Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Iraq e diritto internazionale Dr. Claudio Di Turi
La guerra in Iraq e il diritto internazionale
Paper

l'Autore è Ricercatore di Diritto internazionale, Facoltà di Scienze politiche, Università della Calabria

tratto da www.associaizonedeicostituzionalisti.it
pubblicato il 28/04/2003
Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
www.studiperlapace.it - no ©
Documento aggiornato al: 2003

 
Sommario

Il drammatico conflitto in Iraq ed il suo inevitabile esito pongono numerosi interrogativi sulle origini della crisi, e inducono a riflettere sulla impotenza della Comunità degli Stati ad evitarla. E' fuor di dubbio che le gravissime violazioni del diritto internazionale e del diritto umanitario (c.d. jus in bello) abbiano provocato un grave vulnus all'ordinamento giuridico internazionale ed una perdita di credibilità delle Nazioni Unite.

 
Abstract
 

Il drammatico conflitto in Iraq ed il suo inevitabile esito pongono numerosi interrogativi sulle origini della crisi, e inducono a riflettere sulla impotenza della Comunità degli Stati ad evitarla. E' fuor di dubbio che le gravissime violazioni del diritto internazionale e del diritto umanitario (c.d. jus in bello) abbiano provocato un grave vulnus all'ordinamento giuridico internazionale ed una perdita di credibilità delle Nazioni Unite. In effetti, risultano gravemente compromessi il fine di questa Organizzazione di mantenere la pace e la sicurezza internazionale (art. 1 Carta ONU), nonchè la sua capacità di assicurare il rispetto di taluni obblighi assunti dagli Stati membri: in particolare, il dovere di risoluzione pacifica delle controversie internazionali in modo che la pace e la sicurezza non siano messe in pericolo e il divieto di astenersi dalla minaccia o dall'uso della forza contro l'integrità territoriale e l'indipendenza politica di uno Stato (art. 2, paras. 3-4).

Alla luce di tali elementi, è opportuno tentare una valutazione di talune condotte degli Stati maggiormente coinvolti nella crisi alla luce dei parametri normativi forniti dall'ordinamento giuridico internazionale. Ciò al fine di valutare se tale ordinamento sia ancora percepito come idoneo a regolare la convivenza di enti superiorem non recognoscens.

A riguardo, è utile prendere le mosse dalla dottrina c.d. della "guerra preventiva" che costituisce il fulcro della nuova strategia di sicurezza nazionale americana elaborata dalla amministrazione Bush dopo i fatti dell'11 settembre. In base ad essa, il governo degli Stati Uniti si riserva il diritto di tutelare i propri interessi nazionali anche facendo ricorso unilateralmente all'uso della forza nei confronti di Stati sospettati di possedere armi di distruzione di massa.

Sono evidenti i notevoli rischi che tale dottrina, peraltro tradotta in norme giuridiche con il Patriot Act, comporta sul piano della legalità internazionale: come è stato già osservato (C. Pinelli), appare infatti chiaro in tutta la sua portata il tentativo della attuale Amministrazione americana di ridisegnare l'ordine mondiale attraverso azioni coercitive che il diritto internazionale considera illecite. In effetti, la pretesa americana di apprezzare unilateralmente le circostanze la cui sussistenza legittima un impiego della forza armata appare difficilmente compatibile non solo con il citato art. 2,4 ma anche con altre disposizioni della Carta. Rilevano, a proposito, gli artt. 24 e 39 dello Statuto. In base all'art. 24 i Membri delle Nazioni Unite convengono di conferire al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Quanto all'art. 39, è noto che questa disposizione conferisce al Consiglio di sicurezza un potere, ampiamente discrezionale, di accertare l'esistenza di una "minaccia alla pace" e di decidere le misure idonee a farvi fronte ex cap.VII: ne consegue che la dottrina della "guerra preventiva" confligge pure con la prassi consiliare di "autorizzare" Stati membri a fare ricorso "a tutti i mezzi necessari" ove la pace risulti violata.

