentuale di iracheni favorevoli al ritiro delle truppe angloamericane è passata dal 30% del febbraio 2004 all'87% del 2006;
ü a fronte di tutto ciò, la spesa americana per aiuti è cresciuta da 0,1 a 13,4 miliardi di dollari nei due mesi di riferimento (Kamp, O'Hanlon, 2006).

Alla fine di marzo 2006, il numero complessivo di soldati americani morti dall'inizio della guerra supera i 2300 (circa 16.000 i feriti, di cui quasi la metà con lesioni che non permettono loro di tornare in servizio), mentre quello dei civili iracheni è stimato tra i 34.000 e i 38.000 ma con una recrudescenza impressionante: una media di 20 civili iracheni morti ogni giorno nel primo anno di guerra, salita a 31 nel secondo anno e addirittura a 36 nel terzo (Iraq Body Count, 2006). Senza contare le decine di persone che ogni giorno restano ferite dalle violenze. Oltre all'enorme insicurezza e alla disoccupazione dilagante, va segnalata anche la grave condizione dei bambini iracheni: da due Rapporti pubblicati dall'ONU tra la fine del 2005 e l'inizio del 2006, emerge che i bambini sono denutriti, non frequentano la scuola e sono traumatizzati dalla guerra, cosa che compromette pesantemente il futuro del Paese. Intervistato il 19 marzo 2006 dall'emittente britannica BBC, l'ex premier ad interim iracheno Iyad Allawi ha dichiarato: "Ogni giorno perdiamo in media da 50 a 60 persone nel Paese, se questa non è una guerra civile allora solo Dio sa cosa sia una guerra civile".

E, in effetti, il Paese è tornato a essere fortemente diviso su base etnicoconfessionale e la tensione tra sciiti e sunniti è altissima, soprattutto dopo l'ennesimo grave attentato verificatosi a Samarra il 22 febbraio 2006, che ha devastato vari luoghi di culto sciiti causando circa 200 vittime. I sunniti, per ora di fatto esclusi e autoesclusisi dal "governo" del Paese, con il sistema federalista in costruzione rischiano di essere emarginati dalla spartizione dei proventi del petrolio rispetto a sciiti e curdi che abitano le province più ricche di greggio, e sono i più attivi sul fronte della guerriglia appoggiati da numerosi sunniti stranieri giunti in Iraq per combattere la Jihad. Gli sciiti controllano invece settori importanti di governo, tra cui quel ministero dell'Interno che dovrebbe garantire l'ordine pubblico e invece ha organizzato veri e propri squadroni della morte e carceri segrete contro i sunniti, col risultato di crimini inauditi, maltrattamenti e torture.

Dopo decenni di isolamento, nonostante costituiscano la maggioranza del Paese (60%), gli sciiti sono ora al potere in Iraq ma tuttavia divisi al loro interno tra i più disponibili alla collaborazione con gli angloamericani (che di fatto li hanno "portati" al potere) e coloro che invece auspicano il ritiro immediato della Coalizione, mirando alla creazione di un asse regionale politicoreligioso con l'Iran. E proprio l'Iran pare essere in prospettiva futura il primo beneficiario della guerra irachena (forse anche per questo è ora nel mirino degli americani): dopo un viaggio del Primo ministro iracheno Ibrahim al Jaafari a Teheran nel luglio 2005 che ha aperto "un capitolo nuovo" nei rapporti tra i due Paesi, secondo le dichiarazioni delle due parti, in novembre si è svolta la prima visita ufficiale di un presidente iracheno in Iran degli ultimi 40 anni, così Jalal Talabani ha incontrato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e l'ayatollah Khamenei, i quali si sono impegnati ad aiutare l'Iraq nella ricostruzione e nella pacificazione nazionale.

Anche i curdi, finora la comunità più tranquilla perché forte dell'autonomia ottenuta nella parte settentrionale del Paese, mostrano segnali d'insofferenza: la commemorazione del massacro di Halabja (migliaia di curdi uccisi nel 1982 dai bombardamenti chimici voluti dal regime di Saddam Hussein), il 16 marzo 2006, si è trasformata per la prima volta in manifestazione di protesta contro i rappresentanti politici curdi, accusati di inconcludenza nelle trattative di Baghdad, ed è stata repressa violentemente dalla polizia. Tra l'altro, secondo rivelazioni del quotidiano israeliano "Yediot Ahronot" del 1° dicembre 2005, nel nord curdo sarebbero presenti decine di consiglieri militari israeliani per addestrare le milizie del futuro miniStato curdo, che con il supporto statunitense e israeliano dovrà controllare i ricchi giacimenti settentrionali di petrolio, sottraendone la gestione al governo centrale di Baghdad. Nel caos generale, le varie comunità si organizzano costituendo milizie di autodifesa, il tasso di violenza cresce insieme a faide e vendette (centinaia di cadaveri sono stati trovati con segni di torture e sevizie, vittime di esecuzioni sommarie), sono alti i rischi di una guerra civile mentre Parlamento e governo, nati dal processo di democratizzazione voluto dagli angloamericani (vedi la scheda "Il processo democratico in Iraq e Afghanistan"), non riescono ad avere alcun controllo della situazione anche perché faticano a trovare accordi al loro interno.

Oltre alle divisioni etnicoreligiose e politiche, aumentano le attività terroristiche: nel Paese sono attivi centinaia di jihadisti di varie nazionalità (sauditi, marocchini, giordani, yemeniti, ecc.) e in un Rapporto della CIA si legge: "Ormai l'Iraq ha preso il posto dell'Afghanistan come campo di addestramento per la prossima generazione di "professionisti" del terrore. [...] La guerriglia urbana permette ai combattenti di perfezionare le tecniche di assassinio, rapimento, fabbricazione di autobomba e altri tipi di azione che erano poco praticati in Afghanistan" (Weinberger, 2006). A ciò si aggiunga il comportamento degli occupanti, perché è pur vero che di guerra si tratta, ma è altrettanto vero che le Convenzioni internazionali considerano "crimini di guerra" alcune pratiche, ancor più inaccettabili se attuate da chi si arroga il compito di "portare la democrazia": arresti arbitrari, diffusi e sistematici maltrattamenti e torture, rappresaglie contro civili (come denunciato nel marzo 2006), utilizzo di armi non convenzionali quali napalm e fosforo bianco (come dimostrato dall'inchiesta di RAI News24, vedi Box nelle Prospettive). Di fronte agli scarsi risultati ottenuti, poi, l'Amministrazione statunitense ha speso 100 milioni di dollari per la propaganda a favore della guerra, comprando spazi sui giornali iracheni e stipendiando alcuni giornalisti compiacenti (Weinberger, 2006).

Insomma, un disastro generale con una guerra che, oltre agli enormi costi umani di cui si è detto, ha costi economici elevatissimi, stimabili in circa 200 milioni di dollari al giorno. Secondo uno studio del premio Nobel per l'economia Joseph E. Stiglitz e della ricercatrice Linda Bilmes, reso noto a inizio 2006, i tre anni di guerra in Iraq sono costati agli USA una cifra stimabile tra i 1000 e i 2000 miliardi di dollari, tenendo conto delle spese di guerra e di quelle a essa correlate (vedi box, omesso in questa versione online, n.d.r.), mentre la spesa militare complessiva degli Stati Uniti (compresa quella per i servizi segreti) nell'anno fiscale 2006 supera i 600 miliardi di dollari, cioè un quarto del bilancio federale (Dinucci, 2005). La domanda, non retorica ma logica e opportuna che pongono Stiglitz e Bilmes è la seguente: esisteva un altro modo di spendere anche solo una parte di questi soldi, per rafforzare veramente la sicurezza, incrementare il benessere e incoraggiare la democrazia?

La "democratizzazione" afghana

In simbiosi con l'Iraq si trova l'altro Paese "democratizzato" con i bombardamenti nell'ambito della cosiddetta "guerra al terrorismo", cioè l'Afghanistan. A differenza di quanto avvenuto in Iraq, l'intervento militare contro il regime dei taliban e la roccaforte di Al Qaeda era stato largamente condiviso dalla comunità internazionale, autorizzato dall'ONU, mentre la Coalizione incaricata di normalizzare il Paese è ben più variegata di quella presente in Iraq e ha iniziato il lavoro un anno prima. A fronte di tutto ciò, seppur con varie differenze rispetto a quella irachena, la situazione attuale dell'Afghanistan è altrettanto fallimentare. Anche in questo caso, infatti, allo scontato successo immediato dell'intervento militare, data l'enorme disparità delle forze in campo, non è seguita un'adeguata preparazione e attuazione del dopoguerra, tanto che quattro anni dopo la guerra non è ancora finita. Alla fine di marzo 2006 si registrano ancora attacchi quotidiani alle forze della Coalizione internazionale presenti nel Paese, mentre il processo di democratizzazione conclusosi ufficialmente con le elezioni del settembre 2005 e tanto propagandato dai media internazionali sembra pura fiction rispetto alla realtà (vedi la scheda "Il processo democratico in Iraq e Afghanistan", omessa in questa versione online, ndr).

Continuano gli scontri con la guerriglia dei taliban e resta incontrastato il predominio delle bande armate al servizio dei cosiddetti "signori della guerra" e dei trafficanti di oppio, la cui produzione rappresenta l'87% del mercato mondiale. Secondo il giornale telematico "AsiaTime", almeno 500 guerriglieri si muovono attualmente in Pakistan, dopo aver fatto un training in Iraq, pronti a mirare verso obiettivi come Kabul. La "guerra strisciante" continua e non si può nemmeno attribuirne tutta la responsabilità agli afghani, come spiega il giornalista Emanuele Giordana: "Utilizzati come massa di manovra, sia da Al Qaeda che dal "grande gioco" della Guerra fredda o dell'era che l'ha seguita, questi fieri pastori e montanari dell'Hindukush si ritrovano in guerra da almeno una trentina d'anni. Popolo combattivo e difficile da sottomettere, furono la spina nel fianco della grande URSS ma si trovarono poi impelagati in una guerra che fu giocata in proprio da ogni fazione, diventando ben presto fratricida.

Difficile dunque che potesse germogliare su quel brodo di coltura il germe della democrazia come noi la intendiamo" (Giordana, 2006). Secondo i dati raccolti dalla rete pacifista Peacereporter, che in Afghanistan ha l'importante "antenna" di Emergency, l'intervento armato angloamericano del 2001 ha causato la morte di 14.000 afghani (almeno 10.000 combattenti e circa 4000 civili), mentre il numero delle persone morte per malattie e fame in seguito al conflitto è stimabile tra 15.000 e 20.000; altre 5000 persone sono morte a causa di combattimenti e attentati verificatisi nei tre anni di "dopoguerra", mentre nel solo 2005 la guerra "finita" dell'Afghanistan ha ucciso oltre 1900 persone (almeno 1047 taliban, 415 militari afghani, 321 civili afghani, 97 soldati statunitensi, 17 spagnoli, 15 tedeschi, 5 britannici, 4 canadesi, 3 italiani, 3 francesi, un danese, uno svedese, un australiano, un rumeno, un norvegese e un portoghese); nei primi due mesi e mezzo del 2006, poi, i morti sono stati almeno 342: 89 civili, 71 taliban, 166 militari afghani e 13 soldati statunitensi (molti di più secondo i guerriglieri), 2 canadesi e un francese. In ambito sociale, economico e culturale la situazione è altrettanto grave. La malnutrizione è diffusa e colpisce quasi la metà della popolazione infantile, un bambino su 7 rischia di morire nel primo anno di vita e il 20% circa muore entro i cinque anni d'età, mentre secondo ammissione del comando militare americano è ripreso l'arruolamento di minori tra le varie milizie, soprattutto nel sud. Resta grave la condizione femminile in un Paese che, secondo l'UNICEF, è "forse l'unico al mondo in cui le donne muoiono prima degli uomini", solo il 14% di esse è alfabetizzato e la frequenza alla scuola secondaria non raggiunge il 10% (Losciale, 2005); le donne adultere vengono detenute o frustate e lapidate dagli stessi familiari, in base a sentenze dei tribunali religiosi delle zone rurali e tollerate dalle autorità statali.

