Diritto internazionale dei diritti umani e dei conflitti armati: guerra e pace
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ultimo aggiornamento: 12.03.2008
   
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Giustiza penale internazionale Prof. Giuliano Vassalli
Verso una giustiza internazionale penale?
Paper

Scritti in memoria di Giovanni Falcone
Vincenzo Musacchio, cur.
Centro Nazionale di Studi e Ricerche sulla Prevenzione Criminale
"GIOVANNI FALCONE"
Termoli

tratto da "Diritto & Diritti" http://www.diritto.it, al quale si rimanda per il copyright Pubblicazioni
Centro italiano Studi per la pace
www.studiperlapace.it - no ©
Documento aggiornato al: 1994

 
Sommario

Per giustizia internazionale penale deve intendersi quell'insieme di norme e di apparati, istituiti dal diritto internazionale o in nome del diritto internazionale, rivolti alla scoperta, alla persecuzione e alla punizione di "crimini internazionali", e cioè di fatti la cui illiceità è prevista in norme o in principi del diritto internazionale e la cui gravità è tale, per l'orrore che essa determina o per la vastità del pericolo che essa provoca nel mondo, da interessare l'intera comunità degli Stati.

 
Indice dei contenuti
 
1 - Alcune definizioni in materia di giustizia internazionale penale
2 - Diritto internazionale penale, diritto penale interno e "giustizia penale transnazionale"
3 - I progetti per una corte permanente di giustizia internazionale penale
4 - Sulle difficoltà incontrate dai progetti suddetti
5 - Il tribunale internazionale penale ad hoc per i crimini commessi nei territori della ex-Jugoslavia
6 - Il tribunale internazionale penale ad hoc per i crimini commessi nel Ruanda
7 - Conclusioni.
 
Abstract
 

1. Per giustizia internazionale penale deve intendersi quell'insieme di norme e di apparati, istituiti dal diritto internazionale o in nome del diritto internazionale, rivolti alla scoperta, alla persecuzione e alla punizione di "crimini internazionali", e cioè di fatti la cui illiceità è prevista in norme o in principi del diritto internazionale e la cui gravità è tale, per l'orrore che essa determina o per la vastità del pericolo che essa provoca nel mondo, da interessare l'intera comunità degli Stati.

Già da questa definizione, indubbiamente suscettibile di approfondimenti e di ritocchi, si vede come il campo essenziale, a cui la giustizia internazionale penale si riferisce, coincida con quello delle più gravi violazioni delle regole del cosiddetto diritto umanitario e cioè con quello dei crimini contro l'umanità (che, forse, meglio si chiamerebbero "delitti di lesa umanità"): una categoria sempre insita nella criminalità più grave ed allarmante, ma emersa con contorni ben definiti dopo la conoscenza degli orrori perpetrati durante la seconda guerra mondiale (1939-1945) e dopo che furono costituiti organismi per la loro repressione penale (1). Tuttavia il campo di applicazione della giustizia internazionale penale appare, sin dal suo profilarsi sulla scena del diritto internazionale e del diritto penale, coincidente con una platea più vasta di delitti, includente in particolare crimini contro la pace (tra i quali il principale, ma non l'unico, è lo scatenamento di guerre di aggressione) e i crimini di guerra, corrispondenti a quelli che un tempo erano chiamati nei vari codici nazionali (particolarmente nei codici militari) "reati contro le leggi e gli usi della guerra" e che questa denominazione serbarono anche nelle Convenzioni di Ginevra del 1949.

Si sarebbe tentati di considerare questi tre gruppi di reati, che corrispondono a quelli previsti dalla Carta di Londra dell'8 agosto 1945 e dalla Carta di Tokyo del 19 gennaio 1946 e che appunto rappresentarono l'unico oggetto dei primi grandi processi penali celebrati dalla giustizia internazionale, come i crimini internazionali per eccellenza. Senonché la categoria dei crimini internazionali, nella terminologia corrente tra gli scrittori, si è grandemente estesa al di là dei tre gruppi menzionati, avendo abbracciato (qualche volta un poco alla rinfusa) tutti quei delitti alla cui persecuzione e punizione è comunque legato un interesse internazionale: e cioè a quei crimini dei quali alla comunità internazionale: e cioè a quei crimini dei quali alla comunità internazionale preme assicurare, al di là o a prescindere dalla creazione di organismi di giustizia internazionale, la persecuzione e punizione da parte di un tribunale purchessia. Si tratta di crimini dai contenuti eterogenei, che hanno formato oggetto nel volgere dei decenni antecedenti e successivi alle due guerre mondiali, di convenzioni, protocolli ed altri strumenti del diritto internazionale e che pertanto hanno assunto, appunto, questo nome di crimini internazionali (2). Beninteso, anche per i crimini contro la pace, per i crimini di guerra e per i crimini contro l'umanità è prevista, è può funzionare, secondo le leggi nazionali dei singoli paesi, o anche sulla base di strumenti internazionali, la giustizia dei singoli Stati nei quali i crimini stessi furono commessi o contro i cui interessi e i cui cittadini i crimini stessi si posero (3). Tuttavia, alla base della previsione di una giustizia internazionale penale nei confronti dei crimini contro la pace, dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità sta un'altra ragione che li accomuna e li rende meritevoli di una considerazione a sé stante. Tale ragione, concorrente con quella dell'orrore suscitato dai crimini in questione e dalla loro pericolosità per la pace e sicurezza dell'umanità, è rappresentato dalla impossibilità o difficoltà di una persecuzione e di una repressione affidate alla giustizia penale degli Stati nazionali. E questa ragion d'essere - che riguarda prevalentemente, ma non solo, i crimini contro l'umanità - può avere a sua volta più radici: la nessuna affidabilità della giustizia nazionale fino a che il regime politico (in genere, dittatoriale) di cui i crimini in questione siano stati l'emanazione sia ancora vigente e i mandati di quei crimini detengano ancora il potere; la scarsa affidabilità della giustizia stessa, anche dopo caduto il regime durante il quale i crimini furono commessi, per una spiegabile propensione della stessa a proteggere persone appartenenti alla propria comunità nazionale ancorché presunte colpevoli di gravi crimini interessanti l'ordine internazionale; e, ancora, talvolta il motivo opposto, e cioè il timore che nella giustizia nazionale, una volta rovesciato il regime che aveva ordinato, autorizzato o tollerato quei crimini, o durante il quale i crimini stessi erano stati commessi, possano prevalere motivi di vendetta o comunque di odio politico tali da non garantire una applicazione equa ed imparziale della legge.

Questa seconda ragion d'essere, che ben potremmo chiamare di sfiducia nelle giustizie nazionali, non sempre è presente negli altri gruppi di reati elencati come "crimini internazionali". Può esserlo in alcuni (come la tortura, che non è che una sottospecie, resasi autonoma, dei delitti di lesa umanità, o come la riduzione in schiavitù, la pirateria e la presa di ostaggi), ma non necessariamente in tutti. Certamente, i confini sono spesso difficili; ma nondimeno una certa autonomia dei tre grandi gruppi di crimini sottoponibili ad una vera e propria giustizia internazionale ne risulta confortata.

