Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Nonnismo. profili di tutela penale
Conferenza


Intervento al
CONVEGNO DI STUDI GIURIDICI
PADOVA, 30 NOVEMBRE 2000

Diritto e Forze armate. Nuovi Impegni

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario.
Regione Militare Nord.

Testi provvisori; trascrizioni non ufficiali.
Tutti gli interventi sono leggibili e scaricabili cliccando qui.

Si ringrazia Silvio Riondato (www.riondato.com) per la disponibilità. Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
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Documento aggiornato al: 2000

 
Sommario

Con il termine nonnismo vengono comunemente definiti quei comportamenti ingiuriosi o intimidatori o violenti tenuti dai militari più anziani nei confronti delle reclute, costituenti l'esercizio di un'autorità tirannica e vessatoria, fondata su un presunto potere derivante dall'anzianità.

 
Abstract
 

Con il termine nonnismo vengono comunemente definiti quei comportamenti ingiuriosi o intimidatori o violenti tenuti dai militari più anziani nei confronti delle reclute, costituenti l'esercizio di un'autorità tirannica e vessatoria, fondata su un presunto potere derivante dall'anzianità .

Tali comportamenti, in forza del vincolo di solidarietà fra militari più anziani in servizio , mirano ad imporre nella convivenza all'interno degli ambienti militari un insieme di regole diverse e aliene da quelle proprie della disciplina militare , dando vita ad una vera e propria gerarchia parallela a quella ufficiale.
Il fenomeno del nonnismo, a lungo colpevolmente sottovalutato non solo dai vertici istituzionali ma dalla stessa opinione pubblica, è stato negli ultimi tempi oggetto di un profonda analisi, sollecitata dal forte allarme sociale suscitato da gravi episodi di violenza verificatesi in ambienti militari.

Proprio al fine di comprendere le cause del fenomeno e di individuare i possibili rimedi, la Commissione difesa della Camera ha svolto un'indagine conoscitiva in materia di episodi di violenza e di qualità della vita nelle caserme . Da tale indagine è emerso che il nonnismo negli ambienti militari è caratterizzato dall'esistenza di una gerarchia informale, fondata sull'anzianità di servizio, che si affianca a quella ufficiale, e da un sistema di poteri, costituiti in capo ai militari più anziani, cui corrispondono obblighi e imposizioni a carico delle reclute, costrette a subire atti di sopraffazione e violenza.

Per prevenire e contrastare il fenomeno lo Stato Maggiore dell'Esercito ha adottato, nell'ultimo triennio, molteplici iniziative. Nell'aprile del 1998 ha costituito una Commissione di esperti (composta sia da soggetti interni che esterni all'amministrazione) incaricata di indagare il fenomeno per rinvenirne le cause e proporre soluzioni adeguate.

Al termine dei lavori la Commissione ha redatto una relazione conclusiva, cui è seguita l'emanazione da parte del Capo di Stato maggiore dell'Esercito della circolare 24 marzo 1999 che ha fissato una serie di direttive volte alla prevenzione e alla repressione in sede disciplinare degli atti di nonnismo.

E' stato, inoltre, istituito l'"Osservatorio permanente sulla qualità della vita nelle caserme e sui disagi sofferti dal personale", che, avvalendosi anche dell'attività di un Numero Verde, ha l'incarico di raccogliere ed elaborare le informazioni relative a fatti di violenza in ambienti militari; a tal fine è stato distribuito un questionario diretto a rilevare notizie sulla qualità di vita nelle caserme.

Inoltre, a partire dall'aprile 1998, è stata predisposta un'attività ispettiva dei Vice Comandanti di Regione Militare nelle caserme del territorio di competenza, diretta a verificare se vengono poste in essere tutte le misure idonee a contrastare efficacemente il fenomeno del nonnismo .
Le iniziative adottate dai vertici militari hanno sicuramente contribuito al contenimento del fenomeno, che è, secondo le statistiche ufficiali, in netta regressione rispetto al passato: nel 1999, infatti, sono stati registrati non meno di 650 episodi di nonnismo mentre nel 2000 se ne sono contati 199 .

La Commissione difesa ha rilevato come alle decise ed efficaci iniziative operate sul piano amministrativo e disciplinare per contrastare l'odioso fenomeno del nonnismo, non corrisponda un altrettanto efficace risposta sanzionatoria sul piano penale. Probabilmente ciò dipende dal fatto che nel sistema penale militare non si rinviene alcuna norma in cui il nonnismo rilevi come elemento definitorio di fattispecie incriminatrice o, quantomeno, di circostanza aggravante.