Le autorità locali possono decidere di vietare alle donne di vestire in modo diverso da quello tradizionale, di andare dal parrucchiere o cantare in televisione; sono tollerate usanze quali la "gambizzazione" delle donne che mancano di rispetto al marito o lo stupro a titolo di risarcimento per un torto praticato da loro familiari (Piovesana, 2006).

Inoltre, la Corte Suprema è presieduta da un fondamentalista e persino la nuova Costituzione sancisce che nessuna legge può essere in contrasto con la sharia. Anche la recente vicenda di Abdul Rahman (condannato a morte per apostasia perché convertitosi al cristianesimo) e le reazioni popolari, fomentate dal Consiglio supremo dei taliban, contro la decisione del governo Karzai (sottoposto a forti pressioni internazionali) di scarcerarlo e permettergli di ottenere l'asilo politico in Italia, dimostra quanto il livello democratico del Paese sia ancora decisamente insufficiente. Come constata amaramente il giornalista di Peacereporter Enrico Piovesana, "in un Paese povero, arretrato, imbarbarito da 25 anni di guerra, con una cultura tradizionalista molto radicata e una mentalità religiosa estremamente rigida com'è l'Afghanistan, è impensabile, assurdo pretendere di "portare la democrazia", di importarla, di impiantarla scavando una buca con le bombe e annaffiandola con dollari e schede elettorali" (Piovesana, 2006).


Crisi israelopalestinese: un "terremoto" politico pieno di incognite

L'infinita crisi israelopalestinese ha assunto caratteristiche inimmaginabili solo un anno fa, trasformando completamente lo scenario e gli equilibri dell'intera regione. I maggiori elementi di novità sono iniziati nell'estate 2005, con il completamento del ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia di Gaza e l'evacuazione di tutte le 21 colonie di Gaza e di 4 in Cisgiordania, operazione che ha riguardato complessivamente 9200 coloni israeliani, di cui 8000 residenti a Gaza. Molto contestata, oltre che dai coloni stessi, da alcune forze sociali e politiche in Israele, la decisione unilaterale presa dall'allora premier Ariel Sharon ha ottenuto invece un generale consenso a livello internazionale, anche da parte del "quartetto" (ONU, USA, UE e Russia) che aveva promosso la cosiddetta Road Map basata sul negoziato tra le parti e che escludeva iniziative unilaterali. L'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), invece, pur congratulandosi col governo israeliano per il successo dell'operazione, definiva il ritiro da Gaza "solo un buon inizio", ricordando che nei Territori occupati della Cisgiordania ci sono ancora 120 insediamenti per un totale di circa 240.000 coloni israeliani. La rinuncia a Gaza, così come al sogno del Grande Israele, è stata dettata soprattutto da ragioni demografiche: "Non si possono dominare 1,3 milioni di palestinesi che vivono a Gaza, incorporarli in Israele, finendo per diventare poi minoranza nello Stato" sostiene il demografo israeliano Sergio Della Pergola, sottolineando che mentre la parte ebraica cresce quasi all'1,3%, quella palestinese registra ritmi di crescita più che doppi, cioè oltre il 3%. "Questo significa che c'è un'inversione nelle proporzioni" osserva il demografo, secondo cui "demograficamente il ritiro da Gaza per Israele è come una boccata di ossigeno per un paio di decenni" (Scuto, 2005).

La strategia di Sharon era piuttosto chiara, dettata dal suo noto decisionismo riluttante a negoziati e trattative (tanto da non aver mai riconosciuto valore alla Road Map, nonostante le pressioni di USA e UE): ritiro dalla Striscia di Gaza per l'insostenibilità dei costi e dei rischi derivanti dal controllo dell'area e dalla difesa della sicurezza dei coloni; parziale ritiro da alcune zone della Cisgiordania e contemporanea espansione in altre (in contrasto con la Road Map è continuata per tutto il 2005 la costruzione di nuovi insediamenti israeliani nella regione, che sono ormai quasi 150, a cui si aggiungono oltre 100 avamposti, cioè nuclei abitativi costruiti dai coloni in attesa che siano riconosciuti quali insediamenti, e dunque legali, dal governo israeliano); conclusione della costruzione del muro di separazione il cui percorso, ufficialmente giustificato da motivi di sicurezza, assicura l'annessione di territori rivendicati dai palestinesi (vedi la scheda "Il muro della vergogna"). Sharon intendeva così mettere palestinesi e comunità internazionale di fronte a un fatto compiuto, prendere o lasciare, decidendo unilateralmente la definizione dei due Stati con buona pace per le rivendicazioni dei palestinesi, al massimo qualche minima concessione. Intanto, sono continuati i raid "mirati" israeliani e sono ripresi gli attacchi di gruppi palestinesi, nel solito circolo vizioso di violenze che in 5 anni e mezzo (la seconda Intifada è iniziata il 28 settembre 2000) ha causato circa 5000 morti, di cui oltre 3800 palestinesi. Di fronte a condizioni economicosociali sempre più drammatiche, all'affermazione dell'unilateralismo israeliano senza speranze per le rivendicazioni palestinesi e a prospettive totalmente negative, è cresciuta la protesta e la rabbia palestinese contro la classe dirigente dell'ANP. Gaza, senza più la presenza del nemico israeliano e con le forze di sicurezza palestinesi in seria difficoltà, si è così trasformata in una specie di "prigione a cielo aperto" (perché comunque agli israeliani è rimasto il totale controllo dei confini) in situazione di semianarchia.

La cosa ha ulteriormente indebolito la classe dirigente palestinese, già precaria senza più la figura carismatica di Yasser Arafat, rafforzando sull'altro fronte la posizione di Sharon, secondo cui l'ANP era debole e non in grado di governare il popolo palestinese, quindi inaffidabile per l'avvio di negoziati. In questo clima si è giunti a novembre, quando si è innescato un rapido e inaspettato processo di trasformazioni politiche su entrambi i fronti, che ha creato una situazione del tutto nuova ma non per questo meno complessa (vedi la scheda "Crisi israelopalestinese: il terremoto politico").

Alle elezioni primarie del partito laburista israeliano Amir Peretz ha sconfitto Shimon Peres, diventando segretario del partito e decidendo di abbandonare la coalizione di governo in cui i laburisti erano alleati al Likud di Sharon. Il 21 novembre Sharon si è dimesso da premier e ha addirittura lasciato il Likud (in tensione per il ritiro da Gaza), annunciando la formazione di un nuovo partito di centro denominato Kadima ("Avanti", in ebraico). La componente più liberale del Likud ha deciso di seguirlo nel nuovo partito, così come l'ex laburista Peres, mentre venivano fissate elezioni anticipate per il 28 marzo 2006. Poco dopo aver lanciato la nuova sfida politica, però, Sharon si è ammalato gravemente uscendo improvvisamente di scena, e il suo posto alla guida del governo in scadenza e della nuova formazione politica è stato preso dal suo stretto collaboratore Ehud Olmert, figura però meno carismatica del suo predecessore. Sul fronte palestinese, il 25 gennaio 2006 si sono svolte le elezioni politiche che, contro ogni previsione, hanno sancito la vittoria di Hamas, formazione fondata nel 1988 dallo sceicco Ahmed Yassin (ucciso da un raid israeliano il 22 marzo 2004), protagonista di varie azioni terroristiche (oltre 50 rivendicate) attraverso l'ala militare delle Brigate Ezzedin al Qassam e che ha iniziato a partecipare al processo elettorale palestinese dopo la morte di Yasser Arafat, nel 2004. Partito islamico principale oppositore della laica Al Fatah e, quindi, dell'ANP da essa guidata, Hamas si è conquistato un ampio appoggio della base palestinese grazie a un lavoro di supporto sociale mai garantito dall'ANP.

"La forza di Hamas non trova fondamento solo nelle azioni delle Brigate Ezzedin al Qassam, ma soprattutto nel suo essere organizzazione capace di fornire identità e far funzionare una sorta di welfare religioso. Uno "Stato sociale" ispirato a criteri di "giustizia" islamica, che fornisce sussistenza e permette socialità altrimenti inesistenti" osserva il sociologo esperto di Islam Renzo Guolo. "Hamas dispone di scuole, ospedali, una preziosa banca del sangue, mense per i poveri. Il tutto finanziato grazie alla capillare raccolta della Zakat, l'offerta rituale che costituisce uno dei "pilastri" dell'Islam, e dalle ingenti donazioni private che provengono dai Paesi islamici. I suoi militanti sono percepiti generalmente come non corruttibili. [...] Le cosiddette "operazioni di martirio", giustificate in nome della lotta per la liberazione nazionale, sono espressioni di forme del Jihad non collocabili all'interno del progetto della guerra totale all'Occidente teorizzata da Al Qaeda. Tanto che Hamas ha sin qui rifiutato l'adesione alla rete di Bin Laden e guarda con timore ai tentativi diZarqawi di radicare sue cellule in Palestina" (Guolo, 2006 b).

Oltre all'indubbia legittimazione popolare, la vittoria elettorale di Hamas è stata determinata da quattro elementi principali: la stanchezza del popolo palestinese verso negoziati inconcludenti; la corruzione e la lontananza dai problemi della popolazione mostrate dalla classe dirigente di Al Fatah e dell'ANP; le decisioni unilaterali di Sharon che non hanno mai dato peso alle richieste palestinesi; la convinzione di aver costretto Israele al ritiro con l'Intifada, come già aveva fatto Hezbollah in Libano. L'affermazione di Hamas ha indubbiamente inasprito i rapporti: le autorità israeliane hanno escluso trattative con una "formazione terroristica", bloccando anche il trasferimento dei dazi doganali vitali per l'ANP (circa 50 milioni di dollari al mese); l'Amministrazione statunitense, che da anni ha inserito Hamas nella lista dei gruppi che considera terroristici, ha escluso ogni rapporto finché l'organizzazione non riconoscerà lo Stato d'Israele; l'UE ha prima bloccato e poi sbloccato i fondi concessi all'ANP, riconoscendo nel presidente Abu Mazen una figura di temporanea garanzia; la Russia ha scelto di dialogare con la nuova dirigenza palestinese; nel mondo islamico è stata espressa grande soddisfazione, soprattutto dalle autorità iraniane. Dal canto suo, il leader del partito vincitore, Ismail Haniyeh, ha fatto sapere che Hamas è disponibile a prolungare la tregua con Israele, ma non a riconoscerne l'esistenza. L'intellettuale israeliano Michael Warshawsky, pacifista storico, incontrando gli osservatori italiani alle elezioni palestinesi presso l'Alternative Information Centre a Gerusalemme Ovest, ha così commentato l'esito del voto: "In realtà sono anni che una larga parte del governo israeliano ripete che non c'è un partner, quindi Hamas non rappresenta la fine di un dialogo, la verità è che non ci può e non ci deve essere un partner, per portare avanti e giustificare l'unilateralismo come concetto fondamentale. Se ci fosse un partner ci dovrebbero essere dei negoziati e tutti sanno che le condizioni sono le Risoluzioni dell'ONU sui coloni, sul diritto al ritorno dei profughi, ecc. Quindi, per una certa parte di Israele è meglio se la situazione sia destabilizzata. Si potrebbe dire che la vittoria di Hamas è l'ultima vittoria di Sharon" (Nebbia, 2006).