A ben vedere, codesta seconda ragion d'essere della giustizia internazionale penale è strettamente collegata alla prima, posta in rilievo nella definizione tentata all'inizio: è infatti proprio la reazione che certi delitti determinano su scala internazionale che non permette alla comunità degli Stati di consentire che essi vadano impuniti. Il diritto internazionale li assorbe pertanto nella propria sfera, definisce le norme incriminatrici secondo criteri universalmente validi e prescindendo dalle previsioni dei diritti interni, toglie valore di giustificazione a circostanze per avventura valide secondo il diritto (per esempio all'ordine superiore quando vi sia stata la possibilità di sottrarsi alla sua esecuzione), istituisce organismi per la scoperta di quei reati (commissioni internazionali di inchiesta), crea gli organismi per la persecuzione e la repressione su una piattaforma internazionale (pubblici ministeri e tribunali internazionali) e assicura, sempre in ambito internazionale, l'esecuzione delle pene per avventura inflitte.

Ci sembra doveroso aggiungere che nel cuore di quel triplice gruppo più sopra indicato sulla base della Carta di Londra e di quella di Tokyo, i crimini contro l'umanità sono della giustizia internazionale penale l'oggetto più proprio e caratteristico. La loro esistenza, infatti, non comporta necessariamente il presupposto di uno stato di guerra internazionale, e neanche quella di uno stato di guerra non regolare, o di guerra civile, ma può avere per presupposto anche il solo abuso di potere esercitato nei confronti di una minoranza o comunque per motivi di odio etnico, razziale, religioso o politico.

Come risulta dalla locuzione usata, la nozione di giustizia internazionale penale è più ampia di quella del diritto internazionale penale. Quest'ultimo - secondo una felice definizione del Mantovani, già da me ricordata in altra occasione, è "quel complesso di norme del diritto internazionale generale, che sanciscono la responsabilità penale degli individui per quei fatti che turbano l'ordine pubblico internazionale e costituiscono crimini contro il diritto delle genti". Nella nozione di giustizia internazionale penale rientrano infatti, con il diritto internazionale penale, che ne è la base normativa di diritto sostanziale, l'organizzazione per la persecuzione e repressione dei crimini internazionali, e cioè in primo luogo la giurisdizione internazionale penale, il sistema penitenziario eventualmente adottato per l'esecuzione delle pene, nonché il complesso degli ausiliari della giurisdizione stessa: tra questi, in primo luogo, i periti, ai quali, per esempio, è stato fatto ricorso nelle indagini sui crimini contro l'umanità commessi nei territori della ex-Jugoslavia, in particolare in occasione del reperimento, dell'estrazione e dell'autopsia dei corpi delle vittime rinvenuti nelle fosse comuni. Vi rientrano anche le commissioni di inchiesta, in quanto siano state istituite da organismi internazionali in vista della scoperta dei delitti e della identificazione dei colpevoli. E a questo riguardo - sempre con riferimento alla drammatica, perdurante situazione nei territori della ex-Jugoslavia - non si può fare a meno di menzionare, per il suo impegno eccezionale e per la ricchezza dei materiali raccolti a fine probatorio, il lavoro compiuto, in meno di due anni dalla Commissione di esperti costituita in forza della Risoluzione 780 del 6 ottobre 1992 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU (Commissione presieduta dal prof. M. Cherif Bassiouni) e l'indagine compiuta dall'ex primo ministro di Polonia, Tadeusz Masowiecki come "relatore speciale" della Commissione per i diritti umani dell'ONU sulla base del paragrafo 37 della Risoluzione 72 del 9 marzo 1994 della Commissione stessa e della decisione del Consiglio economico-sociale n.262 del 22 luglio 1994: indagine, quest'ultima, estesa anche alla situazione dei diritti umani in Serbia, Voivodina, Sangiaccato, Kossovo e Macedonia ex-Jugoslava. Il rapporto della prima di dette Commissioni è stato presentato dal segretario Generale dell'ONU al Consiglio di Sicurezza il 24 maggio 1994 (S/1994/674) e il secondo, sempre dal Segretario Generale, all'Assemblea Generale dell'ONU il 31 ottobre 1994 (S/1994/1252) (4).

Giova terminare queste premesse ricordando che nei più recenti documenti sul diritto internazionale penale ci si richiama, oramai, abitualmente al "diritto internazionale umanitario" e ai suoi principi. Questo non solo nei documenti del Comitato internazionale della Croce Rossa, ma anche nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, delle quali dovremo occuparci più oltre, concernenti i tribunali internazionali ad hoc creati per i crimini commessi nei territori della ex-Jugoslavia e in quelli del Ruanda. Tale nozione non è, forse, ancora, del tutto ben delimitata nei suoi confini. È pacifico che i suoi strumenti principali siano da identificarsi nelle Convenzioni di Ginevra del 1949 e nei loro protocolli addizionali del 1977, oltre che, in certa misura, nel diritto consuetudinario. Mi pare, peraltro, che non possano sfuggirne i principi elaborati a proposito dei delitti contro l'umanità anche al di fuori di contesti bellici. Comunque, è certo che anche il diritto internazionale umanitario, negli aspetti che hanno rilievo penale, fa parte del diritto internazionale penale.



2. La giustizia internazionale penale (della quale il diritto internazionale penale costituisce la componente primaria) si distingue dalla giustizia penale nazionale, ed anche da quella cosiddetta transnazionale (locuzione entrata nell'uso nell'ultimo decennio), per una quantità di caratteri. Fondamentali - per il confronto tra giustizia nazionale e giustizia internazionale - sono soprattutto le differenze del sistema normativo e del sistema giudiziario. I diritti penali nazionali, cosi come le procedure penali nazionali e gli ordinamenti giudiziari, hanno le proprie norme e i propri principi. La giustizia internazionale penale tende a creare un proprio complesso normativo, che potrà anche coincidere, in tutto o in parte, con quello di singoli diritti nazionali, ma che intende affermarsi come del tutto autonomo, in virtù di principi che trovano la loro base nel diritto internazionale e di esigenze che sono proprie del diritto umanitario elaborato - attraverso, ormai, molti decenni - dalle convenzioni internazionali: e ciò vale sia per i delitti contro l'umanità e per i delitti contro la pace che per i crimini di guerra, dove il riscontro nei diritti nazionali è più agevole e costante. Essa crea inoltre propri organi di giurisdizione e di accusa, sulla base - oggi - di risoluzioni dell'Organizzazione delle Nazione Unite, con indirizzi di imparzialità e secondo una logica ed un sistema, anch'essi, del tutto autonomi da quelli delle giurisdizioni nazionali.