Gli atti di nonnismo, quindi, vengono sanzionati penalmente facendo ricorso alle fattispecie di abuso di autorità - violenza contro un inferiore, minaccia o ingiuria a un inferiore (artt. 195 s. c.p.m.p.) -, oppure ai reati di percosse, lesioni personali, ingiuria, minaccia e diffamazione, previsti nel codice penale militare di pace (artt. 222 ss.) ed, infine, a reati disciplinati dal codice penale comune quali la violenza privata (art. 610 c.p.), l'estorsione (art. 629 c.p.), il sequestro di persona (art. 605 c.p.).

La configurabilità dei reati di abuso di autorità in relazione a fatti di nonnismo crea notevoli problemi sul piano interpretativo, dato che la tutela del rapporto gerarchico è sottoposta a rigide limitazioni.

I delitti di abuso di autorità (artt. 195, 196 c.p.m.p.), e i corrispondenti delitti di insubordinazione (artt. 186, 187, 189, 190 c.p.m.p.) sono stati oggetto di una profonda rivisitazione da parte della l. 26.11.1985, n. 689, intervenuta dopo che la Corte costituzionale con numerose pronunce di incostituzionalità aveva sostanzialmente demolito l'originario impianto normativo del codice penale militare del 1941.

Infatti, tali fattispecie, dirette a sanzionare i fatti lesivi del rapporto gerarchico, sia ascendente che discendente, erano caratterizzate da una ingiustificata diversificazione del trattamento sanzionatorio, per cui le condotte di abuso di autorità erano punite più lievemente delle speculari condotte di insubordinazione ; inoltre, il rapporto gerarchico, essendo considerato immanente e indelebile, veniva tutelato in qualsiasi tempo e luogo e qualunque fosse la funzione esercitata dal superiore .
La Corte costituzionale dichiarò dapprima l'illegittimità costituzionale del sistema delle pene previsto per i reati di insubordinazione di cui agli artt. 186 e 189 c.p.m.p. e poi, di conseguenza, dichiarò illegittimo anche il trattamento sanzionatorio stabilito per i reati di abuso di autorità (precisamente le pene degli artt. 195 co. 1 e 196 co. 3 c.p.m.p.).

La l. 685/1985 ha ridisciplinato l'intera materia, eliminando le incongruenze sanzionatorie del regime previgente, ma soprattutto superando il principio dell'indelebilità del rapporto gerarchico, che ora viene tutelato soltanto se i fatti di abuso di autorità e di insubordinazione vengono commessi per cause non estranee al servizio e alla disciplina, oppure in situazioni tassativamente previste dalle legge . Ne consegue che il rapporto gerarchico viene salvaguardato solo in presenza di situazioni direttamente o indirettamente connesse con il servizio o la disciplina.

Non è più sufficiente, per configurare l'abuso di autorità o l'insubordinazione, che la persona offesa abbia la qualità di superiore o inferiore. Infatti, l'art. 199 c.p.m.p., così come sostituito dall'art. 9 l. 689/1985, prevede che le disposizioni che sanzionano l'insubordinazione e l'abuso di autorità non si applicano se i fatti sono commessi per cause estranee al servizio e alla disciplina, fuori dalla presenza di militari riuniti per servizio e da militare che non si trovi in servizio o a bordo di una nave militare o di un aereo militare o in luoghi militari .

Nella formulazione originaria l'art. 199 c.p.m.p. menzionava tra le condizioni di applicabilità degli artt. 186 ss. c.p.m.p. anche i luoghi militari. Era, quindi, sufficiente che la violenza, la minaccia o l'ingiuria si verificassero in luogo militare perché si realizzassero, a seconda dei casi, l'insubordinazione o l'abuso di autorità.

E' evidente che proprio il riferimento ai luoghi militari appariva di particolare rilievo al fine di poter configurare come abuso di autorità gli atti di nonnismo commessi in ambienti militari, dato che quasi mai questi sono posti in essere per ragioni e finalità attinenti alla disciplina o al servizio . A tale proposito, infatti, si è fondatamente rilevato che i fatti di vessazione riconducibili al nonnismo non sono attinenti alle funzioni connesse con il grado, cioè non realizzano un abuso di funzioni bensì un abuso del grado o della posizione di servizio, mediante una strumentalizzazione a fini completamenti atipici di una posizione gerarchicamente superiore .