Il presidente palestinese Abu Mazen è stato abbandonato a se stesso, sostiene Bernardo Valli, secondo cui "la saggezza avrebbe dovuto spingere il governo israeliano ad aiutare quel prezioso interlocutore, senz'altro fragile, inefficace, ma dotato di un coraggio sufficiente per affrontare l'opposizione della sua gente, pur di condurla, guidato dalla ragione, all'inevitabile dialogo con Israele. Ma questo dialogo Israele non l'ha alimentato" (Valli, 2006). Presentando il 27 marzo 2006 il nuovo governo palestinese, che conta 14 ministri della Cisgiordania e 10 della Striscia di Gaza senza rappresentanti di Al Fatah che ha rifiutato di parteciparvi, il neo premier Ismail Haniyeh ha comunicato l'intenzione di riaprire il dialogo con il quartetto che aveva promosso la Road Map. Il giorno successivo si sono svolte le elezioni israeliane, che hanno registrato l'affermazione di Kadima come primo partito del Paese (29 seggi), davanti ai laburisti (20 seggi). Il candidato premier israeliano Olmert ha dichiarato che attenderà al massimo un anno per una possibile ripresa dei negoziati, che implicano però un netto cambio di direzione di Hamas, dopodiché procederà unilateralmente con la sua strategia che, secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano "Maariv" alla vigilia delle elezioni, dovrebbe prevedere un parziale ritiro dalla Cisgiordania, l'annessione di alcune sue aree e la fissazione del confine orientale del Paese nel quadro di un accordo con gli Stati Uniti. Il 30 marzo, poi, sono ripresi gli attentati palestinesi con una drammatica inversione delle parti: a rivendicare l'esplosione suicida che ha ucciso 4 persone presso la colonia ebraica di Kedumin, in Cisgiordania, sono state le Brigate Al Aqsa, il gruppo armato palestinese vicino al movimento Al Fatah del presidente Abu Mazen, mentre Hamas è al governo. Lo stesso giorno, il quartetto ha minacciato il blocco degli aiuti finanziari all'ANP (ma non di quelli umanitari alla popolazione palestinese) se il governo di Hamas non soddisfa urgentemente tre condizioni: rinuncia alla violenza, riconoscimento dello Stato d'Israele, accettazione degli accordi già siglati dall'ANP (inclusa la Road Map). Insomma, un quadro assolutamente incerto.

Dalla volontà del nuovo governo israeliano di rinunciare all'unilateralismo e dalla disponibilità di Hamas ad "ammorbidire" la sua linea e di controllare l'instabilità palestinese dipenderà il futuro delle relazioni bilaterali e il necessario riconoscimento reciproco, mentre si attende un maggiore e migliore impegno della comunità internazionale per cercare di direzionare una crisi infinita che pare essere sempre più ingarbugliata.


La complessa questione del nucleare iraniano

"L'Iran non rappresenta una minaccia immediata, nonostante i suoi piani atomici, e le possibili sanzioni contro la Repubblica islamica sono una pessima idea" ha dichiarato il direttore dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA), Mohammed El Baradei, il 30 marzo 2006 (Tarquini, 2006). "Nessuna sfida è paragonabile a quella rappresentata dall'Iran, nessun Paese è più pericoloso in questo momento dell'Iran, che è determinato a realizzare un'arma nucleare in aperta sfida alla comunità internazionale che è decisa invece a far sì che tale arma non ci sia" ha detto parlando al Congresso degli USA il 9 marzo 2006 Condoleezza Rice, segretario di Stato americano (Mastrogiacomo, 2006 a). "Non rinunceremo mai al diritto di condurre un programma nucleare a scopi pacifici", hanno dichiarato negli ultimi mesi più o meno tutte le massime autorità iraniane. Su questo gioco delle parti si sviluppa la vicenda dell'Iran, inserito stabilmente da 4 anni nell'elenco degli "Staticanaglia" stilato dal Dipartimento di Stato USA, definizione trasformata in "sistemi dispotici" nel Rapporto sulla National Security Strategy reso noto il 16 marzo 2006 dalla Casa Bianca.

La sostanza non cambia: l'Iran è attualmente il primo obiettivo nel mirino dell'Amministrazione Bush, soprattutto da quando Mahmoud Ahmadinejad si è insediato alla presidenza del Paese il 3 agosto 2005 e ha immediatamente annunciato di voler riprendere l'attività di conversione dell'uranio. La questione nucleare iraniana è però aperta da circa 3 anni, da quando cioè sono iniziati negoziati tra le autorità iraniane e la "triade" europea costituita da Francia, Germania e Regno Unito, incaricata dalla comunità internazionale di far chiarezza sulle attività nucleari dell'Iran. Stato che aderisce al Trattato di Non Proliferazione nucleare (TNP), l'Iran ha sottoscritto un Protocollo aggiuntivo che permette ispezioni all'AIEA, per 30 mesi ha sospeso volontariamente la ricerca nucleare e per tre anni i suoi impianti sono stati monitorati da 1600 ispettori dell'AIEA. "Da 30 anni siamo un'azionista del consorzio Eurodif, ma non abbiamo avuto un solo grammo dell'uranio arricchito che ci spetta. Non ci hanno lasciato altra via che fare da soli", sostiene il capo negoziatore iraniano Ali Larijani (Forti, 2006 c). E, in effetti, dopo la rivoluzione khomeinista molti Paesi europei hanno rifiutato la collaborazione nucleare concordata col precedente regime. I negoziati degli ultimi 3 anni con gli europei riguardavano la tecnologia nucleare, la sicurezza della regione, la cooperazione e il commercio, ma gli iraniani lamentano il fatto che nella proposta europea la questione della tecnologia nucleare non fosse realmente affrontata. "Il punto del negoziato era definire garanzie oggettive sugli scopi pacifici del nostro programma nucleare. Ma poi, invece di cercare queste garanzie, hanno cominciato a chiederci di rinunciare alle attività nucleari tout court" dichiara ancora Larijani, secondo cui "gli europei dovrebbero tenere un atteggiamento più sincero: in privato ci dicono che l'Iran non deve avere tecnologia nucleare, punto. Ma non possono dirlo all'opinione pubblica mondiale, allora dicono che sospettano deviazioni militari.

Nell'ambito del TNP abbiamo degli obblighi e dei diritti, ed è giusto che ci siano riconosciuti" (Forti, 2006 c). Acquisire la tecnologia per l'arricchimento dell'uranio, necessario a fabbricare il combustibile da utilizzare nelle centrali nucleari a scopo civile, è effettivamente un diritto di chi aderisce al TNP, ma il superamento della soglia verso l'utilizzo militare è difficilmente controllabile.

Se a ciò si aggiunge la svolta fondamentalista della nuova presidenza iraniana e alcune sue deliranti minacce e dichiarazioni su Israele e l'olocausto, con conseguente ulteriore chiusura da parte di USA e Israele, allora si può comprendere la richiesta europea a Teheran di rinunciare all'arricchimento dell'uranio. Ma per Ahmadinejad e gli ultraconservatori tornati al potere in Iran il nucleare è diventato "questione nazionale", da utilizzare per cementare il Paese, fortemente diviso tra conservatori e riformatori, attraverso la propaganda dell'unità nazionale contro le ingerenze esterne. Anche sulla scena internazionale, il regime iraniano è ben consapevole della sua forza come potenza energetica (petrolio e gas), del suo ruolo fondamentale nella soluzione della crisi irachena e delle potenziali divisioni della comunità internazionale rispetto a eventuali decisioni "di forza", dati i precedenti iracheni che nessuno intende rivivere, neanche gli USA. Tra l'altro, come sottolinea il fisico nucleare iraniano Ahmad Shirzad, "le risorse minerarie di uranio in Iran sono praticamente zero (1400 tonnellate), in più si trovano a 350 metri di profondità", cosa che ne determina un prezzo 6 volte superiore a quello di mercato. Dunque manca il combustibile e la propaganda del regime iraniano serve unicamente a "creare illusioni e ingannare la gente" (Vannuccini, 2006). Comunque sia, il terzetto europeo ha fallito, anche perché non ha proposto nulla di accettabile a un Iran già poco propenso a rinunciare al suo programma nucleare; i rapporti con l'AIEA si sono incrinati in seguito alla decisione iraniana di togliere i sigilli alla centrale di Isfahan e successivamente a quelle di Natane e di altri siti; le autorità iraniane hanno più volte minacciato l'uscita dell'Iran dal TNP, mentre gli accordi presi in marzo anche sul nucleare dagli USA con l'India, Paese che non aderisce al TNP, non hanno certo contribuito alla distensione con l'Iran, dando l'impressione dei "due pesi e due misure". L'AIEA ha quindi sottoposto la questione al Consiglio di sicurezza dell'ONU, dove si è aperto un altro gioco delle parti. Da un lato, USA e Regno Unito sono per la linea dura che prevede ultimatum, sanzioni e, come recita la recente National Security Strategy statunitense, "se necessario, in base al principio di autodifesa, non si esclude l'uso della forza" (Flores D'Arcais, 2006). La Francia ha una posizione più sfumata e possibilista (così come la Germania, che partecipa agli incontri dei G6 e, con Francia e Regno Unito, era stata protagonista dei negoziati). Cina e Russia sono nettamente contrarie a ogni ipotesi di sanzioni e ancor più a soluzioni militari, sostenendo la via diplomatica e il ruolo dell'AIEA. Con qualche lieve differenza, però: la Cina è sempre più legata all'Iran per questioni di forniture energetiche (vedi il capitolo Gli effetti della globalizzazione economica) e quindi molto più disponibile nei confronti delle autorità iraniane; la Russia è partner nucleare dell'Iran e si è offerta come sede per l'arricchimento dell'uranio iraniano, contemporaneamente sta però offrendo disponibilità agli USA e ai Grandi europei perché intende portare a buon fine il G8, di cui ha la presidenza quest'anno, così da ottenere il loro benestare per il suo ingresso nella WTO.

Le stesse autorità iraniane, che si dichiarano pronte ad "affrontare ogni possibile conseguenza" della loro decisione "irreversibile" di sviluppare il programma nucleare, rilanciano dando piena disponibilità a discutere con gli USA una soluzione per la situazione irachena. Così, dopo oltre 25 anni dovrebbero riprendere le relazioni diplomatiche tra Iran e USA, proprio nel momento di massima tensione, anche se limitate "specificamente alle questioni relative all'Iraq" precisa la Casa Bianca. A tutto ciò si intrecciano i rapporti che le autorità iraniane decideranno di avere con i loro partner Hamas nei Territori palestinesi ed Hezbollah in Libano, entrambi al governo e nemici dichiarati di Israele, esattamente come l'Iran, che per negoziare la sua posizione chiede una denuclearizzazione dell'intera regione mediorientale, partendo proprio dalla mai dichiarata ma nota potenza nucleare israeliana. Così come un ruolo decisivo è quello del nuovo governo israeliano: l'ex ministro della Difesa Shaul Mofaz aveva annunciato che Israele è pronto a colpire se l'ONU si dimostrasse incapace di fermare l'Iran. Situazione dunque estremamente complessa, anche perché fortemente strumentalizzata da più parti, per una crisi che occuperà a lungo la comunità internazionale mettendola a seria prova.


Terrorismo islamico sempre più diffuso e variegato

Tra i molti misteri che riguardano il terrorismo internazionale, la sua organizzazione, le sue attività, i suoi mandanti ed esecutori, i finanziamenti e i vari interessi in gioco, una cosa è certa: nell'ultimo anno le azioni terroristiche si sono moltiplicate e diffuse a largo raggio. La fonte più consultata e citata degli ultimi anni, cioè il National CounterTerrorism Center (NCTC) del Dipartimento di Stato americano, nell'aprile 2006 ha pubblicato il suo tradizionale Rapporto annuale, secondo cui nel 2005 si sono verificati circa 11.000 attacchi terroristici in tutto il mondo che hanno causato oltre 14.600 vittime. Il 30% circa di tali attentati è avvenuto in Iraq, Paese che ha registrato oltre la metà del totale delle vittime mondiali. I dati dell'ultimo Rapporto divergono sensibilmente da quelli riportati negli anni precedenti (190 attacchi nel 2003 con 307 morti e 1593 feriti, 651 nel 2004 con 1907 morti e gli oltre 9300 feriti), perché il NCTC ha iniziato a conteggiare gli atti di terrorismo non più solo di carattere "internazionale" ma anche a livello locale (NCTC, 2005 e 2006). La questione della definizione di terrorismo è però complessa e discussa, perché in molti casi è difficile distinguere gli atti di terrorismo da quelli di guerra civile, guerriglia ecc.