Ovviamente, tra la giustizia penale nazionale e quella internazionale (la quale, tuttora, è soltanto sulla strada di affermarsi) esistono molteplici nessi. Tutto quel sistema di norme che in Italia viene spesso chiamato "diritto penale internazionale" per indicare con una locuzione più sintetica, anche se impropria, l'insieme delle disposizioni di diritto interno, sostanziale come processuale, dedicate ai problemi dell'applicazione delle suddette disposizioni in relazione allo spazio (5) è un sistema virtualmente - e, non di rado effettivamente - a contatto con problemi di giustizia internazionale penale. In particolare, molti diritti penali nazionali prevedono l'applicabilità senza condizioni della propria giurisdizione (per delitti chiamati appunto "internazionali") a prescindere dal luogo ove gli stessi siano stati perpetrati: applicando così nella materia della legge penale in relazione allo spazio, il cosiddetto principio della "universalità della legge penale". È il caso, ad esempio, del codice penale italiano, il cui art. 7 (n.5) prevede la punizione secondo la legge penale italiana di ogni reato per il quale convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge penale italiana. Inoltre per la legge italiana (sempre secondo una previsione generale dell'art.7 n . 5) vi sono numerosi casi nei quali leggi penali nazionali prevedono una punibilità (qualche volta incondizionata) di reati commessi interamente in territorio estero: e in alcune di queste ipotesi si affaccia un interesse della comunità internazionale degno di per sé stesso di considerazione e di detta tutela qualificata. Ancora, esistono norme incriminatrici proprie dei diritti penali nazionali che sono state adottate dai singoli Stati in forza di un impegno assunto attraverso una convenzione internazionale: tipico l'esempio dei vari delitti di genocidio, per i quali lo Stato italiano ebbe a provvedere con la legge 9 ottobre 1967, n.962. ma vanno anche ricordate: la convenzione di New York del 18 dicembre 1979 sulla cattura di ostaggi, che comportò una sia pur ridotta estensione dei delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione o terroristico e un obbligo di punizione, sia pur ridotta estensione dei delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione o terroristico e un obbligo di punizione, sia pure condizionato a richiesta ministeriale, dei delitti commessi all'estero da cittadini o stranieri (1. 26 novembre 1985, n.718); la convenzione di New York del 7 marzo 1966 sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, che comportò l'introduzione dei reati previsti dall'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n.654; la convenzione di New York del 14 dicembre 1973 sui reati contro le persone internazionalmente protette, comprese gli agenti diplomatici, che comportò aumenti di pene e punibilità, sia pure condizionata a richiesta ministeriale, di reati commessi all'estero (legge 25 marzo 1985, n.107); le convenzioni di Tokyo (1963), dell'Aja (1970) e di Montreal del 1971 sulla cattura illecita di aeromobili, le quali ebbero influenza sulla formulazione della legge 10 maggio 1976, n.342; la convenzione di Roma del 10 marzo 1988 sui reati diretti contro la sicurezza delle installazioni fisse sulla piattaforma continentale, che portò a previsione di nuove figure di reato, di circostanze aggravanti e a casi di punibilità, a richiesta ministeriale di reati commessi all'estero nella suddetta materia; ed altre. Ancora, gli Stati assumono spesso, sempre in forza di convenzioni internazionali, obblighi di estradizione dal proprio territorio: tipico, ancora, il genocidio, per il quale l'Italia ritenne di dover provvedere con una legge costituzionale (1. Cost. 21 giugno 1967, n.1), al fine di eliminare ogni dubbio circa possibili vincoli negativi nascenti dagli articoli 10 e 26 della propria Costituzione.

Sono tutte convenzioni le quali hanno per scopo che gli autori delle violazioni sopramenzionate, di evidente o possibile rilievo internazionale, non rimangono impuniti quale che sia il luogo del commesso reato. E quindi assicurano, anche se per via indiretta, uno degli scopi della giustizia internazionale penale.

Infine non va dimenticato che alcuni progetti relativi all'istituzione, mediante apposita convenzione, di un organo di giustizia internazionale penale, quale il "Tribunale internazionale penale", del quale si dirà più oltre, assegnano alle competenze di quest'ultimo, oltre che la giurisdizione su taluni crimini internazionali, il compito di dirimere le controversie che insorgono tra gli Stati contraenti nella interpretazione ed applicazione dei trattati relativi alla repressione di una serie di reati di rilievo internazionale (e cioè, anche, pirateria, cattura di aeromobili, prese di ostaggi, traffico di stupefacenti, taglio di cavi sottomarini, falso nummario, furto di materiale nucleare, ecc. (6). Tali controversie possono riguardare, secondo le previsioni dei progetti di competenza, l'assistenza giudiziaria e le altre modalità di cooperazione interstatale in materia penale: cioè i temi tipici di quello che una tradizione terminologica italiana più sopra ricordata suole chiamare "diritto penale internazionale".

Si è accennato più sopra alla nozione - oggi penetrata nell'uso - di giustizia penale transnazionale. Essa rappresenta in modo unitario un complesso di misure adottate, soprattutto nell'ultimo decennio, per rendere più efficienti la scoperta, la persecuzione e la repressione di delitti che interessano, a prescindere dai sentimenti di orrore che essi possano suscitare e a prescindere dal loro legame con le norme del diritto internazionale umanitario, una pluralità di Stati, o in alcuni casi l'intera comunità internazionale minacciata dalla loro diffusione. Sono reati che, tra l'altro, sono caratterizzati da legami tra le organizzazioni criminali di vari paesi. Basti pensare al traffico di stupefacenti su scala internazionale e alle associazioni costituite a tale scopo, all'immane fenomeno del riciclaggio di denaro proveniente da detti traffici illeciti, ai delitti di tratta di donne e di minori, ai delitti di dirottamento aereo e di cattura di ostaggi, all'impedimento di comunicazioni internazionali, ai delitti dell'informatica e simili.

Nei confronti di questi delitti la collaborazione internazionale a fini preventivi e repressivi tende a farsi ogni giorno più consapevole, più intensa e più sciolta, e ad assumere un carattere non occasionale, ma organico e continuativo. Ad essa dedicò accurati sforzi negli ultimi suoi anni di vita, con profonde intuizioni, il magistrato italiano Giovanni Falcone, alla cui memoria le presenti note sono dedicate.

Per ora non sembra che detta giustizia penale transnazionale possa assumere una dimensione autonoma rispetto al "diritto penale internazionale" poco sopra richiamato e del quale essa rappresenta un approfondimento e un allargamento. In fondo, si tratta pur sempre di una estensione - magari in ambito anche soltanto "regionale" (Europa Occidentale, America Latina, ecc.) di quegli istituti, (della cooperazione nelle indagini, dell'assistenza giudiziaria, dell'estradizione, dell'esecuzione di giudicati e di misure coercitive, e simili) nei quali si sostanzia la collaborazione tra gli Stati in materia penale; un ramo dunque del diritto penale internazionale (7). Tuttavia non è escluso che nel corso di ulteriori sviluppi di questa collaborazione, soprattutto se ciò avverrà attraverso la creazione di agenzie comuni ad una pluralità di Stati, anche questa giustizia penale transnazionale possa assumere una dimensione sistematica autonoma.

Ovviamente, anche tra la giustizia penale transnazionale e la giustizia internazionale penale i nessi sono molteplici e talora molto stretti. Molti fra i crimini sopramenzionati - come già si è ricordato poc'anzi - sono oggetto di convenzioni internazionali, anche se queste ultime lasciano la persecuzione e la punizione alla competenza dei singoli Stati. Ma è interessante notare - come vedremo nel breve excursus che seguirà sull'oggetto principale di queste pagine - che tanto nei progetti di codice dei crimini internazionali quanto nei progetti relativi alla creanda corte internazionale di giustizia e ai crimini sui quali dovrebbe essere riconosciuta la sua giurisdizione figurano, accanto ai delitti contro la pace, ai crimini di guerra e ai crimini contro l'umanità alcuni reati caratterizzati già oggi da una più intensa collaborazione internazionale per l'importanza e l'estensione degli interessi che ne sono coinvolti: così i delitti di schiavitù, quelli di tratta di donne e di minori, il traffico internazionale di stupefacenti, ed altri (8).

3. Premessi questi cenni di contenuto sistematico o classificatorio, è tempo di venire all'oggetto di queste note.

L'ideale di una giustizia internazionale penale, per poter essere realizzato in modo razionale e convincente, ha bisogno di un duplice presupposto: un codice dei delitti e delle pene, preesistente alla commissione dei fatti criminosi, e l'esistenza, pure precostituita, di una corte (o tribunale) (9) internazionale riconosciuto competente a giudicare quei fatti, ovviamente con le sue regole attinenti alla composizione e formazione della corte stessa, alla procedura da seguire e alla materia della prova.