La Corte costituzionale, però, con la sentenza 17 gennaio 1991, n. 22 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 199 c.p.m.p. limitatamente alla parole "o in luoghi militari", in quanto rendeva applicabili le più severe disposizioni penali sull'insubordinazione e sull'abuso di autorità a fatti quali le percosse, le lesioni e le ingiurie fra militari commessi per cause estranee al servizio e alla disciplina militare, solo perché realizzati in luogo militare.

La questione di costituzionalità era stata sollevata dal Tribunale di Padova che doveva giudicare proprio la condotta di un caporale imputato del reato di abuso di autorità per aver ingiuriato una recluta, che a sua volta era imputata del reato di insubordinazione per aver reagito all'offesa. Il giudice rimettente evidenziava come solo perché i fatti erano stati commessi in luogo militare, anche se per cause estranee al servizio e alla disciplina, erano applicabili le norme incriminatici speciali dell'insubordinazione e dell'abuso di autorità, anziché quelle comuni di cui agli artt. 222 ss. c.p.m.p.; conseguenza della sussistenza del regime speciale era non solo la maggior severità del trattamento sanzionatorio ma soprattutto l'impossibilità di applicare le cause di non punibilità della provocazione e della ritorsione, i cui estremi esistevano nel caso di specie se i fatti fossero stati configurabili come reati comuni. La Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione, poiché "nella situazione considerata non ci si trovava di fronte ad un rapporto con connotazione obbiettivamente militare nel quale veniva in gioco il bene della disciplina e quindi la rilevanza del rapporto gerarchico, dal momento che il fatto era stato commesso per cause del tutto estranee al servizio o alla disciplina militare e l'agente non si trovava in servizio né alla presenza di militari riuniti in servizio, sicché il reato risultava collegato in modo del tutto estrinseco all'area della tutela del servizio e della disciplina militare essendo rappresentato l'unico momento di collegamento dalla commissione in luogo militare.

Ciò posto la tutela di quelle esigenze viola senza sufficienti ragioni giustificative il principio della pari dignità che deve risiedere nella regolamentazione dei rapporti fra militari che si svolgono fuori dal servizio in ambito privato. Né può dirsi che le esigenze della disciplina restino prive di tutela, perché ai fatti così espunti dalla disciplina speciale restano pur sempre applicabili, oltre alle sanzioni disciplinari, quelle previste dagli artt. da 222 a 229 c.p.m.p.".

Riteniamo condivisibile la pronuncia del Giudice delle leggi che, limitando l'applicabilità delle norme sull'abuso di autorità e sull'insubordinazione, ha ritenuto che tali disposizioni siano finalizzate a punire le lesioni del rapporto gerarchico nella sua attualità di funzionamento e non certamente a reprimere tutte le offese comunque provenienti da un superiore e dirette ad un inferiore e viceversa .

E' necessario, però, esaminare se la disciplina che sanziona i reati contro la persona, di regola applicabile agli atti di gratuita vessazione inflitti ai militari meno anziani , possa essere attualmente considerata un utile strumento per contrastare efficacemente il preoccupante fenomeno del nonnismo.
Si deve, infatti, evidenziare che molti dei reati contro la persona disciplinati dagli artt. 222 ss. c.p.m.p. vengono puniti con la reclusione non superiore nel massimo a sei mesi di reclusione e che, quindi, sono sottoposti ex art. 260 c.p.m.p. alla condizione di procedibilità della richiesta del comandante del corpo (o di altro ente superiore) , che deve essere presentata entro un mese dal giorno in cui il comandante ha avuto notizia del fatto criminoso .

Tali reati, cioè, possono essere perseguiti solo se il comandante del corpo decide di richiedere il procedimento penale, essendo rimesso alla sua discrezionale valutazione se un determinato fatto meriti di essere sottoposto al giudizio dell'autorità giurisdizionale o debba essere valutato solo sul piano disciplinare . Ciò significa che il comandante può decidere di inoltrare la richiesta di procedimento e nello stesso tempo procedere disciplinarmente ; può non richiedere il procedimento né procedere disciplinarmente, oppure scegliere alternativamente una delle due possibilità. Come è stato giustamente rilevato gli effetti pratici della richiesta sono due: "possibilità di creare un privilegio, sottraendo l'autore del reato a qualunque tipo di repressione; possibilità di assumere un comportamento totalmente repressivo nei confronti di determinati comportamenti o di determinate persone" .