Va osservato che il NCTC calcola tutte le azioni che valuta terroristiche, anche nelle zone di guerra, dunque dal 2004 i dati sono fortemente condizionati dagli attentati della guerriglia irachena. Ma si tratta comunque di una situazione indotta proprio dall'invasione angloamericana nell'ambito della "guerra al terrorismo", quindi una conferma di quanto tale "strategia" antiterroristica anziché contrastare le attività di terrorismo le abbia in realtà notevolmente aumentate. E non è sostenibile la tesi dei fautori di tale strategia, secondo i quali senza di essa sarebbe andata peggio: il numero delle organizzazioni terroristiche si è moltiplicato proprio dopo aver smosso grossolanamente il "vespaio" afghano e dopo la guerra in Iraq. Inoltre, se per una capillare, seria ed efficace attività di contrasto del terrorismo fosse stata impiegata una minima parte di quei 10002000 miliardi di dollari che l'autorevole economista Stiglitz stima sia costata finora l'operazione irachena, certamente ci si troverebbe ad analizzare una situazione molto diversa dall'attuale. In ogni caso, scorrendo la cronologia riportata nella sezione I Fatti di questo capitolo (che cita solo gli episodi più rilevanti), nel solo 2005 si possono contare almeno 40 azioni terroristiche, escludendo tutte le zone di guerra e dei maggiori conflitti in corso (dove la distinzione tra atti di terrorismo, guerriglia o resistenza armata è praticamente impossibile, visto che neanche l'ONU la definisce ufficialmente), per un totale di almeno 400 morti e centinaia di feriti. Un calcolo simile riportato nel Rapporto sui diritti globali 2004 registrava 30 azioni terroristiche "nei 2 anni e mezzo trascorsi tra l'11 settembre 2001 e l'11 marzo 2004", cioè nel periodo compreso tra gli attentati del World Trade Center (New York) e quelli della stazione di Atocha (Madrid).

Questo dicono i fatti. Ma al di là dell'elemento quantitativo, comunque rilevante, è quello qualitativo a destare le maggiori preoccupazioni. Le azioni terroristiche si sono estese a un numero sempre maggiore di Paesi e le caratteristiche degli attentatori sono diverse rispetto a quelle di qualche anno fa. Si sta diffondendo "una nuova generazione di fondamentalisti che le invasioni, le torture e le repressioni senza legittimazione hanno reso più numerosa, spericolata e, quel che è peggio, seduttiva", osservava Gabriele Romagnoli commentando alcune azioni terroristiche verificatesi nell'estate 2005. Il grave attentato del 23 luglio a Sharm el Sheikh (Egitto), che ha causato 88 morti e 150 feriti, è stato compiuto da membri di un'organizzazione jihadista collegata ad Al Qaeda, una sorta di "primo livello" purtroppo noto e identificabile; quando invece, com'è avvenuto a Il Cairo, un uomo si lancia contro i turisti in coda al museo mentre la sorella e la fidanzata sparano a un autobus, il tutto senza alcuna organizzazione strategica, allora - come sostiene Romagnoli - si è di fronte a un "secondo livello", "quello diffuso, che agisce e colpirà sempre di più. Non è strutturato e non ha solidi fondamenti di pensiero. Avrebbe potuto essere conquistato alla causa della convivenza civile da autentiche concessioni democratiche. È stato regalato agli avversari. Non hanno nemmeno bisogno di reclutarli. Agiscono e muoiono da soli. [...] Hanno visto l'esempio del vicino di casa torturato dalla polizia politica e reagito"(Romagnoli, 2005).

Violenze, abusi e umiliazioni legittimati nell'ambito della "guerra al terrorismo", "cartello" ormai utilizzato ampiamente per qualsiasi scopo repressivo come la vicenda delle extraordinary renditions dimostra (vedi il capitolo Le violazioni e le discriminazioni),non fanno che aumentare le ragioni per gesti di rabbia estrema. Altro caso emblematico è quello degli attentati di Londra del 7 luglio e di quelli falliti il 21 dello stesso mese: gli attentatori erano giovanissimi cittadini britannici figli di immigrati, organizzati in gruppetti autonomi che niente hanno in comune con i "professionisti" del terrorismo islamico tradizionale.

Uno studio reso noto nel settembre 2005 dalla Commissione Europea e dedicato proprio al reclutamento di giovani aspiranti terroristi in Europa (vedi Box di seguito), stima essere alcune migliaia questi ragazzini che non hanno esperienze "nei circoli dell'islamismo, che avevano dai 12 ai 15 anni l'11 settembre 2001. Sono organizzati in piccoli gruppi che hanno spesso forti legami locali, che possono contare sulla solidarietà della comunità e delle famiglie, ma anche sui legami con gruppi criminali".

Ma da cosa nasce la loro scelta terroristica?

"Integrazione imperfetta, che provoca crisi di identità e senso di esclusione" è una delle ragioni, a cui si aggiunge quella che lo studio europeo definisce "umiliazione per procura", cioè "l'umiliazione e la violenza subite dai "fratelli" in Cecenia, in Iraq, in Palestina diventa la loro stessa umiliazione, amplificata dal senso di impotenza e frustrazione"; a tutto ciò si aggiunge poi "l'opera di propaganda degli estremisti", manipolatori che abusano di personalità fragili facendo leva su sensi di colpa, alienazione, bassa autostima, bisogno di far parte di un gruppo e illusione di agire per vendicarsi (Commissione Europea, 2005). Ma anche le caratteristiche del jihadista alqaedista stanno cambiando, come osservato da uno studio che ha analizzato le figure di oltre 500 terroristi islamici e pubblicato dal "Sunday Times" di Londra il 3 aprile 2005. Alla "vecchia generazione" costituita prevalentemente da persone di classe medioalta, spesso sposati e padri di famiglia, nel 60% dei casi con istruzione universitaria conseguita anche in Europa e negli USA, si sta affiancando una "nuova generazione": "Militanti più giovani, meno istruiti, di estrazione sociale più povera", un numero crescente di "diseredati rimasti affascinati dalla predica di un imam", per i quali "la guerra santa è un'idea astratta, un'avventura" (Franceschini, 2005). Anche la propaganda jihadista ha assunto nuove caratteristiche, spostandosi sempre più da limitati luoghi fisici (alcune scuole coraniche e poche moschee estremiste) al vasto e largamente accessibile spazio virtuale del web. Dai 12 siti Internet con espliciti riferimenti alla Jihad e ad Al Qaeda individuati dall'università israeliana di Haifa alla fine degli anni Novanta, si è passati ai circa 4500 stimati oggi: oltre alla propaganda, contengono comunicazioni di "servizio", addestramento, tattiche, nozioni tecniche su armi ed esplosivi, mentre le informazioni più delicate passano attraverso pagine criptate nascoste in siti normali (Coll, Glasser, 2005). Tutto ciò rende più difficile il lavoro di servizi e polizie per l'individuazione dei singoli membri di organizzazioni, prima intercettati spesso durante gli spostamenti.

Nell'estate 2005 è così iniziato un capillare lavoro di monitoraggio della Rete e di oscuramento di molti di questi siti, soprattutto da parte dei servizi britannici e statunitensi, ma è noto che la Rete è difficilmente controllabile. Internet consente al movimento jihadista di avere una dimensione globale inimmaginabile dalle organizzazioni terroristiche del passato, essendo al tempo stesso fonte e mezzo di comunicazione per la "nuova generazione", soprattutto in Occidente: "Non ha uno sceicco o una guida spirituale da cui riceve informazioni. Il loro riferimento sono le istruzioni per la guerra santa fornite dai siti fondamentalisti, gli stessi che diffondono le foto dei massacri in Afghanistan, Iraq e Palestina. [...] Una generazione superiore alle vecchie organizzazioni fondamentaliste proprio perché i suoi membri sono nati in Occidente, maneggiano prodotti chimici, parlano diverse lingue e sono in grado di usare i computer e Internet", sostiene il direttore del centro studi islamici AlMaqrizi di Londra, Hani al Sibai, che sottolinea come i nuovi jihadisti non siano affiliati all'organizzazione, ma la usino come riferimento ideologico (Caferri, 2005). Un terrorismo islamico dunque in grande trasformazione, che in pochi anni è passato dalla generazione degli "afghani", cioè di coloro che si erano formati alla "scuola" afghana del gruppo di Bin Laden, a una nuova miscellanea sempre più diffusa e diversificata, che va da giovani istruiti e fortemente ideologizzati ad altri diseredati che scelgono il terrorismo per disperazione fino ai cyberterroristi occidentali che agiscono per vendicare le ingiustizie e le umiliazioni subìte dai fratelli musulmani.

In questo quadro, Al Qaeda diventa sempre meno "la base" organizzativa e sempre più un riferimento e un simbolo per numerose organizzazioni attive in vari Paesi del mondo, nonché un mito per l'immaginario di migliaia di giovani, che erano poco più che bambini l'11 settembre 2001 ma che negli anni successivi hanno visto solo immagini di guerre, violenze, torture e che possono essere facilmente strumentalizzabili e affascinati dall'idea della vendetta. Oltre alle decine di migliaia di morti in Afghanistan e Iraq, oltre alla demolizione degli standard del diritto internazionale e dei diritti umani, ecco un altro bel risultato della "guerra al terrorismo". Forse però, come scrivono Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo in un recente libroinchiesta dal significativo titolo, Il mercato della paura, l'obiettivo di questa "guerra" era altro da Bin Laden e Al Qaeda, di cui se ne sa meno oggi di quanto si conoscesse prima dell'11 settembre. Il terrorismo, sostengono gli autori, è stato utilizzato in questi anni per alimentare la tensione, diffondere la paura e mantenere la società in mobilitazione permanente. "Quattro anni di guerra al terrorismo hanno reso il mondo, oggi, un luogo più insicuro e vulnerabile", dove il terrorismo "è solo un effetto, la causa è nella politica di alcuni Stati". L'inchiesta evidenzia come "la minaccia concreta e imminente del terrorismo è stata utilizzata a sostegno di un disegno politico internazionale". La "guerra al terrorismo" "è soprattutto "guerra psicologica" rivolta più a "orientare" l'opinione pubblica che a prevedere la diffusione delle ragioni e dei pericoli del moderno Islam radicale. [...] Il mestiere dell'intelligence oggi non è più, in modo prioritario, proteggere il Paese, ma spaventarlo. Diventata fondamento della ragione politica (e morale), la paura ha svelato la sua forza incontrollabile, il suo valore d'uso politico. [...] Ha preso a modificare le nostre convinzioni su presente e futuro, conflitto e sicurezza, libertà e rischio, "noi e loro"" (Bonini, D'Avanzo, 2006). Questo emerge dalla dettagliata analisi svolta dai due giornalisti che al termine del loro lavoro pongono la più che legittima domanda: tutto ciò cosa c'entra con la sicurezza e la "guerra al terrore"?


GLI ALTRI CONFLITTI
Oltre alle principali crisi internazionali di cui si è detto finora, esistono poi altre guerre e conflitti locali e regionali, alcuni protratti nel tempo, altri più recenti, altri ancora in costante passaggio da situazioni di apparente pacificazione a rigurgiti di tensioni e violenze.