E questa fu infatti la direttiva seguita sin da quando l'organizzazione internazionale, terminata la seconda guerra mondiale e conclusisi i principali processi di Norimberga e di Tokyo, sentì di doversi mettere sulla strada della creazione di una giustizia internazionale penale stabile e permanente, pronta a colpire crimini contro l'umanità, crimini di guerra e, possibilmente, crimini contro la pace da chiunque e dovunque commessi. Nel 1947 l'Assemblea generale dell'ONU, con la risoluzione 177 del 21 novembre, dette incarico alla Commissione di diritto internazionale (ILC) delle stesse Nazioni Unite (costituita in quello stesso torno di tempo) di elaborare e formulare i principi di diritto internazionale riconosciuti nella Carta del Tribunale di Norimberga (8 agosto 1945) e nella sentenza del Tribunale stesso (30 settembre - 1° ottobre 1946) e di preparare su detta base un progetto di codice dei reati contro la pace e la sicurezza dell'umanità. La Commissione si ritenne incaricata di mettere a punto anche un progetto di statuto di una corte penale internazionale destinata a giudicare detti crimini. Riassunti, nel 1950, in quattro punti fondamentali i principi del diritto internazionale penale, la Commissione mise a punto entrambi i progetti, quello di codice sostanziale e quello sullo statuto della Corte tra il 1950 e il 1954. Si dirà più oltre della lunga interruzione seguita a quegli anni e delle ragioni di essa; ma la duplice esigenza è considerata tuttora viva e basilare e viene oggi a più riprese ribadita. E in effetti non si può concepire una vera giustizia penale senza un codice processuale. Sotto entrambi questi aspetti depone in tale direzione anche lo sviluppo storico. Un tempo i crimini di guerra venivano giudicati sulla base delle convenzioni e delle consuetudini attinenti alla guerra e i giudizi sulle responsabilità individuali risentivano direttamente della formulazione di convenzioni che fondamentalmente riguardavano gli obblighi degli Stati contendenti. Principi di diritto internazionale elaborati a quest'ultimo fine venivano posti a base di giudizi su responsabilità individuali, e ciò contribuiva ad accrescere i dubbi sul fondamento, non solo dommatico, di una giustizia internazionale nei confronti degli individui. In antichi documenti su crimini di guerra o di lesa umanità si trovano generici riferimenti alla violazione delle "leggi di Dio e degli uomini".Anche l'art.227 del Trattato di Versailles, rimasto poi inapplicato, prevedeva la punizione dell'ex-imperatore Guglielmo II di Germania "per offesa suprema contro la morale internazionale e la sacra autorità dei trattati". E in fondo lo stesso art.6 dello Statuto del Tribunale militare internazionale allegato all'Accordo di Londra dell'8 agosto 1945 "per l'azione contro i maggiori criminali di guerra dell'asse europeo e la loro punizione", pure intendendo rappresentare un forte passo avanti verso la determinazione delle fattispecie legali sulla cui base l'atto di accusa doveva essere formulato, era abbastanza generico sul piano della definizione dei crimini contro la pace e addirittura esemplificativo per quanto concerneva l'elencazione dei crimini di guerra (10). Ora è chiaro che la consolidazione del principio, una volta controverso, di una responsabilità individuale nei confronti del diritto internazionale esige una determinatezza estrema, non minore di quella che si esige nei diritti penali nazionali. Di qui la necessità ineludibile di un codice, i cui contenuti dovranno diventare ben cogniti ai destinatari, non meno di quanto avvenga per i precetti e le sanzioni contenuti nei codici nazionali.

Egualmente devi dirsi per le esigenze ordinamentali e processuali connesse al giudizio. Un tempo era il nemico vincitore che giudicava il nemico vinto, o comunque il nemico che giudicava il nemico vinto, o comunque il nemico che giudicava il prigioniero nemico. Poi si conobbero i tribunali ad hoc, in un primo tempo anch'essi costituiti dal vincitore o per impulso e sotto controllo di questo. Anche per il caso dell'ex-imperatore Guglielmo II l'art.227 del Trattato di Versailles dianzi ricordato aggiungeva che "un Tribunale speciale sarà costituito per giudicare l'accusato, assicurandogli le garanzie del diritto di difesa" e che "a tale Tribunale competerà di determinare la pena che riterrà di dovere applicare". Pure i Tribunali di Norimberga e di Tokyo istituiti per giudicare i "maggiori criminali di guerra" - tipici tribunali ad hoc dei vincitori, anche se assunsero una dimensione internazionale più importante e solenne, in frutto di Accordi tra le varie potenze vincitrici, a cui accedettero una pluralità di paesi facenti parte delle Nazioni Unite - vollero tuttavia essere, ed in realtà furono, organi di giustizia internazionale; non solo perché tali si proclamarono fin nel nome, ma perché cercarono le basi dei propri giudizi nel diritto internazionale puntigliosamente richiamando i vari trattati violati, dichiararono di voler dar corso alla determinazione espressa dalle Nazioni Unite, affermarono di operare in nome di sessanta popoli già allora costituenti le Nazioni Unite, di far giustizia di tutti i criminali di guerra, e a più riprese sottolinearono, in particolare attraverso le requisitorie dei pubblici ministeri, l'obbligo di far giustizia assunto in rappresentanza di tutti i popoli e dell'intera comunità umana.

A questo punto è peraltro d'obbligo domandarsi quale sia la fonte dalla quale codice sostanziale e ordinamento giudiziario debbono emanare. E non par dubbio che tale fonte debba essere di natura convenzionale; un accordo sottoscritto dal maggior numero di paesi, aperto all'adesione di altri e valido nei confronti di quei paesi che lo abbiano sottoscritto, salva restando la possibilità di chiedere l'intervento del Tribunale anche da parte di altri Stati. I progetti affidati alla Commissione di diritto internazionale dell'ONU, ai quali si è ora accennato, miravano, e dovranno necessariamente mirare, alla redazione di una convenzione internazionale. In vista di questo furono sottoposti a più riprese ai governi dei paesi facenti parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite o ai loro organi rappresentativi in seno all'Assemblea. Ciò ha comportato quelle remore a quei ritardi ai quali si accennerà, ma è l'unico metodo proponibile per arrivare a quel grado di certezza e di vincolatività a cui deve aspirare un diritto internazionale punitivo. Il principio nullum crimen sine proevia lege poenali trasferito dal diritto interno al diritto internazionale trova la sua esplicazione in una convenzione, fonte di obblighi per i destinatari della norma, prima e fondamentale fonte scritta del diritto internazionale generale. Altre fonti rispettose di quel principio, a cominciare da quella consuetudinaria, è difficile vedere. Del resto la storia di questi ultimi decenni sta a dimostrarci che anche nel campo del diritto punitivo l'organizzazione internazionale ha fatto capo a convenzioni. Basterebbe ricordare, per la maggiore contiguità col nostro tema, la Convenzione di New York del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, adottata sulla base della risoluzione 96 dell'11 dicembre 1946 dell'assemblea generale dell'ONU e sottoscritta, sia pure con alcune riserve, da circa cento Stati, ed anche la Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (New York, 21 dicembre 1965), sottoscritta da oltre centoventi Stati e fondata anch'essa sui principi delle Nazioni Unite e su risoluzioni dell'Assemblea generale.