La configurazione di una "guerra preventiva" non potrebbe ammettersi neanche alla luce del diritto di legittima difesa il cui esercizio, previsto dal diritto internazionale, presuppone l'esistenza di un "attacco armato" in atto da parte di uno Stato. Come è noto, l'art. 51 della Carta che disciplina il diritto in questione qualificandolo come "naturale", è una disposizione riproduttiva del diritto consuetudinario preesistente. Si è affermato (C. Pinelli) che tale norma avrebbe potuto forse essere invocata se fossero risultati provati i legami tra Al-Quaeda e il regime di Baghdad: ma l'assenza di prove certe sui presunti vincoli tra Al Quaeda e l'Iraq ha impedito di richiamare validamente il precedente della ris. 1368 del 12 settembre 2001, con cui si riconosceva agli Stati Uniti il diritto di legittima difesa dopo l'attacco alle due torri. Pertanto, risulta inammissibile qualunque ricostruzione che assimili, in assenza di prove inconfutabili, i terroristi internazionali ad organi "di fatto" dello Stato iracheno.

E' stato tuttavia sostenuto, da parte del governo degli Stati Uniti, che il fondamento dell'intervento militare è da rinvenirsi nella ormai celebre ris. 1441 del Consiglio di sicurezza.

La risoluzione qualificava come "minaccia alla pace" l'inadempimento iracheno ai propri doveri in materia di disarmo imposti da alcune risoluzioni precedenti (in particolare, la n. 687 del 1991) e, al contempo, istituiva un nuovo regime di controllo internazionale per verificare il rispetto di tali obblighi. Ulteriori violazioni o mancate cooperazioni con il personale ispettivo designato dall'ONU sarebbero state riportate al Consiglio di sicurezza "...al fine di considerare la situazione per garantire la pace e la sicurezza internazionali". La risoluzione rimandava quindi ad una delibera successiva l'eventuale decisione di impiegare la forza; e cio' porta pure ad escludere con certezza che da essa si potesse desumere una sorta di autorizzazione implicita all'uso dei mezzi di coercizione armata. Nè è pensabile che la violazione della ris. 687 possa avere comportato una ripresa di efficacia dell'autorizzazione ad usare tutti i mezzi necessari (compresa la forza) prevista dalla ris. 678 (nov. 1990), con cui la coalizione alleata ripristinò l'integrità territoriale del Kuwait invaso dall'Iraq. In altri termini, deve essere respinta la tesi sostenuta in Consiglio di sicurezza dagli Ambasciatori anglosassoni secondo la quale la mancata ottemperanza irachena avrebbe comportato la fine dello stato di pace e, in conseguenza, una reviviscenza della ris. 678.

Sulla scorta di tali considerazioni, e alla luce della ris. 3314 (dic. 1974) dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, l'azione militare alleata deve essere qualificata come "guerra di aggressione" costitutiva della fattispecie di "crimine contro la pace". Tuttavia, la dissoluzione dello Stato iracheno impedisce ora la valida formazione di una pretesa al rispetto del proprio diritto alla integrità territoriale; tale diritto avrebbe potuto essere utilmente esercitato, durante il conflitto, se gli organi politici delle Nazioni Unite avessero sfruttato il potenziale offerto dalle norme della carta ONU.

In particolare, l'Assemblea generale avrebbe potuto essere adita e adottare una risoluzione di condanna dell'intervento armato. Tale risoluzione, ancorché non vincolante, avrebbe costituito una vera e propria sanzione politica attraverso la decisa presa di posizione dell'organo assembleare dell'ONU. Il silenzio di questo organo, invece, rischia di essere percepito quasi come un consenso tacito. Altrettanto negativamente deve essere valutata la condotta del Segretario generale Kofi Annan. Se è vero che egli è " il più alto funzionario amministrativo dell'Organizzazione" (art. 97, Carta ONU), l'art. 99 gli attribuisce tuttavia il potere (politico) di "richiamare l'attenzione del Consiglio di sicurezza su qualunque questione che...possa minacciare il mantenimento della pace".