Cecenia e Colombia: drammatici esempi di crisi protratte

È triste dover constatare ogni anno che la situazione in Cecenia non è migliorata. Anzi, il conflitto in corso ormai da quasi 12 anni, la chiusura totale del governo russo a qualsiasi via negoziale e la vergognosa assenza della comunità internazionale non fanno che peggiorare le condizioni di una popolazione devastata: circa 200.000 morti, cioè quasi un quarto della popolazione originaria della Repubblica Caucasica, dato che mostra un vero e proprio genocidio in corso; almeno 3000 sparizioni tra gli 80.000 civili passati per i "campi di filtraggio" russi; circa 70.000 profughi ceceni in Inguscezia, 5000 in Georgia e altri 20.000 nel mondo; città rase al suolo (tra cui la capitale Grozny), ospedali e strutture sanitarie in maggior parte distrutti, scuole e università parzialmente chiuse, continue violenze, maltrattamenti e torture, divieto d'accesso alle organizzazioni umanitarie. In una simile situazione, chi non fugge è sempre più propenso ad aggregarsi alla guerriglia, che infatti registra nuovi ingressi di giovani e donne e risponde colpo su colpo alle violenze delle forze di sicurezza russe e cecene filorusse: il governo di Mosca dichiara che dal 1999 sono morti circa 3500 soldati russi nel conflitto ceceno che impegna 30.000 militari, secondo i Comitati delle madri dei soldati, però, i militari morti sarebbero più di 10.000 nella seconda guerra e oltre 20.000 se sommati a quelli della prima guerra iniziata nel 1994.

Un conflitto che, come altri in corso, non solo non è servito a sconfiggere la guerriglia ma ha portato a un aumento esponenziale degli atti terroristici, arma sempre più utilizzata dai guerriglieri per sopperire all'enorme disparità di forze in campo: secondo il Center for Strategic and International Studies (CSIS) statunitense, nel Nord Caucaso si è passati da 7 attentati nel 1999 a 80 nei soli primi nove mesi del 2005, mentre nel resto della Federazione Russa gli attentati sono stati 4 nel 2000 e 25 nel 2004. Ed è proprio l'effetto del conflitto ceceno sul resto dell'area Nord Caucasica a destare molte preoccupazioni, tanto da paventare il rischio di "cecenizzazione" della regione. L'attacco massiccio portato dalla guerriglia nell'ottobre 2005 a Nalcik, capoluogo della KabardinoBalkaria (una delle 7 Repubbliche Russe del Caucaso settentrionale), così come i continui scontri con l'esercito russo in Daghestan e altre regioni mostrano un ampio raggio d'azione della guerriglia cecena, supportata da guerriglieri di altre regioni in un complesso intreccio tra indipendentismo e fondamentalismo islamico. L'uccisione "mirata" messa in atto dai servizi segreti russi del presidente separatista ceceno Aslan Mashkadov, a TolstojIurt nel marzo 2005, non ha indebolito il fronte indipendentista e, anzi, ha probabilmente radicalizzato ancor di più lo scontro rafforzando il leader dei guerriglieri Shamil Basaev.

Nel giugno 2005, sul sito web utilizzato dalla guerriglia cecena per comunicare con l'esterno è apparso un documento, in cui il nuovo leader politico indipendentista AbdulKhalim Sadulaiev (successore di Maskhadov) ha definito "inaccettabili e inammissibili gli attacchi contro civili disarmati", ricordato la "crudeltà senza limiti degli occupanti russi" e annunciato che la lotta separatista continuerà concentrandosi su obiettivi militari, siti industriali e governativi. In novembre, poi, dopo 8 anni si sono svolte in Cecenia le elezioni legislative, che il presidente russo Vladimir Putin ha definito l'ultima fase della "normalizzazione" cecena. Vinte dai partiti filorussi, le elezioni sono state definite "una farsa" dai separatisti, mentre l'OSCE ha deciso di non inviare propri osservatori. Il 4 marzo 2006 il Parlamento ceceno ha eletto premier Ramzan Kadyrov, figlio dell'ex presidente ceceno Akhmat Kadyrov ucciso dalla guerriglia il 9 maggio 2004. Il neopremier, già "uomo forte" della regione a capo dei 12.000 membri dell'ex guardia presidenziale filorussa, esercito responsabile dei due terzi delle violazioni dei diritti umani contro i civili ceceni, ha dichiarato guerra totale alla guerriglia dopo la morte del padre e la sua nomina non fa che presagire un'ulteriore recrudescenza del conflitto. Tanto più che la comunità internazionale, nonostante alcuni richiami al governo russo per il rispetto dei diritti umani come la recente Risoluzione del Consiglio d'Europa (25 gennaio 2006) e alcune prese di posizione del Parlamento Europeo, continua a non affrontare seriamente la questione, privilegiando i "buoni rapporti" con Putin per evidenti questioni geopolitiche, energetiche e legate alla cosiddetta "guerra al terrorismo". Con gravi e diffuse responsabilità, dunque, continua una situazione vergognosa al limite del genocidio, per la quale servirebbero interventi concreti e immediati, come quello proposto da più parti per l'istituzione di un'amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite, sulla base del disarmo dell'insieme delle forze cecene e del ritiro di tutte le forze militari e civili russe.

Altra situazione di conflitto protratto è quella della Colombia, con una guerra civile iniziata nel 1964, che si stima sia costata sinora 300.000 morti. Nel 2005 le autorità di Bogotá hanno registrato oltre 100.000 spostamenti forzati, in un Paese che conta quasi 3 milioni di sfollati e dove, secondo vari studi e ricerche, oltre la metà di queste persone non ha accesso al sistema sanitario, due terzi hanno perso terre e proprietà e solo una minoranza riesce a essere economicamente stabile dopo anni di sradicamento dalla propria area di origine. Un conflitto in corso da 40 anni ma che, a differenza di quanto avviene in Cecenia, registra almeno alcuni tentativi di negoziato in una situazione molto complessa.

Infatti, le parti in conflitto sono varie: esercito governativo, gruppi paramilitari conglobati nelle Autodefensas Unidas de Colombia (AUC), due gruppi di guerriglia, cioè le Fuerzas Armadas Rivolucionarias de Colombia (FARC) e l'Ejército de Liberación Nacional (ELN), cui si aggiungono le azioni armate dei vari cartelli della droga con intrecci tra questi, paramilitari e guerriglieri. Interi territori sono controllati da alcuni di questi soggetti o contesi tra loro, con devastanti conseguenze sulla vita delle popolazioni. Fin dalla sua elezione alla presidenza del Paese nel 2002, Álvaro Uribe ha dichiarato l'intenzione di voler porre fine al conflitto sconfiggendo la guerriglia, ottenendo così l'appoggio dei paramilitari. Dopo un accordo di tregua con le AUC, nel luglio 2005 Uribe ha approvato la legge Giustizia e Pace che favorisce il disarmo dei paramilitari, provvedimento aspramente criticato perché prevede un sussidio governativo di 2 anni e pene massime di 8 anni anche per coloro che sono stati riconosciuti colpevoli di gravi violenze e massacri. Questa legge è stata fortemente voluta dai leader paramilitari che evitano così l'estradizione negli USA, dove molti di loro sono ricercati per narcotraffico, e ha portato finora al disarmo di circa 9000 combattenti, mentre altri 11.000 non hanno ancora accettato la resa (Capelli, 2005 b).

Sul fronte della guerriglia, in novembre per la prima volta l'ELN ha accettato di discutere i contenuti di una possibile trattativa di pace, anche se ha comunicato di non voler interrompere le ostilità durante i negoziati. Le FARC, invece, mantengono la "linea dura", ponendo come condizione per il dialogo la concessione di una zona smilitarizzata nel sudest del Paese, richiesta che incontra la ferma opposizione del governo. Le azioni armate delle FARC si sono addirittura intensificate all'inizio del 2006, alla vigilia delle elezioni legislative del 12 marzo che hanno segnato l'affermazione del partito del presidente, pur con un'affluenza alle urne di appena il 40%. Obiettivo delle FARC è quello di screditare il governo del presidente Uribe, mostrando che la sua politica repressiva contro la guerriglia è fallimentare e cercando così di ostacolarne la vittoria alle elezioni presidenziali del 28 maggio per un secondo mandato. Esattamente l'opposto di quanto fanno i paramilitari, che nelle elezioni di marzo hanno avuto un ruolo decisivo corrompendo esponenti politici e minacciando i rappresentanti dell'opposizione e gli elettori, allo scopo di mantenere in carica il presidente Uribe e la sua maggioranza, da cui si sentono tutelati perché hanno ampie garanzie di impunità (Capelli, 2006). Sulla difficile situazione colombiana possono incidere anche le posizioni che assumeranno alcuni influenti Paesi dell'area, come USA e Venezuela.

La continua instabilità africana

Nel continente africano, le crisi più rilevanti riguardano l'area centroorientale, cui si aggiungono a ovest la ancora tesa situazione della Costa d'Avorio e le violenze di vario genere frequenti in Nigeria.

In Sudan, gli accordi di pace siglati nel gennaio 2005 sembravano portare a una stabilizzazione tra nord e sud del Paese, ma nella seconda metà dell'anno la situazione è nuovamente peggiorata nella regione occidentale del Darfur, coinvolgendo anche il vicino Ciad. Dopo oltre 100.000 vittime, 200.000 profughi e più di un milione di sfollati interni, la comunità internazionale è intervenuta con una missione dell'Unione Africana nel Darfur, che il 10 marzo 2006 è stata prolungata di altri sei mesi prevedendone il probabile passaggio alla Nazioni Unite. In ogni caso, il cessate il fuoco è stato frequentemente violato e il governo sudanese, che appoggia le milizie arabe janjaweed che imperversano nella regione, è contrario all'intervento di peacekeeping internazionale e fa pressione in questo senso sulla popolazione. Tra l'altro, i circa 200.000 profughi del Darfur rifugiatisi oltre confine in Ciad sono anche qui perseguitati dalle milizie, coinvolgendo così il Ciad che nel dicembre 2005 ha dichiarato lo stato di belligeranza con il Sudan.

Nel corso del 2005, infatti, centinaia di militari dell'esercito del Ciad hanno disertato per unirsi ai gruppi ribelli situati lungo il confine sudanese, dove hanno stretto nuove alleanze per sovvertire il regime con l'aiuto del governo sudanese, secondo le accuse delle autorità ciadiane. Nel febbraio 2006 i presidenti ciadiano Idriss Déby e sudanese Omar el Bashir hanno siglato un accordo per la ripresa delle relazioni diplomatiche, con il divieto di usare i reciproci territori per azioni ostili e di accogliere i ribelli provenienti da oltre frontiera, ma la situazione è ancora del tutto instabile. Così come sul confine orientale del Sudan, di cui si parla poco ma che risente delle tensioni tra Etiopia ed Eritrea: nell'ultimo anno migliaia di cittadini eritrei sono fuggiti in Sudan, aggiungendosi ai circa 100.000 eritrei già rifugiati da anni nel Paese. La disputa di confine tra Asmara e Addis Abeba, che pareva conclusa, si è riaperta alla fine del 2005 con la decisione eritrea di espellere i membri della Missione ONU che monitorava la zona "cuscinetto" tra i due Paesi, mentre si registrano preoccupanti concentrazioni di truppe da entrambi i lati del confine. Più a est, in Somalia, nel febbraio 2006 si è svolta la prima seduta del Parlamento di transizione, ma i continui scontri e attentati, a cui è sfuggito fortunosamente anche il Primo ministro Ali Mohamed Gedi nel novembre 2005, dimostrano quanto sia ancora instabile la situazione e difficile la via verso la riconciliazione nazionale.

