Le recenti decisioni delle autorità giudiziarie in materia di terrorismo internazionale rischiano - ancora una volta - di trasformare una materia complessa in una competizione sportiva, dove il tenore dei commenti varia a seconda del risultato o del minuto di gioco.
Cercando di procedere per sommi capi, e con le approssimazioni che ne conseguono, è indiscutibile che il "terrorismo" è prima di tutto un concetto politico, metagiuridico e come tale, pertanto, influenzato da fattori storici, politici, culturali, militari, religiosi ed ideologici. Da ciò deriva soprattutto la difficoltà di formulare una definizione universalmente valida, posto che un atto violento che un ordinamento giuridico (che recepisce un sistema ideologico) può qualificare come terroristico, per altro ordinamento può addirittura assurgere ad atto fondativo di un nuovo patto costituzionale. Insomma, per dirla con le parole del Ministro della Giustizia britannico Jack Straw del 1998: "non dimentichiamo che chi oggi è considerato un terrorista potrebbe domani essere definito un combattente per la libertà".
Il fenomeno del terrorismo, per le accennate ragioni metagiuridiche, solleva per la intrinseca permeabilità del diritto a siffatte ragioni, numerose questioni giuridiche. La prima difficoltà sta nella sua definizione: cos'è il terrorismo per la comunità internazionale e cos'è il terrorismo nell'ordinamento italiano?
Sul piano del diritto internazionale, è intuibile che a livello universale non vi sia omogeneità di principi, né tantomeno unitarietà di politiche nei confronti del fenomeno terroristico: è, dunque, difficile far accettare per vie pattizie - e cioè tramite di trattati internazionali - agli stati una definizione che può ovviamente incidere, limitandola, sull'esercizio della sovranità.
Un esempio pratico aiuterà a focalizzare il punto critico. Poniamo che il terrorismo venga identificato con "ogni atto la cui finalità per natura o contesto, sia quella di intimidire una popolazione o di costringere un governo o una organizzazione internazionale a fare o ad omettere qualche atto...'', come in effetti viene definito nell'articolo 2.1, lettera b della Convenzione Internazionale per la soppressione del finanziamento del terrorismo delle Nazioni Unite, New York, 1999. E' lampante che tale definizione rischia di esporre molti stati, tra i quali anche qualche stato che annuncia di "esportare la democrazia", a veder classificate le proprie azioni di politica estera condotta con l'impiego della forza come azioni terroristiche.
Per evitare equivoci, giova ricordare che in effetti in un famoso precedente giurisprudenziale deciso dalla Corte internazionale di giustizia con sede all'Aja nel 1986, gli Stati Uniti d'America vennero accusati dal Nicaragua di aver usato contro di lui la forza armata diretta, disseminando mine nelle acque territoriali nicaraguensi, causando danni alle navi mercantili del Nicaragua e di altri Stati; oltre ad aver attaccato i porti, le installazioni petrolifere e le basi navali e inoltre di aver fornito assistenza logistica ai ribelli anti-sandinisti (i c.d. contras). La Corte in sentenza stabilì che le manovre militari condotte dagli U.S.A. in Nicaragua erano illecite, in quanto costituivano una violazione del principio che vieta l'uso della forza. Oggi tali azioni, secondo la definizione prospettata dalla Convenzione di New York del 1999, sarebbero pacificatamente definite come terroristiche, con ciò spiegandosi la riluttanza delle potenze mondiali a sottostare ad organi sovranazionali con potestà giurisdizionale sui reati di "terrorismo".
Ancora, e da altro punto di vista: l'azione è terroristica e punibile anche quando tale azione sia diretti contro Stati dittatoriali, violenti o solo apparentemente ammantati di democraticità? Per citare come esempio due circostanza abbastanza note: Cicerone esclude che chi uccide un tiranno possa essere chiamato assassino, e Friedrich Staps nel 1809 riteneva un "dovere" uccidere Napoleone.
Ancora: l'azione è terroristica e dunque vietata anche quando essa si cali in contesti di violenza etnica o di guerra civile? Anche quando pretenda di affermare con la forza e la violenza diritti fondamentali o la democrazia?