E' chiaro che l'attribuzione di tale potere ai comandanti di corpo non era altro che una manifestazione dell'originaria concezione del sistema penale militare in cui il processo penale veniva considerato una prosecuzione del processo disciplinare e che, di conseguenza, tale istituto appare oggi come un residuo della c.d. "giustizia di capi" .

La Corte costituzionale, più volte chiamata a giudicare la legittimità costituzionale dell'art. 260 c.p.m.p., ha sempre dichiarato infondate o inammissibili le questioni proposte dai giudici militari . Ha, infatti, affermato che legittimamente il legislatore, non avendo previsto nel sistema penale militare l'istituto della querela - essendo sempre insita nei reati militari un'offesa alla disciplina e al servizio e quindi una lesione ad un interesse pubblico -, ha ritenuto di attribuire al comandante di corpo la facoltà di scelta tra adozione di un provvedimento disciplinare e ricorso all'autorità giudiziaria, considerando che vi sono dei casi in cui, per la scarsa gravità del reato, l'esercizio incondizionato dell'azione penale può causare proporzionalmente un pregiudizio maggiore di quello prodotto dal reato, mentre possono essere più efficaci le misure disciplinari .

Ha, peraltro, rilevato che l'art. 260 c.p.m.p. tutela il prestigio e la dignità delle Forze armate, che potrebbe essere menomato dalla celebrazione di processi aventi ad oggetto episodi di lieve entità, e che rientra nella discrezionalità del legislatore, ove concorrano ragioni di interesse pubblico, sostituire alle sanzioni penali quelle disciplinari, sottolineando come il danneggiato possa far valere in sede civile le sue pretese .

In ordine a una questione di legittimità costituzionale dell'art. 260 cp.m.p., sollevata in riferimento all'art. 112 Cost. che sancisce l'obbligatorietà dell'azione penale, la Corte costituzionale ha affermato, inoltre, che tale norma "non esclude che l'ordinamento stabilisca determinate condizioni per il promovimento o la prosecuzione dell'azione penale, anche in considerazione degli interessi perseguiti dalla pubblica amministrazione che, in ipotesi particolari, possono consigliare l'adozione di consimile cautela" .

La dottrina ha aspramente criticato tali decisioni, sottolineando che la disposizione di cui all'art. 260 c.p.m.p. non può conciliarsi con i principi costituzionali poiché rivela che l'ordinamento penale militare riserva tutela insufficiente ad alcuni diritti inviolabili della persona, quali l'onore e l'integrità fisica , privilegiando una anacronistica e generica esigenza di salvaguardia del prestigio delle Forze armate , e consentendo una inaccettabile commistione tra procedimento disciplinare e penale militare.
Nonostante le critiche, la Corte costituzionale, anche recentemente, ha ribadito il suo orientamento, affermando che la peculiarità della situazione del cittadino inserito nell'ordinamento militare rispetto a quella dei comuni cittadini, "non viene meno in presenza di condotte prive di rilevante attitudine offensiva, pur se riferibili a diritti della persona, poiché in tali ipotesi prevale sicuramente l'esigenza di tutelare il prestigio e la dignità delle Forze armate" , evitando che l'incondizionato esercizio dell'azione penale possa di fatto causare un pregiudizio proporzionalmente maggiore di quello prodotto dal reato . Ha, inoltre, ritenuto che tale peculiarità "rende fondata la diversità di trattamento rispetto alla generalità dei cittadini, nella specifica angolazione di potenziali persone offese di reati comuni omologhi a quelli di connotazione militare".

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte è chiaro che la disciplina dei reati contro la persona prevista dal codice penale militare appare assolutamente inidonea a sanzionare adeguatamente le condotte riferibili al nonnismo; infatti, la mancata previsione di criteri per l'esercizio del potere di richiesta da parte del comandante e l'assenza di controllo sul suo operato, possono dar luogo a gravi discriminazioni , che nemmeno l'obbligo di motivazione della richiesta (giustamente invocato dalla dottrina , in contrasto con l'orientamento della Corte costituzionale e della giurisprudenza prevalente ) può efficacemente prevenire.