Nella regione dei Grandi Laghi, invece, i movimenti di gruppi ribelli tra un confine e l'altro continuano a impedire una reale stabilizzazione dell'area. Nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), ad esempio, sono ancora attivi circa 10.000 ribelli ruandesi accusati di aver partecipato al genocidio del 1994 e rifugiatisi oltre confine, nelle regioni congolesi del Sud Kivu e del Katanga, teatro di continue violenze nonostante gli stessi ribelli abbiano ufficialmente rinunciato nel 2005 alla lotta armata. La RDC era stata protagonista di un lungo conflitto che aveva coinvolto 5 eserciti stranieri di Paesi limitrofi e 7 gruppi ribelli, con 3,5 milioni di morti e circa 3 milioni di profughi e sfollati, conclusosi con accordi di pace nel 2002, ma mai completamente sopito. La Missione dell'ONU (Mission des Nations Unies en République Démocratique du Congo, MONUC) ha cercato di ristabilire la normalità avviando un programma di disarmo delle milizie, ma gli scontri continuano e dalla primavera 2005 sono ripresi anche nella regione nordorientale dell'Ituri, in una situazione di generale incertezza in vista delle elezioni che si terranno nell'estate di quest'anno, le prime in 40 anni, soprattutto se qualche candidato sconfitto decidesse di non legittimare l'esito elettorale. Un ulteriore elemento di destabilizzazione è costituito dai continui sconfinamenti di ribelli anche nella zona settentrionale della RDC: si tratta degli ugandesi del Lord's Resistance Army (LRA) che hanno le loro basi nel Sudan meridionale, a dimostrazione di quanto la situazione regionale sia complessa. Sconfitti dall'esercito ugandese e abbandonati dal governo sudanese dopo la pace del gennaio 2005 (le autorità di Khartoum li appoggiavano per fronteggiare i guerriglieri del Sudan People's Liberation Army - SPLA), i ribelli del LRA sono costretti a incursioni nella RDC per fuggire alle repressioni sia dell'esercito ugandese sia dai membri dello SPLA, compiendo razzie nei villaggi per sopravvivenza. In Uganda, intanto, Yoweri Museveni al potere da due decenni ha ottenuto un nuovo mandato di 5 anni all'inizio del 2006, ma il nord del Paese non si è ancora ripreso dal conflitto durato quasi 20 anni, mentre i flussi continui di profughi e rifugiati in entrata (da Sudan, RDC e Ruanda) e uscita, oltre alle migliaia di sfollati, non facilitano certo il ritorno alla normalità.

Va un po' meglio nel vicino Burundi, il Paese africano con il più alto numero di profughi e rifugiati: 570.000 quelli oltre confine, la maggior parte dei quali si trova nei campi della Tanzania, mentre gli sfollati interni sono circa 300.000. Nel corso del 2005, quasi 70.000 persone sono rientrate nel Paese e l'ex leader dei ribelli Pierre Nkurunziza è stato eletto presidente, sancendo così il ritorno alla presidenza di un hutu dopo ben 12 anni. Gli accordi di pace del 2003 e la nuova Costituzione del 2005 prevedono un'equa distribuzione tra hutu e tutsi degli incarichi di governo, dei seggi parlamentari e dei posti di comando nelle forze armate, tuttavia un gruppo di ribelli hutu non intende trattare col governo continuando a scontrarsi con l'esercito (oltre 120 morti negli ultimi tre mesi del 2005). Nell'Africa occidentale resta aperta la crisi della Costa d'Avorio, dove regna una calma apparente. Nel marzo 2005 è ripreso il negoziato tra le parti, subito fallito per le accuse reciproche di non rispettare gli accordi di Marcoussis (Francia) del 2003. Data l'impossibilità di accordi sul disarmo dei ribelli e sulla data delle elezioni, con l'avvallo dell'ONU è stato prolungato di un anno il mandato del presidente Laurent Gbagbo, nonostante l'opposizione delle Forze Nuove (FN). Nel gennaio 2006, la proposta dell'ONU di sciogliere il Parlamento provvisorio ha scatenato violenze nel sud del Paese da parte dei sostenitori del presidente, con relativi scontri con i caschi blu dell'ONU che hanno causato almeno 4 morti.

In febbraio, poi, il presidente Gbagbo, i leader dell'opposizione e il capo delle FN hanno ripreso gli incontri per cercare di porre fine alla crisi del Paese. Crisi che invece è costante in Nigeria, dove si registrano continui scontri interetnici, intertribali e interreligiosi in varie zone del Paese, mentre un vero e proprio conflitto è in corso tra esercito e gruppi armati nella regione del Delta del Niger, nel sud del Paese. Il conflitto è causato dal contenzioso sui ricchi
giacimenti di petrolio della regione, con l'esercito governativo a difesa dei pozzi controllati da multinazionali quali Chevron, Shell e Agip, e i gruppi armati schierati contro lo sfruttamento intensivo e per rivendicare i diritti delle popolazioni locali che subiscono tale sfruttamento senza ricavarne alcun beneficio (su questo problema si veda anche la scheda "Petrolio e diritti in Nigeria" nel capitolo Gli effetti della globalizzazione economica).

Le crisi dell'Asia meridionale e orientale

In Asia meridionale spiccano le crisi del Nepal, del Kashmir e dello Sri Lanka.

In Nepal è sempre più cruento lo scontro tra ribelli maoisti ed esercito reale, in corso da ormai 9 anni e che ha causato oltre 12.000 morti. Entrambi, poi, sono particolarmente violenti e repressivi nei confronti della popolazione. Dopo la decisione presa dal re Gyanendra nel febbraio 2005 di sciogliere il governo e nominare un esecutivo di suo gradimento, la situazione nel Paese è stata caratterizzata da forti limitazioni delle libertà che hanno provocato un vasto movimento di protesta, per cui alla guerra civile si sono aggiunte forti tensioni sociali. È quindi aumentato il già elevato tasso di violenza e repressione, mentre le limitazioni alla libertà d'informazione non permettono di conoscere la reale condizione del Paese che, comunque, la Banca Mondiale considera al limite della bancarotta. Le elezioni amministrative svoltesi nel febbraio di quest'anno, volute dal re per legittimare il "nuovo corso" avviato un anno prima, sono state caratterizzate da violenze e minacce sia da parte delle forze governative contro esponenti dei 7 partiti di opposizione sia da parte della guerriglia: il risultato è stato un generale boicottaggio con un'affluenza alle urne del 20%, la scontata vittoria dei candidati governativi e grandi manifestazioni di protesta antimonarchiche. Intanto, mentre le violenze si susseguono quotidianamente, la reazione della comunità internazionale resta debole e inadeguata, nonostante le proteste di alcuni osservatori dell'ONU e gli appelli delle organizzazioni per i diritti umani affinché siano esercitate pressioni sul governo nepalese per il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Tosatti, 2006 a).

Il tentativo di dialogo avviato negli ultimi due anni dai governi indiano e pakistano non è ancora riuscito a porre termine all'annosa crisi del Kashmir, dove le violenze e gli attentati si susseguono. Un esempio recente è stato l'attacco dei guerriglieri indipendentisti musulmani sferrato a Srinagar il 26 marzo, appena due giorni dopo l'offerta del premier indiano Manmohan Singh di avviare un trattato di "pace, collaborazione e amicizia". Singh ha anche dichiarato, per la prima volta da parte indiana, di essere pronto a discutere "confrontandosi con la realtà e cercando soluzioni pratiche e pragmatiche. I confini non possono essere cambiati, ma possiamo lavorare per ridurre la loro importanza, fino a farne solo delle linee sulla carta geografica". Ma gli interessi in gioco sono molti e le violenze si estendono ormai anche al di fuori dalla regione. Mentre si creava la Conferenza dei partiti del Kashmir per avviare un dialogo col governo indiano, nell'ottobre 2005 esplodevano alcuni ordigni in affollati mercati di New Delhi causando oltre 60 vittime, mentre nel marzo 2006 un attentato ha colpito Varanasi, centro della spiritualità indù, provocando 28 morti e pericolose tensioni interreligiose, dal momento che la responsabilità è stata attribuita a un gruppo estremista kashmiro, dunque interpretato dai fondamentalisti indù come violenza musulmana nel cuore della religiosità induista (Landi, 2006). Il risultato è che i tentativi di dialogo e confronto politico sono puntualmente vanificati dalle violenze indipendentiste e dalle strumentalizzazioni politicoreligiose. Nello Sri Lanka, il 2005 si è chiuso tra violenze e tensioni (150 morti nel solo mese di dicembre) e più o meno allo stesso modo è iniziato il 2006. L'accordo di cessate il fuoco siglato nel 2002 tra il governo e i separatisti tamil del Liberation Tigers of Tamil Eelam (LTTE) è stato ripetutamente violato.

I separatisti rivendicano l'indipendenza del nordest del Paese e accusano il governo di aver tradito le promesse avanzate per una piena autonomia della regione. Di fronte al forte rischio che riprenda ufficialmente una guerra civile durata 20 anni e che ha causato oltre 60.000 vittime, alla fine di gennaio è giunto, nell'isola Eri Solheim, il mediatore di pace norvegese che dovrebbe tentare di riavviare un dialogo bloccato dall'aprile 2003. Dopo faticose trattative, il mediatore norvegese è riuscito a convincere le parti a incontrarsi, cosa avvenuta a Ginevra alla fine di febbraio: la riunione si è conclusa senza alcun accordo, ma ha almeno riaperto un negoziato fermo da 3 anni. Nell'Asia orientale, invece, è tesa la situazione delle Filippine, dove tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo 2006 la presidente Gloria Arroyo ha prima proclamato e poi revocato la stato d'emergenza nazionale per un presunto tentativo di colpo di Stato da parte di alcuni graduati dell'esercito. Non è chiaro se la decisione sia stata presa per un pericolo reale o piuttosto per rispondere autoritariamente alla crescente opposizione nel Paese e in Parlamento, dove lo scorso settembre la presidente era stata sottoposta alla procedura di impeachement in seguito ad accuse di corruzione e brogli elettorali. Il consenso per il governo è decisamente basso e la decisione di imporre lo stato d'emergenza non ha contribuito alla distensione di un Paese che in passato ha registrato vari tentativi di golpe, dove due presidenti furono deposti in seguito a sollevazioni popolari e l'ex presidente Ferdinand Marcos governò per un decennio imponendo leggi marziali (Tosatti, 2006 b). Sul fronte della guerra civile in corso da 40 anni, invece, in febbraio è stato raggiunto un accordo di massima tra governo filippino e ribelli islamici del Moro Islamic Liberation Front (MILF). Restano tuttavia alcuni dubbi su cosa faranno i gruppi islamici che non riconoscono la supremazia del MILF, tra i quali il movimento fondamentalista Abu Sayyaf che fa riferimento alla rete di Al Qaeda. Più a sud, invece, tra le frequenti tensioni del vasto arcipelago indonesiano va registrata la fine del conflitto trentennale di Banda Aceh, la provincia settentrionale dell'isola di Sumatra. Alla fine del 2005, infatti, l'esercito indonesiano ha completato il suo ritiro preceduto dal disarmo del Gerakan Aceh Merdeka (GAM), il Movimento separatista di Aceh, secondo quanto previsto dagli accordi sottoscritti da governo e ribelli nell'agosto 2005 a Helsinki sulla spinta della grave situazione creata nell'area dallo tsunami del 26 dicembre 2004.


LA TRAPPOLA DELLA "GUERRA INFINITA"


Dato che negli ultimi anni la situazione internazionale è stata determinata prevalentemente dall'unilateralismo dell'Amministrazione statunitense e dalla sua infausta strategia della "guerra preventiva", data la costante crescita del suo budget militare e le previsioni di "guerra infinita" fatte dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, tanto vale partire proprio dalle intenzioni americane per capire quali possono essere gli sviluppi.