Quanto al Consiglio di sicurezza, la Carta ONU stabilisce agli artt. 6, 41 e 42 sanzioni specifiche (espulsione dall'Organizzazione; sanzioni economiche e belliche) che si sono rivelate di impossibile attuazione, stante il diritto di veto di cui gli Stati aggressori dispongono in Consiglio di sicurezza. Tuttavia, l'assenza di concreti rimedi statutari è stata probabilmente compensata, durante il conflitto, dall'esercizio da parte dell'Iraq del proprio diritto (consuetudinario) di legittima difesa collettiva: in questo senso, l'affermazione della Siria secondo cui la vittoria del popolo iracheno avrebbe corrispostoall'interesse nazionale di Damasco probabilmente ha nascosto una fornitura di armi su richiesta di Baghdad che non potrebbe a questo punto considerarsi effettuata in violazione dell'embargo ONU.

Peraltro, è da escludere che l'Iraq sia l'unica vittima del conflitto in atto. L'ordinamento giuridico internazionale appronta specifici rimedi a fronte di violazioni di obblighi erga omnes, ovvero posti nei confronti della Comunità internazionale nel suo insieme. In particolare, è da ritenere che gli Stati non direttamente lesi dall'attacco militare (es.: l'Italia) siano titolari di specifici diritti e destinatari di obblighi di natura anche consuetudinaria. Il loro esame costituisce una ulteriore prova della effettività del diritto internazionale.

Secondo l'art. 54 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti internazionalmente illeciti approvato dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, possono essere anzitutto adottate da qualunque Stato misure idonee ad indurre gli autori di un fatto illecito alla cessazione della condotta vietata.

Inoltre, ai sensi dell'art. 41, n.2 del citato Progetto tutti gli Stati hanno l'obbligo di non cooperare con il responsabile della violazione di una norma imperativa del diritto internazionale generale: probabilmente in questo senso devono essere lette le affermazioni del Presidente Ciampi sulla assenza, presente e futura, di militari italiani in Iraq. Si tratta di una presa di posizione tanto più condivisibile, quanto maggiore è la probabilità che l'Iraq sia assoggettato ad una occupazione straniera in spregio alla norma internazionale che vieta le acquisizioni territoriali effettuate illegittimamente. Tale posizione appare confermata dal dibattito in corso, dal quale pare emergere l'opportunità di subordinare un invio di carabinieri con funzioni di peace-keeping ad una esplicita autorizzazione ONU.

Meno convincente appare invece la posizione del nostro governo con riferimento al problema della concessione delle basi militari.

Come è noto, è stata permessa la partenza da una installazione militare veneta di truppe d'élite statunitensi dirette nel Kurdistan iracheno. Il movimento di truppe è stato deciso sulla base di indirizzi espressi dal Consiglio supremo di difesa secondo cui l'uso delle installazioni non dovrebbe essere consentito per attacchi diretti all'Iraq, ma solo per il transito e le attività logistiche e di sorvolo. La questione presenta rilevanti profili di natura costituzionale ed internazionale. Quanto ai riflessi costituzionalistici, è stato richiamato l'art. 11 che ripudiando la guerra implicitamente esclude che la concessione delle basi possa considerarsi costituzionalmente legittimo, se il loro uso è finalizzato a supporto di una guerra di aggressione (C. De Fiores). Per quanto attiene, invece, agli aspetti più propriamente internazionalistici devono essere anzitutto richiamate le principali norme internazionali pertinenti: il trattato istitutivo della NATO, l'accordo bilaterale Italia-Usa sulle infrastrutture del 1954 (segreto) e il memorandum bilaterale d'intesa che ne attua le disposizioni (1995).