Se questo è - in estrema sintesi, e rimandando per una disamina più completa del fenomeno ai documenti pubblicati sul sito www.studiperlapace.it - il quadro delle resistenze a livello internazionale, anche la normativa nazionale risente delle medesime difficoltà.
Vero è che il legislatore italiano - spronato dall'onda emotiva e dalle preoccupazioni di ordine pubblico provocate dalle drammatiche vicende dell'11 settembre - ha varato in via d'urgenza il decreto legge n. 374/2001 ("Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale") conl'intento, da un lato, di colmare la lacuna normativa preesistente e dall'altro, di approntare metodi di indagine e di repressione più pervasivi.
La legge di conversione 438/2001, ha poi definitivamente introdotto l'art.270 ter del codice penale che stabilisce che "chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni.. (...) Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione e un organismo internazionale (...)". La norma citata è frutto di una legislazione cd. di emergenza che anche in questo caso rovescia sull'interprete i problemi di coordinamento. Infatti, la norma pone una serie di problemi interpretativi di non facile soluzione, dai quali dipende non solo la compatibilità costituzionale della norma ma la cogenza stessa della norma, cioè la sua possibilità di applicarla.
Sembra infatti trattarsi di una pura tautologia, laddove punisce "chiunque promuova associazioni che si propongano atti di violenza su persone o cose, con finalità di terrorismo". E' infatti indiscutibile il fatto che la norma non "descrive" il comportamento vietato: l'azione terroristica si risolve per la norma nell'azione violenta posta in essere con "finalità di terrorismo", non chiarendo dunque cosa significhi la "finalità di terrorismo". Le difficoltà interpretative emergono soprattutto se rapportato sul piano internazionale, e dunque in ciò sta la ragione delle decisioni giudiziali di cui alle recenti cronache: se per i reati di terrorismo e di eversione "interni" si ha come parametro l'ordinamento democratico o il suo equivalente "ordinamento costituzionale", lo stesso non potrà dirsi nel caso di terrorismo internazionale, posto che l'integrità politica, economica e sociale di un paese straniero non rientra nei compiti punitivi dello stato (italiano).
Delle insidie legate alla introduzione della fattispecie di terrorismo "anche" internazionale (rubrica dell'articolo 270 bis) sembrava consapevole anche il decreto legge 374/2001, che vietava di procedere senza l'autorizzazione del Ministero della Giustizia, e ciò al fine "di consentire - come si legge nella relazione al decreto legge - una attenta valutazione politica dei fatti, riguardanti nei possibili e delicati riflessi sui rapporti internazionali" (sic!).
L'assenza di una nozione specifica del "fine di terrorismo" rischia di trasformare la fattispecie criminale in un magma indefinito, consentendo la integrazione della fattispecie sulla base delle scelte e delle selezioni politiche dell'esecutivo, o - peggio - del giudicante, il quale suo malgrado dovrà o assolvere per indeterminatezza della fattispecie incriminatrice oppure procedere ad una interpretazione integrativa. Entrambe le soluzioni sarebbero ugualmente illegittime. Il fatto deve configurare un reato in forza di una norma penale, e né il giudice né l'esecutivo possono creare o modellare, con apprezzamenti discrezionali o politici, una nozione di fine di terrorismo internazionale.
Certo è che perseguendo l'obiettivo della sconfitta del terrorismo vi è il rischio - evidente anche leggendo le dichiarazioni di questi giorni - di violare le libertà fondamentali: in una dichiarazione comune Mary Robinson (Alto Commissariato per i Diritti Umani dell'ONU), Walter Schwimmer (Segretario Generale del Consiglio d'Europa e Gérard Stoudmann (Direttore dell'Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell'OSCE) in data 29 novembre 2001 avvertono che sono particolarmente a rischio la presunzione di innocenza, il diritto ad un giusto processo, il divieti di torture, i diritti alla privacy, la libertà di espressione e di assemblea ed il diritto di chiedere asilo, ribadendo che colpendo determinati gruppi etnici o religiosi, le misure antiterroristiche potrebbero risultare contrarie alle leggi sui diritti umani ed agli impegni internazionali e conterrebbero il rischio di provocare l'aumento pericoloso di discriminazione e razzismo.
Speriamo vengano smentiti.
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