Anche perché il tanto auspicato multilateralismo, necessario per riequilibrare i rapporti internazionali, sembra ancora esclusivamente legato a concessioni utilitaristiche della superpotenza americana e non una reale tendenza. La maggior disponibilità alle trattative, quanto meno nell'ambito del Consiglio di sicurezza dell'ONU, mostrata dagli USA negli ultimi mesi è infatti dettata esclusivamente dalla necessità di uscire in modo dignitoso dall'impaccio iracheno e dalla consapevolezza di non poter affrontare allo stesso modo la vicenda iraniana, più che da un riconoscimento del ruolo e dell'importanza della diplomazia e della collaborazione internazionale. Lo dimostra la stessa imposizione da parte dell'Amministrazione Bush, nonostante l'opposizione di buona parte del Congresso americano, di una figura come quella di John Bolton nel ruolo di ambasciatore statunitense presso l'ONU, uno che dichiara apertamente che "le Nazioni Unite non esistono" e che l'azione diplomatica degli USA consiste nel "convincere gli altri a seguirci", ma solo "quando fa comodo ai nostri interessi" (Weinberger, 2006). Il 16 marzo 2006 la Casa Bianca ha pubblicato la sua National Security Strategy, che indica le principali sfide e le minacce che gli USA devono (o vogliono, a seconda dei punti di vista) affrontare, un documento che dovrebbe avere cadenza annuale ma che non era redatto dal 2002, anno in cui fu proclamata la dottrina della "guerra preventiva".

Il Rapporto rivendica il successo della politica estera americana, dimostrato "dall'indebolimento di Al Qaeda" e dall'avvento della "democrazia in Afghanistan e Iraq", posizione comprensibile per un'Amministrazione che non ha né la capacità né la forza di un'analisi anche solo minimamente autocritica, ma preoccupante perché indice di una visione deformata della realtà. Sono poi indicati i due "pilastri della strategia": promuovere nel mondo libertà, giustizia, dignità umana abbattendo le tirannie; affrontare le sfide guidando la sempre più numerosa comunità di democrazie. Gli obiettivi restano gli ex "Stati canaglia", oggi definiti "sistemi dispotici", che sono sette: Iran, Corea del Nord, Cuba, Bielorussia, Birmania, Zimbabwe e Siria. Ma è l'Iran in testa alla lista, Paese per il quale "in base al principio di autodifesa non si esclude l'uso della forza", perché "quando le conseguenze di un attacco con armi di distruzione di massa sono potenzialmente così devastanti, non possiamo permetterci di restare fermi mentre gravi pericoli si materializzano". Vari osservatori hanno notato meno rigidità da parte dell'Amministrazione statunitense e una maggior apertura all'azione diplomatica, un Rapporto "meno ideologico" l'ha definito il "New York Times", mentre l'analista di politica estera statunitense Ivo Daalder ha parlato addirittura di "fine della "rivoluzione Bush"" e ritorno alla politica estera dell'Amministrazione Clinton.

Lo stesso Daadler però nota: "È palese che l'Amministrazione ha accettato queste nuove realtà soltanto con riluttanza. È stata costretta a cambiare rotta per necessità, più che per convinzione, e pertanto resta da vedere se nelle settimane e nei mesi che verranno la conduzione degli affari esteri rispetterà ciò che le parole di questa strategia delineano o i princìpi di quella precedente" (Daalder, 2006). Nel Rapporto della Casa Bianca ci sono poi due riferimenti significativi: uno alla Russia, con cui le relazioni diplomatiche dipenderanno dalle "scelte di politica estera e interna", dato il "minor impegno" russo sulle libertà democratiche; l'altro alla Cina, che secondo gli USA dovrà "agire come un partner responsabile che adempie ai suoi obblighi" (Flores D'Arcais, 2006). Tra le righe, si possono leggere la richiesta alla Russia di collaborare attivamente con gli USA sulla questione iraniana, in cambio dell'agevolazione del suo ingresso nella WTO, e un monito alla Cina, che è già l'obiettivo principale nella prospettiva americana ma non dichiarabile perché trattasi di questione troppo delicata. Un Rapporto pubblicato dal Pentagono nel luglio 2005, dal titolo The military power of the People's Republic of China, sostiene che la Cina sta aumentando la sua capacità di combattere guerre fuori dal suo territorio e che questa è una sfida pericolosa per l'ordine mondiale. "Per alcuni strateghi statunitensi e per i grandi imprenditori militanti, la guerra al terrorismo è stata solo una pausa prima di riprendere le iniziative anticinesi cominciate nel febbraio del 2001.

Adesso quel momento sembra arrivato" scrive Michael T. Klare, studioso statunitense di pace e sicurezza mondiale. La Cina è notoriamente il principale competitor degli USA nella corsa al controllo delle risorse energetiche mondiali, per cui l'attuale e la prossima superpotenze si stanno attrezzando strategicamente e militarmente per la sfida dei prossimi anni: gli USA stanno rafforzando la cooperazione militare con gli alleati della regione asiatica, cioè Giappone, Filippine, Singapore, Pakistan e ultimamente soprattutto l'India; dal canto suo, la Cina sta cercando di scoraggiare i Paesi vicini dall'ospitare basi americane e sta rafforzando i legami con la Russia, con cui ha avviato esercitazioni militari congiunte nell'agosto 2005 (Klare, 2005). Mentre però tutto ciò riguarda gli scenari futuri, nell'immediato i rapporti tra USA e Cina si intrecciano già nell'ambito del Consiglio di sicurezza per la vicenda iraniana: secondo un accordo da circa 100 miliardi di dollari siglato nell'ottobre 2004, l'Iran sarà il principale fornitore di gas della Cina nei prossimi 25 anni, dunque si può comprendere la ferma opposizione cinese a sanzioni e ancor più a interventi militari contro l'Iran; così come tra le ragioni che determinano l'ostinazione antiiraniana degli USA, probabilmente quell'accordo non è irrilevante.


L'importanza del Warfare

Che l'economia sia strettamente legata alla guerra, che ne influenzi cause e conseguenze, è cosa nota e dunque centrale per comprendere la deriva bellica degli ultimi anni e il significato di quella "guerra infinita" dichiarata dall'Amministrazione Bush. A questo proposito un utile supporto è fornito da un recente saggio dall'eloquente titolo Escalation. Anatomia della guerra infinita, curato da Alberto Burgio, Manlio Dinucci e Vladimiro Giacché, che hanno unito competenze economiche, sociologiche e giornalistiche per svolgere un'analisi dettagliata dei collegamenti tra economia statunitense (e mondiale) e azione militare.

"Se c'è una costante nella storia economica degli USA dell'ultimo secolo, è la stretta correlazione tra interventi militari e ripresa dell'economia", scrivono gli autori che ricordano come Seconda guerra mondiale, guerra di Corea, guerra del Vietnam, "scudo stellare" dell'Amministrazione Reagan e Prima guerra del Golfo si siano verificate sempre in prossimità di cicli di crisi dell'economia statunitense e l'abbiano fortemente rilanciata. L'ultima recessione economica del Paese più indebitato del mondo (con un deficit commerciale che nel 2005 ha raggiunto la quota record di 800 miliardi di dollari e un debito pubblico estero di circa 3000 miliardi di dollari, pari al 30% del PIL) si è verificata nel 2001 e, a questo proposito, fa un certo effetto leggere quanto scriveva la Morgan Stanley (una delle società economicofinanziarie più importanti degli USA e del mondo) in un report caricato sul suo sito web alle 8 del mattino dell'11 settembre 2001: "Che cosa può ridurre drasticamente il deficit delle partite correnti americane e per questa via eliminare i rischi più significativi per l'economia degli USA e per il dollaro? La risposta è: un atto di guerra". Un'ora dopo, due aerei si schiantavano contro le Twin Towers, dove la stessa Morgan Stanley aveva i suoi uffici. La guerra era dunque e comunque "nell'aria", secondo gli autori di Escalation, tanto che il bilancio dello Stato di quell'anno aveva già previsto un cospicuo aumento della spesa militare. "In termini generali, le spese militari possono essere considerate come una forma di spesa pubblica per il rilancio dell'economia.

Esse rappresentano una forma di deficit spending, ossia una delle forme attraverso cui lo Stato stimola l'economia per mezzo del debito pubblico", una sorta di Warfare preferito al Welfare perché: sostenuto anche dai liberisti (a differenza del secondo); molto importante per l'industria (non solo bellica); favorisce imprese che operano in regime di oligopolio (o monopolio) e dunque protette dalla concorrenza straniera; le armi si possono vendere, realizzando enormi profitti e, caratteristica singolare, hanno un valore d'uso anche se non utilizzate, perché possono costituire un importante mezzo di pressione politica. In base a tali presupposti, gli autori del saggio analizzano i recenti conflitti in Afghanistan e Iraq, che portano con sé l'aumento esponenziale delle spese militari, la strategia geopolitica del controllo delle risorse energetiche e, soprattutto l'Iraq, l'enorme business della ricostruzione, notando come oltre i due terzi dell'aumento del PIL statunitense nel 2002 e nel 2003 sono da attribuire all'industria bellica e al suo indotto, così come la ripresa dei listini di borsa. Nonostante ciò, i problemi economici degli USA non sono risolti e il dollaro perde valore rispetto alle altre valute, "la guerra all'Iraq è servita ma non è bastata, perché la crisi degli USA è ormai strutturale": i recenti dati economici mostrano come "ogni giorno sono prestati agli USA 1,8 miliardi di dollari", provenienti soprattutto dall'Asia e in particolare da Giappone e Cina, che acquistano titoli americani per sostenere il dollaro e dunque le loro esportazioni negli USA, cosa che "permette agli americani di vivere al di sopra delle loro possibilità", come nota il premio Nobel Lawrence Klein.

Un crollo del dollaro, inoltre, a differenza di svalutazioni avvenute in passato, avrebbe gravi ripercussioni su tutta l'economia mondiale, con fenomeni di deflazione e di forte recessione del sistema globalizzato. Dunque? Secondo gli autori di Escalation, una guerra "permanente", "infinita" nel tempo ma limitata nello spazio, "sembra dare a suo modo una risposta a questo problema". La verità nascosta dietro la falsa retorica della "guerra al terrore" e della "democratizzazione in Medio Oriente" è quella contenuta nell'affermazione su cui Bush ha impostato e vinto la sua campagna elettorale: "Difenderò il nostro tenore di vita a ogni costo". La guerra quindi, osservano gli autori, come continuazione dell'economia con altri mezzi: "Come strumento per rimettere in moto l'economia, per aprire mercati non ancora disponibili, per garantirsi il controllo di materie prime fondamentali, per vincere la guerra mondiale delle valute, per garantirsi la capacità di non pagamento dei debiti".

C'è chi legge addirittura lo stesso prolungamento del conflitto in Iraq e alcune scelte dell'Amministrazione Bush, così fallimentari da essere incomprensibili, non tanto come infortuni ma piuttosto dettati da una strategia motivata dal fatto che "i conflitti prolungati esercitano un influsso sull'attività economica di tutti i Paesi che, direttamente o indirettamente, vi sono coinvolti". L'utilizzo della leva militare, non avviene più semplicemente a sostegno delle dinamiche economiche dell'espansione imperialista "ma in sostituzione di esse",cosa che crea però un pericoloso circolo vizioso tra indebitamento, riduzione della credibilità internazionale e conseguente necessità di creare un "impero formale" fondato sul dominio militare, per il supporto del quale è necessario nuovo indebitamento (Burgio, Dinucci, Giacché, 2005).

Una simile analisi interpretativa spiega l'escalation dei conflitti e la necessità di sempre nuovi obiettivi, per una "guerra al terrore" che, se per il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld sarà "infinita", secondo Bush "non può essere vinta", perché la vera vittoria americana sta nel prolungamento temporale della guerra. Nel Quadrennal Defense Review del Pentagono, documento quadriennale che delinea la politica di sicurezza strategica degli USA e consegnato il 6 febbraio 2006 al Congresso statunitense perché lo discuta insieme al budget di spesa militare, previsto in 439,3 miliardi di dollari per il 2007 (cui si aggiungono oltre 120 miliardi di dollari per le operazioni in Afghanistan e Iraq), si legge: "Gli Stati Uniti devono essere preparati a condurre questa guerra in molti luoghi contemporaneamente e per molti anni a venire" (Pascucci, 2006).