Va rilevato che la Convenzione sul genocidio, oltre all'obbligo di incriminazione e di punizione secondo le leggi nazionali degli atti qualificati nella Convenzione stessa come genocidio, prevede anche, all'art.VI, una giurisdizione, alternativa a quella nazionale, del "tribunale penale internazionale competente rispetto a quelle Parti contraenti che ne abbiano riconosciuto la giurisdizione". Tale tribunale non fu mai istituito; e deve ricordarsi che un notevole numero delle riserve suaccennate riguardava proprio l'art. VI della Convenzione. Similmente, quanto alla Convenzione sulla discriminazione razziale, un notevole numero di riserve riguardò l'art. 22, che prevede la devoluzione, anche a richiesta di una qualsiasi delle Parti in conflitto, alla competenza della Corte internazionale di giustizia della risoluzione di controversie tra Stati che non potessero essere definite mediante negoziato o altrimenti con altre procedure. Tuttavia le suddette convenzioni, in particolare la prima, sono la riprova del fatto che la fonte normativa tipica sia per le incriminazioni che per la eventuale Corte internazionale penale non poteva essere che una convenzione adottata per impulso e sotto l'egida dell'ONU.

Del resto, di ciò esiste un esempio precedente l'esistenza dell'ONU, all'epoca della Società delle Nazioni: ed è un esempio ancor più calzante. Nel 1937 fu messa a punto a Ginevra una Convenzione internazionale per la prevenzione e la repressione del terrorismo e, in connessione stretta con questa, una Convenzione per la creazione di una corte internazionale per la repressione dei delitti di terrorismo. Alla prima convenzione aderirono ventiquattro paesi, alla seconda tredici; ma né l'una né l'altra entrarono mai in vigore, anche a causa del precipitare della situazione in Europa e nel mondo. Tuttavia può dirsi che sino ad oggi la Convenzione di Ginevra del 1937 resta l'unico esempio di una convenzione internazionale avente per oggetto l'istituzione di una corte penale permanente di giustizia internazionale, sia pure limitatamente ad un ristretto gruppo di reati.

Ed infatti la storia di questi ultimi quarantacinque anni in materia di progetti per la costituzione di una Corte internazionale penale permanente è costellata di tentativi sinora non coronati da successo. Già si è ricordato il progetto messo a punto dalla Commissione per il diritto internazionale sin dal 1951. Tale progetto, sottoposto all'Assemblea generale dell'ONU, trovò varie difficoltà e forti critiche, delle quali la Commissione tenne conto nell'elaborazione di una revisione del progetto stesso, che fu pronta nel 1953. Senonchè a questo punto erano intervenuti, sempre nell'ambito delle Nazioni Unite, altri fatti che non potevano non portare a gravi interferenze. Da un lato era stato creato, sin dal 1950, un comitato "politico" per la messa a punto dei problemi relativi alla Corte; e dall'altro era stata sottratta alla Commissione, nel quadro dell'incarico per la redazione di un progetto di codice per i crimini, la competenza per i crimini contro la pace, devoluta ad un "Comitato speciale", pure nominato dall'Assemblea generale, incaricato di trovare una definizione della guerra di aggressione: definizione indubbiamente non facile anche da un punto di vista giuridico, ma carica di incognite e di comprensibili riserve e cautele soprattutto sul piano politico. Così l'Assemblea, che in un primo tempo aveva rinviato l'approvazione del progetto concernente la Corte per non essere ancora stato messo interamente a punto il progetto sui crimini di guerra e sui crimini contro l'umanità, nel 1954 rinviò una seconda volta l'esame perché non era pronta la definizione dell'aggressione, destinata a costituire il primo capitolo del codice dei crimini: tale definizione si raggiungerà solo nel 1974!

E tuttavia neanche nel 1974, quando i tre progetti elaborati separatamente (sulla guerra d'aggressione, sugli altri crimini contro la sicurezza internazionale e sulla corte) avrebbero potuto essere unificati ed esaminati congiuntamente, si giunse a qualche conclusione. L'Assemblea preferì proporre una nuova risoluzione e tutta la materia restò lettera morta per latri quattro anni. Nel 1978 l'Assemblea stessa decise di accantonare il progetto sui crimini preparato nel 1954 e incaricò la Commissione di diritto internazionale di riprendere l'esame dei relativi problemi del tutto ex novo nominando "relatore speciale" il sigor Doudon Thiam del Senegal. Commissione e relatore speciale lavorarono per altri dodici anni (dal 1980 al 1992) e solo nel 1992 furono in grado di presentare un nuovo progetto. In questo sono inclusi (prevalente essendo stato tra l'altro l'apporto dei paesi africani) delitti estranei al nucleo originario dei crimini africani) delitti estranei al nucleo originario dei crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l'umanità, quali ad esempio il delitto di colonialismo. L'Assemblea generale decise di trasmettere il progetto ai vari paese membri dell'ONU per la formulazione di osservazioni. Le osservazioni conterranno, ovviamente, numerose critiche e gli anni continueranno a trascorrere senza codice e senza Corte.

In verità l'idea della Corte internazionale penale era risorta nel frattempo nel quadro della sessione speciale indetta dall'Assemblea generale sui problemi del traffico internazionale di stupefacenti (gennaio 1989), ma per le diverse vedute dei vari paesi le discussioni si trascinarono per due anni anche su questo punto, sino a quando la Commissione per il diritto internazionale (relatore speciale sempre il signor Thiam), rifacendosi all'originario incarico del 1947, rivendicò alla propria competenza anche la formulazione di un nuovo progetto sulla Corte. Una bozza di progetto venne messa a punto nel 1993, anche in vista della 48^ sessione dell'Assemblea generale, ma l'anno stesso la Commissione dovette rimettersi al lavoro per rendere il proprio progetto politicamente più accettabile. Le controversie avevano per oggetto molti punti, alcuni dei quali riguardavano questioni di fondo o di orientamento generale, mentre altri erano tipici delle piccole diatribe proprie del mondo diplomatico. Un punto molto delicato e particolarmente scottante era quello del carattere permanente riconosciuto alla Corte nel progetto del 1993. Comunque il documento successivamente presentato dalla Commissione, elaborato dallo speciale gruppo di lavoro della stessa, è degno di nota e riuscì ad essere presentato per l'ultima fase della 49^ Sessione dell'Assemblea generale, svoltasi tra il 2 maggio e il 22 luglio 1994 (11). È un progetto di ben 60 articoli, accuratamente commentati, preceduto da 43 pagine nelle quali sono riassunti i vari punti di vista emersi e le diverse vie proposte dai vari paesi per la soluzione di alcuni importanti quesiti. Esso contiene un vero e proprio Statuto della Corte internazionale, dove sono determinate anzitutto l'elezione, le qualificazioni, l'indipendenza e le incompatibilità dei giudici, la durata delle loro funzioni, i compiti del presidente e delle singole sezioni (chambres), quelli della Procura e degli altri uffici, le norme di organizzazione e di bilancio, le lingue (inglese e francese come sole lingue ufficiali, ma con la possibilità di usare altre lingue in relazione alla nazionalità degli accusati e dei testimoni).

Seguono le regole attinenti alla procedura per le indagini preliminari, quelle relative alle materie oggetto della giurisdizione della Corte, i presupposi di tale giurisdizione della Corte, i presupposti di tale giurisdizione, le regole relative all'accettazione della stessa da parte dei vari paesi, l'obbligo di esercitare la giurisdizione sui casi ritualmente sottomessi alla Corte.E poi la procedura investigativa, la persecuzione penale, la disciplina della libertà personale, il richiamo al principio di legalità anche nel senso della irretroattività della legge penale, la presunzione di innocenza, il ne bis in idem, i diritti dell'accusato e la protezione delle vittime e dei testimoni, la disciplina delle deliberazioni, il sentencing, l'appello e la revisione, la cooperazione e l'assistenza giudiziaria, l'estradizione e i suoi principi, l'esecuzione penale, la concessione della grazia, la liberazione condizionale, la commutazione delle pene. All'articolato e relativo commento fanno seguito una serie di allegati, della più grande importanza perché destinati ad integrare i contenuti di alcune norme dello Statuto nelle parti contenenti rinvii (per esempio ad altre convenzioni internazionali) o a chiarirne l'interpretazione.

