Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Intervento al
CONVEGNO DI STUDI GIURIDICI
PADOVA, 30 NOVEMBRE 2000

Diritto e Forze armate. Nuovi Impegni

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario.
Regione Militare Nord.

Testi provvisori; trascrizioni non ufficiali.
Tutti gli interventi sono leggibili e scaricabili cliccando qui.

Si ringrazia Silvio Riondato (www.riondato.com) per la disponibilità. Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
www.studiperlapace.it - no ©
Documento aggiornato al: 2000

 
Sommario

Se c'è un tema che naturaliter ha a che fare con la conservazione questo è la sicurezza.

 
Abstract
 

1. Se c'è un tema che naturaliter ha a che fare con la conservazione questo è la sicurezza. D'altra parte proprio la sicurezza, come tema d'elezione delle relazioni internazionali, insieme con queste ultime è stata negli ultimi anni direttamente investita (attraversata) dal mutamento: e mutamento, si deve dire, di inattesa radicalità e vastità. Se è vero pertanto che dopo l'Ottantanove (1989) niente è più come prima -non lo è certamente dal punto di vista della politica internazionale- è vero altrettanto che il tema complessivo della sicurezza richiede di essere ripensato: dunque d'essere ridefinito (riconcettualizzato) prima ancora di essere reso operativo.
Torniamo all'Ottantanove. Non c'è dubbio che quella data-spartiacque debba essere accolta come l'inizio di una profonda mutazione nella politica internazionale. Se poi questa possa essere riguardata come vera e propria rivoluzione è altra questione. Sull'uso del termine "rivoluzione" per indicare i profondi mutamenti verificatisi nel sistema politico internazionale negli ultimi anni del XX secolo si possono infatti legittimamente avere delle perplessità. Rivoluzione nel suo significato moderno è infatti rivolgimento ab imis, nonché fondazione di un nuovo ordine; è insieme progetto e sperimentazione di quel che non s'era mai visto, ed è infine progetto (prometeicamente) pensato e realizzato da un ben preciso tipo di élite politico-intellettuale: i rivoluzionari di professione. Che la fine del bipolarismo seguita al crollo del blocco comunista abbia radicalmente mutato il regime internazionale non ci possono essere dubbi. È però indubbio che l'assetto politico internazionale seguito alla caduta del muro di Berlino non sia il frutto di alcun progetto, e d'altra parte nella nuova configurazione delle forze seguita a quell'evento fatichiamo a riconoscere i tratti di un vero e proprio ordine (cui dovrebbe almeno corrispondere una "costituzione materiale" del mondo).
Come che sia (sia etichettabile o meno come rivoluzionaria) la scansione del Millenovecentottantanove rende d'un colpo obsoleti decenni di riflessioni e di acquisizioni teoriche in tema sicurezza. Ma se è vero che quest'ultima richiede d'essere riformulata, per risultare plausibile essa evidentemente non potrà non venire riconsiderata unitamente al nuovo contesto internazionale e ai soggetti dai quali è sentita come esigenza irrinunciabile. Detto altrimenti, la sicurezza è oggi indefinibile se non se ne siano prioritariamente chiariti i contenuti e gli attori (chi e cosa deve essere difeso e salvaguardato, e da quali minacce portate da chi). Dovremo così in primo luogo fissare il punto di vista dal quale guardare al problema (non c'è dubbio, ad esempio, che la sicurezza sia diversamente percepita rispettivamente da un paese occidentale e da un paese mediorientale). E allora poniamoci intanto dal punto di vista dell'Europa occidentale e democratica.