De iure condito, quindi, le vittime degli atti di nonnismo, non potendo proporre querela, devono affidare la perseguibilità penale degli autori dei reati perpetrati in loro danno alla volontà del comandante del corpo che, a sua discrezione, potrà ritenere opportuno, al fine di tutelare superiori interessi militari, non inoltrare la richiesta di procedimento all'autorità giudiziaria.
La Commissione difesa della Camera, dopo aver rilevato i limiti dell'attuale disciplina penale militare, aveva auspicato un intervento del legislatore diretto a regolamentare dettagliatamente tale fenomeno, suggerendo che il compimento di atti di nonnismo fosse punito in modo specifico con l'introduzione di un nuovo reato o con la configurazione di una circostanza aggravante.

La proposta di legge n. 6727 ha cercato di dare forma a tale indicazione, prevedendo l'introduzione dell'art. 228 bis c.p.m.p. che punisce il militare che con violenza, minaccia o abuso del grado o della maggiore anzianità di servizio costringe altro militare a fare, tollerare od omettere qualcosa; tale disposizione, senza fare esplicito riferimento al nonnismo opererebbe una sorta di "militarizzazione" del reato di violenza privata punito dall'art. 610 c.p. La proposta in esame ha, inoltre, previsto che i reati di percosse, lesioni, ingiuria e minaccia (artt. 222 ss. c.p.m.p.) siano aggravati qualora il fatto sia commesso con abuso della maggiore anzianità di servizio o da due o più militari in servizio, e che tali reati contro la persona siano perseguibili anche a querela della persona offesa e non più solo su richiesta del comandante di corpo.

Infine, ha prefigurato la punibilità dell'ufficiale di polizia giudiziaria militare che omette o ritarda di denunciare all'autorità giudiziaria una notizia di reato di cui sia venuto a conoscenza a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, in analogia a quanto stabilito dall'art. 361 c.p.
Per quanto riguarda l'introduzione del reato di violenza privata si deve rilevare che gli estensori della proposta non hanno tenuto nel debito conto che l'art. 43 c.p.m.p. delinea la nozione di violenza nell'ambito del sistema penale militare.

Tale disposizione, infatti, prevede che nella denominazione di violenza si comprendono l'omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, le lesioni personali, le percosse, i maltrattamenti, e qualsiasi tentativo di offendere con armi. Poiché si deve ritenere, quindi, che anche la violenza di cui all'introducendo art. 228 bis c.p.m.p. sia da ricondursi alla definizione di cui all'art. 43 c.p.m.p., non potendo ricorrere al concorso formale con altri reati contro la persona, si arriverebbe al risultato aberrante per cui tutte le condotte ivi previste verrebbero punite con un'identica pena.

Per evitare tale inaccettabile conclusione appare necessaria una modifica della disposizione sulla violenza privata, che, secondo alcuni, potrebbe consistere nella previsione di pene differenziate in ragione della gravità dell'offesa, secondo la tecnica già utilizzata nei reati di insubordinazione e abuso di autorità .

Nel corso delle XIII legislatura vi sono state anche altre iniziative legislative parlamentari e una governativa dirette a rafforzare la tutela penale nei confronti delle condotte criminose riconducibili al nonnismo.

La proposta di legge n. 6347 ha configurato due circostanze aggravanti per i reati contro la persona: la prima stabilisce un aggravamento di pena qualora il reato sia stato commesso avvalendosi di forme di intimidazione e prevaricazione ovvero della forza derivante da un vincolo di solidarietà tra i militari più anziani; la seconda stabilisce che la pena è aumentata se il reato è stato preceduto dalla minaccia di un danno ingiusto per cause attinenti al servizio, ovvero se il colpevole, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla sua posizione di servizio, sottopone a maltrattamenti altro militare, in modo da rendere più gravosi il servizio o la convivenza nell'ambiente militare. Per quanto riguarda l'art. 260 c.p.m.p. si propone di modificarlo aggiungendo un nuovo comma, secondo cui qualora il comandante non inoltri la richiesta entro quindici giorni dalla data del fatto o da quando ne abbia avuto conoscenza, i reati contro la persona divengono perseguibili a richiesta della persona; si verrebbe così a introdurre nel sistema penale militare una nuova condizione di procedibilità che sostanzialmente corrisponde alla querela .