Era prevedibile che una normativa così complessa (tra l'altro coinvolgente anche previsioni di diritto sostanziale), ancorché frutto di una attenta revisione rispetto a quella proposta l'anno prima, trovasse nuove obiezioni o desse comunque luogo a rilievi. Ed infatti, nel corso della 49^ sessione dell'Assemblea generale la 6^ Commissione (giuridica) della stessa, forse ispirata da alcune grandi potenze, non recepì e, accogliendo una proposta presentata dalla Francia (A/C.6/49/LL24 del 23 novembre 1994), deliberò la istituzione di un "comitato ad hoc" aperto a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, ad agenzie specializzate degli stessi, per rivedere le principali conclusioni del progetto stesso e per potere alla luce di tale revisione prendere in considerazione l'organizzazione di una conferenza internazionale di plenipotenziari. Per i lavori del comitato ad hoc sono state fissate sessioni dal 3 al 13 aprile e dal 14 al 25 agosto 1995, nell'intento di potere investire dell'esame dei risultati del lavoro del comitato e delle osservazioni degli Stati la 50^ sessione dell'Assemblea generale. Ed ovviamente anche il progetto sui crimini pronto sin dal 1992, ma contenente numerosi punti di contatto con quello sullo Statuto della istituenda Corte, dovrà aspettare questi nuovi traguardi.

Sin qui abbiamo riferito di quanto è accaduto e sta accadendo nell'ambito delle Nazioni Unite. È peraltro doveroso dire che anche in ambito europeo, soprattutto negli ultimi mesi, si sono sviluppate proposte per l'istituzione di una Corte internazionale penale. Nell'ambito del Parlamento europeo, richiamandocisi anche alla raccomandazione 1189/1992 dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, una proposta per la creazione di "un tribunale internazionale per i crimini di guerra", presentata nell'aprile 1993, fu esaminata ed approvata, nell'aprile 1994, dalla Commissione esteri, dopo una approfondita relazione del deputato Langer. Nella risoluzione e nell'ampia relazione che la accompagna (Parlamento europeo. Doc . A 3-00225/94) si fa riferimento ai precedenti dell'ONU, ed in particolare della Commissione del diritto internazionale, e si auspica che all'istituendo tribunale sia affidata la giurisdizione non solo sui crimini di guerra, ma anche sui crimini contro l'umanità, in particolare sul genocidio, e su alcuni tipi di crimine definiti da numerosi testi internazionali. Il tutto peraltro culmina nella richiesta che l'ONU convochi una conferenza diplomatica internazionale per elaborare una convenzione sulla creazione di una giurisdizione penale.

Di analogo tenore la risoluzione adottata dal Parlamento europeo in assemblea plenaria nel novembre 1994 sulla "creazione di un tribunale internazionale criminale" (Doc. B 4-0351,0359 e 0374/94), nella quale ci si rifà anche, manifestando particolare favore, alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sulla creazione di tribunali ad hoc per i fatti della ex-Jugoslavia e del Ruanda, da cui si pensa di ricavare elementi preziosi per la messa a punto del nuovo tribunale permanente.

Sembra evidente, peraltro, che i documenti approvati in sede europea non possono rappresentare, nonostante l'importanza della loro provenienza parlamentare, che un appoggio morale, come tanti altri da varie istanze pervenuti, ad iniziative di competenza dell'ONU: e ciò sia per la preminenza di quest'ultima sia perché una convenzione firmata soltanto in ambito europeo, anche se mai fosse possibile arrivarvi, avrebbe ben scarso valore. Vi aderirebbero soltanto quegli Stati che non hanno problemi nel proprio territorio, o sono convinti di non averne in futuro, e ne resterebbero fuori quelli dove i conflitti sono più terribili e per i quali il tribunale permanente dovrebbe invece, preminentemente, poter funzionare.





4. A questo punto, per non perdersi nei particolari, è opportuno cercare di avvicinarsi a comprendere i perché di tutti questi ritardi e di tutte queste interferenze nella realizzazione di progetti vantati come indispensabili sin da quarantacinque e più anni.

Le ragioni mi sembrano di tre tipi. Anzitutto vi è la difficoltà oggettiva della materia. Per quanto riguarda i crimini destinati a formare oggetto della giustizia internazionale, vi è, per prima, la difficoltà, giuridica e non solo politica, rappresentata dalla definizione dei "crimini contro la pace" e della guerra di aggressione in particolare. Poi vi è il problema dei crimini di guerra, connesso all'evoluzione dei metodi propri delle guerre moderne, al coinvolgimento spesso fatale delle popolazioni civili, alle rappresaglie e al altre difficoltà tra le quali quelle derivanti dal requisito di serietà-gravità ("serious offenses") ritenuto necessario per l'intervento della giustizia internazionale. Meno complessi, forse, i problemi attinenti alla definizione dei crimini contro l'umanità, non fosse che per le dolorose e ripetute esperienze di questo secolo, per la "inutilità" e sproporzione di questi crimini rispetto ai fini stessi delle guerre (ove perpetrati nel corso di queste) o per la loro inaccettabilità totale quando commessi da parte di spietate dittature. Tuttavia anche su di essi gravano alcune ipoteche che possono esser fonte di incertezza. Più gravi invece i problemi nascenti dal proposito di includere tra i crimini internazionali, accanto ai tradizionali tre gruppi di crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l'umanità (tra i quali ultimi può farsi rientrare, sia pure con qualche sforzo di adattamento per le ipotesi minori, anche il genocidio), altri crimini pericolosi per i rapporti internazionali o per la convivenza nel mondo, od offensivi per i sentimenti di umanità, quali l'apartheid, la presa di ostaggi, la tortura, gli attacchi alla navigazione marittima ed aerea, il traffico di stupefacenti e di sostanze psicotrope, tutte materie oggetto di convenzioni internazionali sottoscritte in questi ultimi decenni e dirette ad assicurare la persecuzione e punizione dei colpevoli da parte dei singoli Stati o, alternativa, l'obbligo di estradizione. Per esempio, l'art.20 del citato Progetto 1994 della Commissione per il diritto internazionale così classifica i crimini di competenza dell'istituenda Corte:

genocidio;

aggressione;

gravi violazioni delle leggi e degli usi della guerra,

crimini contro l'umanità;

crimini contemplati dalle previsioni dei trattati elencati nell'Allegato che, avuto riguardo alla condotta presunta, costituiscono crimini eccezionalmente seri sotto l'aspetto internazionale.

Ora quest'ultima categoria di delitti, a cui abbiamo sopra accennato, costituisce

fatalmente fonte di incertezze e può in qualche caso alterare i connotati essenziali del crimine internazionale. Non deve sembrare fuori luogo osservare che, così come ad una eccessiva estensione progressivamente affermatasi dei diritti dell'uomo ha corrisposto nei fatti un aumento spaventoso delle violazioni dei diritti primari ed un fortissimo tasso di impunità, altrettanto paradossalmente potrebbe accadere che attraverso una eccessiva estensione dei crimini di competenza della Corte internazionale finiscano per sfuggire alla giustizia proprio i crimini più inumani e più gravi.