2. Due sono i fatti, di straordinaria portata, l'uno risalente alla fine del secondo conflitto mondiale, l'altro seguito alla conclusione della guerra fredda (la terza guerra mondiale), che hanno radicalmente mutato lo scenario e le aspettative europei riguardo alla guerra e pertanto alla sicurezza. Il primo è relativo alla scomparsa della guerra -fra Stati dell'Europa occidentale- dall'orizzonte delle possibilità: come dire, qualcosa di mai visto e sperimentato. Il secondo si riferisce al venir meno della minaccia comunista seguito al crollo verticale del sistema politico-militare sovietico: evento tanto repentino per come era inatteso.
Per quel che riguarda la "sparizione" della guerra dall'orizzonte dell'Occidente europeo si deve ricordare come nel sistema europeo degli Stati, sin dal suo primo formarsi, la guerra sia stata insieme con questi ultimi coessenziale. Strumento privilegiato di affermazione della potenza statuale, nonché modo fra gli altri modi di esprimersi della politica, e assai spesso soluzione per recidere nodi politici che la diplomazia (non di rado inadeguata al compito) non poteva sciogliere, per secoli la guerra ha trovato, quale unico e sormontabilissimo argine al suo dilagare, l'equilibrio di potenza: quest'ultimo costitutivamente fragile per quanto è stato storicamente condannato a essere fissato in sempre nuovi e mai definitivi punti. Ora, se c'è oggi qualcosa di impensabile nell'Europa occidentale questo è precisamente la guerra. Un rovesciamento di prospettiva tanto radicale è stato certo favorito dall'esperienza e dalla memoria degli orrori del secondo conflitto mondiale: è infatti indiscutibile che essi abbiano funzionato da ottimo deterrente, spingendo ad esempio i padri fondatori dell'Europa comunitaria a sperimentare un inedito percorso di associazione fra gli Stati secondo forme pattizie di convivenza in fondo al quale si sarebbe dovuta trovare la federazione europea (gli Stati Uniti d'Europa). È tuttavia altrettanto indubbio che il dato strutturale dell'approdo alla democrazia di tutti i paesi costituenti il nucleo originario dell'Europa comunitaria abbia profondamente mutato le prospettive della guerra negandole qualsiasi futuro nel cuore del vecchio continente.
La democrazia come antidoto alla guerra allora? L'affermazione non è per nulla azzardata. È l'evidenza empirica a suggerirlo. Essa ci dice che gli Stati democratici non si sono mai fatti guerra l'un l'altro. Non che essi rifiutino in modo assoluto il conflitto armato, solo, quando si risolvono per l'uso della forza è esclusivamente per combattere Stati retti da regimi non democratici. Noi sappiamo da tempo che la democrazia è precisamente quel particolare insieme di canoni procedurali che permette di regolare in modo non violento l'endemico conflitto che origina nella società civile. Orbene, è possibile (è assai probabile) che tanto l'effettiva interiorizzazione di quel metodo non violento per eccellenza da parte degli Stati di più recente acquisizione alla democrazia, quanto la sua progressiva diffusione a un numero via via crescente di attori statuali, portino con sé il declino dell'istituto-guerra quale strumento per far politica sul piano internazionale: e dunque -ciò che qui interessa- finiscano per ridimensionare, intanto riducendola di rango, la tematica della sicurezza (quanto meno quella specificamente legata alle issues politico-militari).