Vi è poi la proposta di legge n. 6747 , che ha previsto soltanto l'introduzione di circostanze che aggravano la pena (art. 229 bis c.p.m.p.) fino ad un terzo se il fatto è commesso con abuso della condizione di militare di leva nei confronti della vittima, o comunque, abusando della maggiore anzianità di servizio, oppure da più militari riuniti, fino al doppio se il fatto è commesso con violenza di natura sessuale. La scelta di ricorrere ad un' aggravante invece di introdurre una nuova figura di reato è stata ritenuta preferibile in quanto consente di evitare la cristallizzazione normativa degli atti di nonnismo, che conseguirebbe alla configurazione di un autonomo reato di nonnismo, lasciando alla giurisprudenza il compito di individuare in concreto le fattispecie riconducibili al nonnismo a cui applicare la circostanza aggravante.
Il Governo ha a sua volta presentato un disegno di legge che mira a "garantire l'incondizionato rispetto dei diritti della persona nell'ambito delle Forze armate".

In tale disegno si propone l'introduzione di tre nuove fattispecie di reato: violenza privata, maltrattamenti e estorsione.

In ordine al delitto di violenza privata si propone di introdurre - così come prevede la proposta di legge n. 6727 - una disposizione che riproduce quella di cui all'art. 610 c.p.; viene inoltre previsto che la pena sia aumentata se ricorrono le condizioni previste dall'art. 339 c.p., nonché se i fatti sono commessi avvalendosi del vincolo, esistente o supposto, di solidarietà tra militari con maggiore anzianità di servizio. E' evidente che, in ordine a tale fattispecie, si ripropongono tutte le questioni già esaminate, relative alla presenza nell'ordinamento militare dell'art. 43 c.p.m.p. che delinea una peculiare nozione di violenza .

Per quanto riguarda i maltrattamenti si propone di punire il militare che, giovandosi del vincolo, esistente o supposto, di solidarietà fra i militari con maggiore anzianità di servizio, maltratta altro militare in modo da rendere più gravosa la convivenza nell'ambiente militare. La norma in esame appare assolutamente ultronea dal momento che nella nozione di violenza rientrano i maltrattamenti e che, di conseguenza, tale condotta risulterebbe già compresa nella fattispecie di violenza privata .

Viene, inoltre, introdotta una specifica aggravante per i reati contro la persona che determina un aumento della pena dalla metà a due terzi qualora i fatti siano posti in essere da un militare che si avvale del vincolo, esistente o supposto, di solidarietà fra militari con maggiore anzianità di servizio, a danno di altro militare, al fine di intimorirlo o per altro biasimevole motivo. Ne consegue che i reati contro la persona riconducibili al nonnismo verrebbero puniti con pene più severe, sicuramente più adeguate di quelle previste per le fattispecie semplici. Peraltro, forse sarebbe meglio prevedere tale aggravante come comune piuttosto che ancorarla soltanto ai delitti contro la persona, così da poterla applicare anche ad altri reati, ad esempio i reati contro il patrimonio, che possono ugualmente integrare manifestazioni di nonnismo.
Da ultimo il disegno di legge governativo propone di modificare il regime di procedibilità dei reati contro il patrimonio stabilendo che non siano più perseguibili a richiesta del comandante del corpo, bensì sempre d'ufficio.

L'introduzione della procedibilità d'ufficio per i reati contro la persona appare francamente eccessiva e trasmoda in un eccesso di tutela, in quanto renderebbe obbligatorio l'instaurarsi del procedimento penale anche per fatti bagatellari, nemmeno riconducibili al nonnismo . Senza dubbio più condivisibile appare la previsione della procedibilità a querela, semmai congiunta a quella a richiesta del comandante. Peraltro, si è fondatamente rilevato che la prospettata procedibilità d'ufficio potrebbe essere la manifestazione di anacronistiche concezioni, inconciliabili con i principi costituzionali, che negano al militare di disporre dei propri diritti, ancorché personalissimi, quando questi interferiscono con interessi pubblici .

Purtroppo nessuna di queste iniziative legislative ha avuto qualche seguito in Parlamento.

Pertanto, le condotte riconducibili al nonnismo continuano a dover essere ricondotte alle fattispecie già esistenti nel sistema penale militare, con tutti i limiti che abbiamo illustrato.

 
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