Più grave e tormentata della problematica concernente i crimini è tuttavia quella relativa alla istituzione della Corte. Come si è detto, le prime pagine del Progetto stesso da parte dei vari Governi: parliamo sempre delle difficoltà di ordine giuridico anche se animate da non espresse, o non sempre espresse, motivazioni politiche. Basti accennare alle seguenti: carattere permanente della Corte o semplice sua messa in opera quando un caso le venga sottomesso; natura o meno residuale della Corte rispetto agli obblighi statali di repressione o di estradizione; grado di vincolazione degli Stati all'accettazione della Corte e della sua giurisdizione; rapporti della Corte con l'Assemblea generale o con il Consiglio di Sicurezza, e più in generale con l'Organizzazione delle Nazioni Unite; diritto sostantivo e diritto processuale applicabili negli spazi lasciati liberi dallo Statuto, in particolare rapporti con i diritti nazionali e con il diritto internazionale consuetudinario; elezione dei giudici e spazio da dare ad una rappresentatività delle zone geografiche del mondo; organi abilitati ad investire la Corte di singoli casi, ed, in particolare, ruolo del Consiglio di Sicurezza a tale riguardo; problemi relativi alla consegna dell'accusato e al consenso dello Stato di rifugio o di appartenenza; ammissibilità dei giudizi in contumacia; problemi relativi alle pene da infliggere quando queste non siano previste nel codice sui crimini o in altri trattati; e via dicendo.

Un complesso di problemi, insomma, non ancora del tutto definiti e tali da consentire di pensare che il raggiungimento del traguardo, subordinato al voto di organismo rappresentativo di centinaia di paesi come l'Assemblea generale sia, ad onta della congerie di materiale versato agli atti in tutti questi anni, ancora piuttosto lontano.

Il secondo ordine di ragioni atto a concorrere alla spiegazione del tempo trascorso è di natura tecnico-organizzativa. Le Nazioni Unite, unico ente a cui il compito poteva essere affidato, sono organismo molto complesso, la macchinosità e la burocratizzazione delle cui procedure è aumentata nel volgere degli anni. Per giunta, alcuni suoi organi centrali competenti nelle materie in esame funzionano a New York, altri a Ginevra. Anche quando vi siano Commissioni speciali, il lavoro di queste deve passare al vaglio di una pluralità di organismi; e né la nomina di "relatori speciali" né la costituzione di "gruppi di lavoro", se pure agevolano lo svolgimento dei compiti, evitano detti passaggi. Come se ciò non bastasse, si è visto che si creano comitati ad hoc, gruppi informali, conferenze di esperti e simili. La storia dei progetti sulla definizione dell'aggressione, sul codice dei crimini e sullo Statuto della istituenda Corte è illuminante: per lunghi anni lavorarono intorno alle stesse materie, o comunque a materie strettamente confinanti, una pluralità di organismi, taluno giuridico talaltro politico, ed in sedi diverse. Qualche volta, guardando alle lunghe pause, agli accantonamenti, alle sostituzioni di organi, alle interferenze, si potrebbe essere portati a domandarsi se le difficoltà tecnico-organizzative non siano state usate o quanto meno esasperate in un intento ritardatore. Ma non è né nostra intenzione né nostra possibilità emettere un tale sospetto.

Piuttosto vi è - questo si, dominante - il terzo ordine di ragioni, quello politico. La giustizia internazionale penale rappresenta la più profonda, grave e penetrante forma di ingerenza nelle potestà più gelose degli Stati. Fino a che l'organizzazione internazionale chiede collaborazione, assistenza conformazione delle leggi interne, l'udienza degli Stati è più aperta. Ma quando chiede di sostituirsi ad essi nell'esercizio della giurisdizione penale, o addirittura di esercitare la giurisdizione stessa in mancanza di iniziative degli Stati o perfino per fatti attribuibili ai dirigenti o alle forze armate di quegli Stati il problema è ben diverso. Basti pensare a quelli che sono tradizionalmente i divieti di estradizione, perfino costituzionalizzati in non pochi paesi, e a quelle che furono le difficoltà del passato e confrontare mentalmente queste difficoltà con quelle inerenti alla integrale devoluzione della propria potestà punitiva alla comunità internazionale per rendersi conto dell'enormità del passo da compiere sia pure in vista della attuazione di esigenze di giustizia e di umanità alle quali, in linea di principio, nessuno sentirebbe di sottrarsi apertamente. Se poi si pensa alle grandi potenze che rappresentano tanta, e condizionante, parte delle Nazioni Unite, è facile esemplificare. La Cina è stata sempre ben poco permeabile alle esigenze umanitarie e comunque non si sa quando e come potrà recedere, anche soltanto in parte, dalla sua rigorosa ed inflessibile posizione di non ingerenza nei propri affari interni. La Gran Bretagna non è stata mai favorevole alla messa in essere di organismi internazionali non controllabili. La Francia, antesignana della difesa dei diritti umani nel proprio territorio, è diffidente verso gli altri. Gli Stati Uniti non accetterebbero mai che i comportamenti delle proprie forze armate, che d'altra parte si sono generosamente impegnate più volte nella storia per la difesa dei principi umanitari, fossero sottoposti a giudizi di organismi diversi da quelli americani. La Russia ha i suoi problemi, non poco, in questi campi e v'è da temere che ne avrà di crescenti. E del resto, prima del 1989, l'Unione Sovietica e i paesi ad essa legati non si sono mai dimostrati entusiasti dell'idea di una Corte permanente. Ognuno, poi, deve fare i conti con le proprie strutture interne, con le gelosie dei propri ministeri, con i riflessi negativi che una giustizia internazionale penale può recare ai propri interessi nazionali in questo o in quel settore. Un tempo fu sostanzialmente il perdurare e l'inasprirsi della guerra fredda che impose quella trentennale battuta d'arresto sancita dalla risoluzione ONU 14 dicembre 1954, che deliberò la sospensione a tempo indeterminato dei lavori delle proprie commissioni in materia di giustizia internazionale penale. Oggi, nonostante la situazione radicalmente mutata, nuove preoccupazioni e nuovi timori, incertezze persino più gravi di quelle proprie di quel pur doloroso passato, possono ad ogni passo dar vita a remore analoghe.

Il quadro complessivo non è, insomma, confortante.

E allora si comprende come, dopo tante proclamazioni (ed anche ingenue ed autentiche speranze) sugli effetti salutari attribuiti ai processi di Norimberga e di Tokyo per il progresso dell'umanità, abbiano potuto passare del tutto impunite le atrocità e le stragi che nel corso di oltre quarant'anni hanno insanguinato il genere umano ed hanno mostrato a quali livelli di barbarie si possa giungere in un mondo che si pretende civile e in paesi che hanno sottoscritto, forse con troppa facilità e talora in malafede, impegni internazionali. Si affaccia una serie di nomi praticamente senza fine, nel campo delle guerre d'aggressione come in quello dei delitti di guerra e dei crimini di lesa umanità all'interno degli Stati: Corea, Nigeria, Bangladesh, Vietnam, Sudan, Etiopia, Cile, Argentina, vari infelici paesi dell'Africa nera, e sopra ogni altro, per l'immane vastità del genocidio, la Cambogia con i suoi milioni di morti innocenti.



5. La situazione ora sommariamente richiamata ha contribuito alla rinascita dei tribunali internazionali penali ad hoc: e, questa volta, non più su basi non direttamente convenzionali o paraconvenzionali come fu per i tribunali ad hoc del passato (il tentativo del 1937 per la repressione del terrorismo e i tribunali di Norimberga e di Tokyo del 1945-46).