Quanto al secondo evento che avrebbe assolutamente stravolto il quadro politico-strategico europeo -disegnato dall'esito del secondo conflitto mondiale e cristallizzatosi lungo gli anni della guerra fredda- si deve dire che il crollo dell'intero sistema economico, politico, ideologico e militare imperniato sull'Unione Sovietica (perché di questo si tratta, in questo consiste l'"evento") impone, le une a preparare le altre, alcune considerazioni relative alle conseguenze di straordinario rilievo che "il fatto" ha portato con sé.
La prima: l'Europa occidentale si è trovata d'un colpo liberata dall'incubo che la minacciava da quasi un cinquantennio. E qui introduco l'elemento emotivo della paura non soltanto perché quest'ultima da sempre innerva le relazioni politiche internazionali, ma anche perché il nemico comunista, nello scontro politico-ideologico che l'ha visto contrapposto all'Occidente, è stato a lungo percepito da quest'ultimo quale nemico assoluto: da contenere attraverso la minaccia di una guerra assoluta, la quale prevedesse l'utilizzo di armi assolutamente distruttive.
La seconda: venuta meno la paura assoluta di un nemico integrale che per decenni aveva dettato le priorità dell'agenda politico-strategica dell'Europa occidentale, inevitabilmente limitandone le opzioni, d'improvviso per quest'ultima si è aperto un inaspettato ventaglio di prospettive e di problemi. Così da un lato (quello delle opportunità) il dissolversi dell'impero sovietico e del Patto di Varsavia, nel quale era stata arruolata la quasi totalità dell'Europa orientale, portava a un inatteso "sfondamento" a Est e alla prospettiva di un inaudito allargamento dell'Alleanza Atlantica: sino a ricomprendere paesi che fino al giorno prima avevano militato nel blocco avversario, e dall'altro (quello dei contraccolpi negativi) la liberazione di forze per troppo tempo compresse aveva effetti analoghi a quelli che si producono quando di colpo si rilascia un ramo innaturalmente (e con forza) piegato.
La terza: lo svanire della minaccia assoluta e dell'incubo nucleare, non ha comportato la sparizione di qualsiasi minaccia (ciascuna col suo corollario di paura) dall'orizzonte delle possibilità, ha semmai favorito il nascere o il riaffacciarsi di altre minacce, di magnitudo assai più ridotta ma proprio per questo più realizzabili e dunque più credibili e insieme più vicine.
La quarta, riassuntiva e conclusiva: se l'arena internazionale è tanto vistosamente mutata quanto alla configurazione delle forze (almeno potenzialmente) antagoniste, nonché alla entità quantitativa e qualitativa delle minacce alla sicurezza, sarà allora irrinunciabile, in vista di una riconsiderazione di quest'ultima, una ridefinizione del nemico.