Rafforzare il sistema ONU e porre fine alle ipocrisie


In una simile prospettiva, certo non entusiasmante, si inseriscono però numerose variabili che, si spera, potranno influenzarla, anche solo per il fatto che la complessità delle relazioni internazionali e la loro totale interconnessione in un mondo "globalizzato" non possono più garantire a un unico soggetto, seppur superpotenza, di decidere e portare a compimento senza ostacoli una strategia legata quasi esclusivamente ai propri interessi.

Il peso crescente delle economie emergenti (Cina e India su tutte) sulla scena mondiale, il forte potere "contrattuale" esercitato anche sulla potenza americana dai maggiori esportatori di fonti energetiche (amici, come l'Arabia Saudita, rivali come la Russia o nemici dichiarati come l'Iran), il nascente "blocco" di Paesi latinoamericani sempre meno disposti a essere il "cortile di casa" degli USA e sempre più resistenti ai diktat statunitensi e, non ultimo, il ruolo internazionale che prima o poi riuscirà ad avere l'UE, influiranno certamente sulla strategia internazionale americana. Ma anche il livello nazionale potrà condizionare l'azione dell'attuale Amministrazione USA, che ha raggiunto i minimi storici nei consensi e, comunque, al massimo tra due anni terminerà il suo mandato. Altro ruolo importante, e in alcuni casi decisivo, è quello della società civile nazionale e internazionale, che ha indubbiamente contribuito alla sensibilizzazione dell'opinione pubblica mondiale e alla conseguente crescita di un generale sentimento antiguerra, supportato dalla globalizzazione delle comunicazioni e dal serio lavoro di alcuni media, che hanno indebolito fortemente la propaganda di guerra svelando scomode verità (dall'inesistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq all'aberrante sistema di violazioni dei diritti umani intrinseco alla "guerra al terrorismo").

Dunque la "partita" non è persa, soprattutto se cresceranno le pressioni per un rafforzamento dell'ONU in modo che diventi arbitro legittimato delle controversie internazionali, soggetto regolatore degli squilibri mondiali e, quando l'azione di prevenzione non è sufficiente, protagonista di concreti ed efficaci interventi di peacemaking, peacebuilding e peacekeeping.

Come osserva Joseph Stiglitz: "La globalizzazione ha significato un'integrazione internazionale più serrata e ciò a sua volta ha comportato una maggiore necessità di agire come collettività. Le Nazioni Unite sono l'istituzione internazionale creata appositamente per questo scopo: se il mondo cambia, anche l'ONU deve cambiare di conseguenza" (Stiglitz, 2005). Per quanto riguarda comunque le situazioni contingenti e le principali crisi aperte sulla scena internazionale, qualche correzione di rotta sarebbe necessaria e possibile fin da subito.

Per il processo di "democratizzazione" del Medio Oriente, ad esempio, i recenti risvolti hanno dimostrato come bombardamenti e sistematiche violazioni dei diritti ottengano l'unico risultato di rafforzare le formazioni estremiste, e che le elezioni non costituiscono di per sé garanzia di compimento della democrazia. Si tratta invece di un percorso che dovrebbe essere avviato "dall'implementazione di processi progressivi di costruzione della democrazia ispirati a politiche di societybuilding anziché di nationbuilding. Un percorso che faccia crescere quella parte di società civile di quei Paesi, oggi assai debole, che rifiuta di essere stretta dalla duplice tenaglia di regimi autoritari e movimenti islamisti" sostiene Renzo Guolo (2006 a). Nel caso specifico di Hamas, giunta al governo dell'ANP con la vittoria alle recenti elezioni palestinesi, ci si può chiedere, come fa Bernardo Valli: "Come comportarsi in un mondo afflitto dal cancro del terrorismo, quando un partito che lo pratica viene legittimato dal voto?".

Innanzitutto analizzando seriamente le ragioni di questa vittoria e tutti gli errori commessi da governo israeliano e comunità internazionale che hanno causato l'inevitabile crescita di consenso popolare per Hamas, come si è detto nel Punto di questo capitolo. Poi, considerando che non si può riconoscere l'esito elettorale solo quando è gradito e che, partecipando alle elezioni, "Hamas ha comunque accettato di entrare in un processo politico e in un quadro istituzionale creato dagli accordi di Oslo, che i suoi dirigenti hanno sempre rifiutato" (Valli, 2006). Certo, devono continuare le pressioni internazionali affinché il neogoverno palestinese ripudi le attività terroristiche e riconosca il diritto all'esistenza dello Stato d'Israele, ma come sottolinea l'ex presidente americano Jimmy Carter, osservatore alle elezioni palestinesi, bisogna anche finalmente ammettere che "la colonizzazione dei Territori palestinesi da parte di Israele è il maggior ostacolo alla pace" (Carter, 2006) ed esercitare altrettante pressioni sul neogoverno israeliano perché metta termine alle decisioni unilaterali, dia nuova disponibilità al negoziato e riconosca i diritti dei palestinesi. In Iraq la questione è altrettanto complessa, perché gli occupanti agloamericani si trovano di fronte a un bivio che, da un lato, prevede il ritiro in una situazione di caos permanente, con conseguente ammissione del fallimento dell'operazione, dall'altro, il più probabile prolungamento dell'occupazione, nella consapevolezza però che ciò sarebbe causa di ulteriore tensione e comporterebbe altre gravi perdite umane (su entrambi i fronti), ormai non più tollerate dall'opinione pubblica, sia mondiale sia nazionale.

Così com'è chiaro che una degenerazione in guerra civile potrebbe tornare utile a molti: all'internazionale jihadista terroristica presente sul territorio, per mantenere destabilizzato il Paese e accrescere l'odio verso gli occupanti; ai sunniti per non legittimare un processo che, al momento, li vede esclusi dal governo del Paese e soprattutto dalla spartizione dei proventi petroliferi; a una parte degli sciiti che potrebbero così, forti del supporto iraniano, mettere fine alle provocazioni sunnite e misurare con la forza i fragili equilibri interni alla loro stessa comunità etnicoreligiosa; agli occupanti, che avrebbero un motivo per prolungare la loro presenza nel Paese e nella regione, strategica per il controllo delle risorse, per la crisi con il vicino Iran e per i motivi di "guerra infinita" di cui si è detto nel paragrafo precedente. Molto dipenderà dall'esito dei colloqui che si terranno nei prossimi mesi tra USA e Iran, confermati da entrambe le parti, e dalle iniziative politiche e diplomatiche che i vari soggetti internazionali (ONU, G8, Lega Araba, UE, ecc.) saranno in grado di produrre. Per quanto concerne la questione del nucleare iraniano, situazione caratterizzata da un complesso gioco delle parti con implicazioni e interessi vari e a vari livelli (di cui si è detto nel Punto), basta ricordare quanto affermato dal direttore dell'AIEA nell'ottobre 2005, quando l'Agenzia dell'ONU è stata insignita del Nobel per la pace: "Noi avevamo detto che in Iraq non c'erano armi di distruzione di massa. Il disarmo del regime di Saddam Hussein è stato un successo dell'AIEA: tra il 1991 e il 1997 gli ispettori dell'Agenzia sono riusciti a ridurre l'arsenale iracheno. I fatti ci hanno poi dato ragione" ha detto Mohammed El Baradei. Basterebbe dunque mettere in grado l'AIEA di continuare il suo lavoro anche in Iran, facendo in modo che le autorità di Teheran siano costrette ad accettare i doveri previsti dall'adesione al TNP riconoscendo però loro i legittimi diritti, dunque evitando inutili prove di forza che rischiano solo di rafforzare la coesione nazionale iraniana attorno agli attuali governanti utraconservatori, con conseguenze molto pericolose.

Rispetto ai numerosi conflitti interni tra eserciti regolari e gruppi guerriglieri indipendentisti, i fatti recenti dimostrano come solo negoziati condotti seriamente e moderati da soggetti terzi possano portare utili risultati per la pacificazione e il sollievo delle popolazioni martoriate da anni di guerra. Si tratta di un processo lungo, strettamente legato alla volontà politica dei governi e, in molti casi, della comunità internazionale. Ma, come dimostrato anche recentemente in Irlanda del Nord, nella provincia indonesiana di Aceh o nei Paesi baschi, è l'unica via d'uscita, cosa che seppur con molti limiti si sta tentando anche in Colombia e che dovrebbe far riflettere chi invece continua a perseguire senza alcun successo la "linea dura", come Putin in Cecenia. Dopo la strage di Beslan del 2005, infatti, il governo russo ha dato il via a una "campagna di repressione nel Caucaso che sta spingendo sempre più giovani nella rete clandestina", sostiene la giornalista russa Anna Politkovskaja che ricorda come i ribelli uccisi a Nalcik (nella provincia russa del KabardinoBalkaria) nell'ottobre 2005 non fossero ceceni e fossero tutti molto giovani: il più grande aveva 20 anni, il più piccolo 14. Un dato significativo, perché dimostra come la politica di Mosca e la conseguente repressione in atto non facciano che creare una specie di "protestantesimo musulmano", un "underground musulmano anche dove non c'era", che cova risentimento e "giura vendetta", costituendo una riserva di giovani braccia per le squadre della guerriglia ormai non più solo cecena. Così, Politkovskaja ritiene che non vi siano prospettive finché il Cremino non cambia politica, mentre gli attacchi terroristici nella regione sono destinati a continuare: "Non è una previsione, ma la constatazione di un fatto" dice la giornalista russa (Cucurnia, 2005).

Infine, per quanto riguarda la "guerra al terrorismo", la cosa più importante sarebbe porre fine alle troppe ipocrisie e strumentalizzazioni, prendendo logicamente atto del fatto che il terrorismo, non essendo un nemico che risponde a canoni della guerra tradizionale non può essere combattuto e tantomeno sconfitto con operazioni di guerra tradizionali. Ma la cosa è talmente evidente e nota che pare quasi superfluo ricordarlo. La necessaria azione di prevenzione dovrebbe partire proprio dal porre fine ai metodi di guerra e gravi violazioni finora adottati, perché non fanno che dare argomenti ai reclutatori di aspiranti jihadisti appartenenti a quella "nuova generazione" che si sta diffondendo anche in Occidente. Contemporaneamente sarebbe necessaria un'azione di intelligence capillare e finalizzata veramente all'individuazione delle organizzazioni terroristiche e dei loro membri, non utilizzata per altri fini, come rileva il recente libroinchiesta di Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo (Bonini, D'Avanzo, 2006). Quindi tornare nell'ambito giudiziario dell'azione di contrasto, ponendo fine alle assurde pratiche extragiudiziarie delle extraordinary renditions (vedi il capitolo Le violazioni e le discriminazioni) e "colpire" in modo mirato, arrestando in base a prove effettive e sottoponendo queste persone a giudizio: esattamente l'opposto di quanto avviene in luoghi quali Guantánamo e nei vari black sites sparsi nel mondo. Anche perché, un'efficace e seria azione congiunta di intelligence e magistratura porta risultati concreti, come ha dimostrato il processo avviato in Spagna dopo l'11 settembre 2001 e conclusosi nel settembre 2005 con le condanne di 18 appartenenti a una cellula iberica di Al Qaeda. Al termine del dibattimento, il pubblico ministero, Pedro Rubira, aveva dichiarato: "Una sentenza di condanna manderebbe un chiaro messaggio al mondo: per combattere il terrorismo non c'è bisogno di guerre o campi di detenzione" (Oppes, 2005). Come dargli torto? (...)

 
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