Va premesso che il preambolo del trattato istitutivo della NATO "riafferma la fiducia...negli scopi e nei principi della Carta ONU" e che l'art.1 richiama, con una formulazione quasi identica, l'art. 2, nn. 3 e 4 della Carta. Inoltre, l'art. 5 prevede come casus foederis un attacco armato contro una di esse, al cui verificarsi scatta l'obbligo di assistenza delle altre Parti. Si tratta, quindi, di un trattato indiscutibilmente difensivo.

A mio avviso, una corretta interpretazione dei due accordi sulle infrastrutture non può prescindere dall'oggetto e dello scopo del trattato istitutivo della NATO.

Più in dettaglio, il memorandum d'intesa prevede una giurisdizione italiana sulla installazione e il personale italiano, e statunitense sul personale americano. L'ufficiale americano ha l'obbligo di notificare all'ufficiale italiano (che deve approvarli) "gli aumenti temporanei di personale militare". Inoltre, "...gli aumenti temporanei di personale associati ad operazioni già approvate dal governo italiano saranno coordinate con il comando italiano". (annesso A, titolo VI, artt. 3 e 4).

Secondo il governo italiano, le autorità americane avrebbero fornito assicurazioni sulla natura solo umanitaria dei compiti assegnati ai paracadusti USA; ma se tale dichiarazione venisse smentita dai fatti, ci troveremmo di fronte ad una violazione sostanziale dell'accordo, che secondo la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati legittimerebbe una eventuale richiesta italiana di estinzione dell'accordo stesso. Ovviamente, tale profilo postula la buona fede del governo italiano nelle proprie dichiarazioni al Parlamento; ma quid nel caso in cui i parà dovessero prendere parte ad operazioni belliche in base a piani operativi conosciuti dal Governo italiano? In questo caso, ritengo che non potrebbe escludersi la responsabilità internazionale dell'Italia per complicità con gli Stati Uniti nella commissione di un fatto illecito internazionale: e tale lettura appare confortata dall'art. 103 della Carta ONU, secondo cui "in caso di conflitto tra gli obblighi contratti dai membri delle Nazioni Unite con il presente statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi nascenti dal presente Statuto".

In tal caso, sarebbe purtroppo realistico anche attendersi delle contromisure.

Resta da chiedersi, in conclusione, se è possibile ritenere che l'ordinamento giuridico internazionale stia efficacemente assolvendo alla propria funzione di regolazione dei conflitti. Tutto dipende dal grado di adesione alle norme da parte dei consociati. Pur dovendosi ritenere, a mio avviso, che il c.d. "coefficiente di osservanza spontanea" (Condorelli) ai valori espressi dall'ordinamento giuridico internazionale permanga elevato, non possono comunque tacersi le difficoltà in cui versa la società degli Stati ed il suo diritto. Tale semplice constatazione dovrebbe pertanto indurre tutti i popoli delle Nazioni Unite a rinnovare la professione di fede nella attività di questa Organizzazione al fine di "salvare le future generazioni dal flagello della guerra" (Preambolo della Carta ONU).

E' questa una strada che certo contribuirebbe a rafforzare il multilateralismo, e che richiede uno sforzo congiunto dei costituzionalisti e degli internazionalisti. A ben vedere, non mancano gli strumenti idonei a uesto scopo. In effetti, come è stato già sottolineato, l'art. 11 della nostra Costituzione rappresenta una norma di chisura del sistema che risulta dal rapporto tra ordinamento giuridico costituzionale e Nazioni Unite, uniti nel comune fine del perseguimento della pace (G. Ferrara).

Solo partendo da tali premesse sarà a mio avviso possibile ampliare la cooperazione internazionale pur nella consapevolezza della necessità di una riforma dell'ordinamento delle Nazioni Unite che a questo punto appare ineludibile.