3. Si potrebbe a questo punto ipotizzare che il nemico debba (per i più cauti: possa) essere individuato precisamente in quegli Stati che non accettano il metodo democratico: né al proprio interno, né sul piano internazionale. Vale la pena, a questo proposito, osservare che una simile opzione se oggi appare assolutamente plausibile, per non dire scontata, ieri (poco più di vent'anni fa) era impossibile. Nell'Europa occidentale vi erano infatti almeno due Stati non democratici: la Spagna e il Portogallo. Viceversa, essendo oggi l'Europa (quella comunitaria almeno) interamente democratica, e trovandosi essa a fronteggiare, oltre i suoi estremi confini orientali, un insieme caotico e conflittuale di Stati e di nazioni che con gli istituti democratici non hanno grande consuetudine, si potrebbe ritenere che esattamente là, in quel contesto tumultuoso e scarsamente attento alle ragioni e alle esigenze imprescindibili della democrazia, potrebbe risiedere la vera, reale minaccia alla sua sicurezza. Non c'è dubbio che l'Est europeo costituisca un serio problema (un rompicapo) per decisori e analisti politici, al punto da spingere qualche osservatore a concludere che la politica iper-nazionalistica cui, dopo la caduta del comunismo, si sono dedicati con abnegazione assoluta gli Stati dell'Europa orientale, lancerebbe una sfida al collaudato modello modernista di razionalità: questo in nome di una pre-moderna politica dei simboli. Il risultato -a ciò porterebbe il nuovo (e vecchissimo) corso intrapreso dall'Europa balcanica- sarebbe di mettere in discussione il modello di realpolitik della guerra fredda. Ora, detto che il periodo della guerra fredda non pare davvero sia stato immune dalle contaminazioni di una politica intrisa di simboli, il problema non è quello di un improbabile ripristino di una dura e geometrica realpolitik, e nemmeno della riproposizione del tema della sicurezza nei termini che a quest'ultima sono abitualmente assegnati dalla teoria realista delle relazioni internazionali, bensì quello dell'elaborazione di un concetto di sicurezza che sappia renderne in un modo il più possibile fedele la natura poliedrica.
Sulla multidimensionalità della sicurezza Barry Buzan ha scritto già nel 1983, in People, States and Fear; e così efficacemente -si deve dire- che il suo lavoro teorico è diventato un riferimento imprescindibile per l'intera comunità degli studiosi interessati al tema della sicurezza. Al cuore della riflessione di Buzan è l'idea che la sicurezza di uno Stato sia strettamente correlata con la sua forza (o debolezza). Ma -questo il punto- forza e debolezza si determinerebbero non propriamente in ragione della potenza di ciascuna entità statuale (potenza che tradizionalmente si esprime, e si misura, nel giuoco complessivo della politica internazionale), ma piuttosto in relazione alla saldezza politico-istituzionale e sociale che ognuna dimostra di possedere. Prendiamo per buona l'impostazione dello studioso anglosassone e allora dovremo ammettere che quanto più uno Stato sarà strutturato in modo tale da rendere marginale l'uso della forza -e della paura che questa incute agli individui, ancorché sia solo minacciata- sul piano interno (detto in una parola: quanto più uno Stato sarà saldamente democratico) tanto più sarà forte. Di conseguenza esso si sentirà (presumibilmente) sicuro, almeno sul piano interno, e pertanto non lo troveremo in quella tipologia di Stati che mettono la sicurezza in cima ai propri obiettivi, interni e internazionali. Va da sé che, sia nel caso si veda l'arena internazionale come il regno di un'assoluta e irriducibile anarchia (oppure di un'anarchia relativa), sia nel caso la si consideri in qualche modo ordinata e in lento cammino verso il riconoscimento di una giurisdizione che si ponga al di sopra gli Stati, dal punto di vista di uno Stato democratico, forte e sicuro, oggi il problema è di estendere quella ormai acquisita sicurezza interna all'insieme del sistema internazionale.
La questione, lo sappiamo, agli occhi di un grande ordinatore e pacificatore come Thomas Hobbes era assolutamente insolubile. D'altra parte, agli occhi dei realisti contemporanei, essa è risolvibile e, prima ancora concepibile, soltanto su di un piano squisitamente politico-militare. L'ipotesi, da verificare e però assolutamente promettente, è invece che un progressivo allargamento della democrazia sul piano internazionale (da entrambi i punti di vista: di un incremento numerico degli Stati da annoverare fra quelli democratici, e della effettiva democratizzazione delle istituzioni internazionali) potrebbe emancipare la sicurezza dall'ambito angusto in cui l'ha confinata il pensiero internazionalistico del Novecento, senza per questo farne un concetto aleatorio e impressionistico.

4. Dicevo all'inizio di queste brevi note che oggi la sicurezza resta indefinibile se non è chiaro "chi e cosa deve essere salvaguardato, e da quali minacce portate da chi". Bene, sul versante dei soggetti che rivendicano un proprio diritto alla sicurezza, gli Stati sembrano aver perso l'esclusività di quel diritto, essendosi ad essi ormai aggiunti i singoli individui; quanto al cosa, esso rinvia direttamente all'intero sistema-pianeta, considerato dal punto di ecologico-ambientale; sul versante invece delle minacce alla sicurezza e dei soggetti che di queste sono portatori, è possibile oggi sostenere che esse originano dalla natura antidemocratica di molti e importanti attori internazionali (Stati in primis) e che nella sostanziale non-democraticità del sistema internazionale esse trovano l'ambiente ideale per riprodursi e per rinforzarsi. Orientata la questione in questi termini, ponendo cioè la questione della centralità dell'adozione del metodo democratico a tutti i livelli decisionali (interni e internazionali), la sicurezza smetterà giocoforza d'essere confinata in ambito militare: toccherà allora precisamente alla politica (a una politica incondizionatamente democratica) riappropriarsene.





 
Bibliografia
 

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