Le Nazioni Unite, sia pure con ritardo, si sono svegliate di fronte alle guerre nei territori della ex-Jugoslavia e alle atrocità in tale occasione commesse ed hanno fatto uso dei propri poteri nascenti dalla Carta già esistente senza dover passare per l'adozione di nuove convenzioni. Il grimaldello - mi si perdoni l'espressione, che non vuole essere irriguardosa - è stato trovato nel capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che prevede l'azione del Consiglio di Sicurezza nei confronti delle minacce alla pace, delle violazioni della pace e degli atti di aggressione, più probabilmente (ancorché questo articolo non sia espressamente menzionato nelle risoluzioni di cui diremo), nell'articolo 1. Secondo tale articolo "il Consiglio di Sicurezza potrà decidere quali misure, non implicanti l'impiego di forze armate, possano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e potrà invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure. Queste potranno comprendere un'interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche e di altro tipo, e la rottura delle relazioni diplomatiche". Queste misure, cosi come quelle provvisorie e meno gravi dell'art.40 e quelle, belliche e più gravi, dell'art.42 sono chiamate dall'art.2 n. 7 della Carta "misure coercitive" (nel testo originale inglese "enforcement measures", nel testo francese "mesures de coercition") e sono le sole rispetto alle quali la Carta dell'ONU, nello stesso art. 7 n. 2, fa eccezione al principio della non ingerenza "in questioni che appartengano essenzialmente alla competenza interna di uno Stato" (12). Certo si è che, nonostante l'ampiezza delle previsioni del capitolo VII e il carattere non tassativo che viene generalmente riconosciuto alle indicazioni dei relativi articoli, incluso l'art. 41, dedicato ai mezzi non implicanti l'uso della forza, mai si era pensato prima del 1993, in occasione di precedenti e pur terribili conflitti, a includere tra le misure coercitive in questione l'istituzione di un Tribunale internazionale per reprimere i crimini commessi nel corso delle ostilità. Ed invece prima la risoluzione 808 del 22 febbraio 1993 e poi la risoluzione 827 del 25 maggio 1993 del Consiglio di Sicurezza hanno fatto esplicito riferimento ai poteri del Consiglio di Sicurezza previsti dal capitolo VII della Carta per creare, come "misura speciale" di competenza dello stesso Consiglio di Sicurezza "un tribunale internazionale al solo scopo di giudicare le persone presunte responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale commesse sul territorio dell'ex-Jugoslavia tra il gennaio 1991 e una data che il Consiglio determinerà dopo la restaurazione della pace e di adottare a tal fine lo Statuto del Tribunale internazionale allegato al rapporto summenzionato". Il rapporto è quello, citato nel preambolo della Risoluzione, redatto dal Segretario generale dell'ONU in applicazione del paragrafo 2 della citata risoluzione 808.

Tutta una procedura, dunque, rigorosamente inquadrata nei poteri del Consiglio di Sicurezza e del Segretario generale, al quale compete l'esecuzione rapida delle risoluzioni del Consiglio e a cui nella specie è stato esplicitamente demandato di "adottare le disposizioni pratiche perché il Tribunale internazionale possa funzionare al più presto in maniera effettiva".

Della costituzione di detto Tribunale ad hoc, del suo Statuto, del suo Regolamento, abbiamo avuto occasione di occuparci con una certa ampiezza lo scorso anno e non intendiamo qui ripeterci. Rinviamo pertanto a quello scritto (13), limitandoci ad aggiungere, a mero titolo di aggiornamento, che nel frattempo è stato nominato, in sostituzione di quello dimissionario, ed è entrato in funzione il nuovo Procuratore generale nella persona del giudice Richard Goldsone, membro della Corte costituzionale della Repubblica del Sud-Africa, e che il Tribunale stesso ha tenuto all'Aja l'8 novembre 1994 una prima udienza nel corso della quale ha deciso di chiedere alla Germania la consegna di Dusan Tadic, noto come "il boia di Omarska" e alla Repubblica serba di Bosnia (Stato peraltro, per ora, non riconosciuto dalla Comunità internazionale) la consegna di Dragan Nikolic, comandante di altro campo di concentramento.

Nello scritto ora citato abbiamo anche cercato di farci carico delle critiche, spesso aspre e non del tutto consone ad un dibattito scientifico su temi di tanta gravità e serietà, delle quali la costituzione del Tribunale è stata fatta oggetto. Tra queste, quelle, che penso oramai desuete, formulate sin dal 1945 contro una giustizia internazionale nei confronti degli individui, contro la violazione del principio di irretroattività, ed altre. Oramai il diritto internazionale, che si forma anche ad opera degli organismi della comunità internazionale, e dunque delle Nazioni Unite, riconosce la legittimità degli interventi in favore della pace e della sicurezza dei popoli, la responsabilità penale degli individui, l'ingerenza negli affari interni a fini umanitari, l'esistenza di un sistema di diritto internazionale umanitario con gli obblighi che questo comporta a carico degli Stati, dei loro rappresentanti e dei singoli. È fatale che molti studiosi si attardino nella difesa di posizioni tradizionali ed è naturale che essi trovino per tale difesa validi argomenti giuridici. Anzi è bene che queste critiche vi siano perché serviranno da remore contro eccessive o poco meditate estensioni dei nuovi principi. Ma il cammino del diritto internazionale sulle nuove strade ci sembra oramai inarrestabile.

D'altra parte si deve cercare di rendere effettivo e pronto l'intervento della comunità degli Stati, alla luce di quei principi, per la salvaguardia della pace e la sicurezza della comunità stessa e dei singoli che vi appartengono. Se le procedure dirette alla formulazione di convenzioni sono troppo lente, è d'uopo far ricorso, anche se con qualche forzatura, agli strumenti che le convenzioni già esistenti possono fornire. La Carta delle Nazioni Unite è la convenzione basilare e primaria, al cui rispetto sono tenuti tutti gli Stati facenti parte di detta organizzazione. I poteri del Consiglio di Sicurezza sono dotati di questa larga e sicura base convenzionale: e se il Consiglio di Sicurezza, dopo una lunga e approfondita disamina, ha ritenuto di potere motivatamente includere l'istituzione di un tribunale internazionale penale tra le misure a propria disposizione per cercare di assicurare il ripristino della pace e il rispetto delle leggi dell'umanità, non resta che prestare ossequio a tale determinazione. Sappiamo bene che i "tribunali ad hoc" dispensano gli Stati da una quantità di quei problemi a cui dà luogo una Corte permanente internazionale a competenza generalizzata e dissipano i relativi timori. Sappiamo bene che essi rappresentano uno strumento per più versi imperfetto; ma è preferibile cercar di ottenere una effettività di tutela nell'immediato in relazione a situazioni specifiche ed urgenti piuttosto che attendere, al fine di avere basi giuridiche meno controvertibili, il compimento di un'opera lunga ed enorme: tanto più che una iniziativa non esclude l'altra e che i lavori per la istituzione della Corte a competenza generale dovranno egualmente continuare, cosi come effettivamente continuano, sia pure con le lentezze e macchinosità più sopra menzionate.

Resta il problema del carattere coercitivo della misura adottata. Si potrebbe pensare che anche l'istituzione e il funzionamento del Tribunale debbano soggiacere alla regola generale propria delle misure coercitive (quando hanno carattere afflittivo esse sono chiamate anche pene esecutive), che è quella di cessare appena ottenutasi la soddisfazione dell'obbligo; e che pertanto, una volta ripristinata la pace nella regione e piegata con ciò la volontà dei contendenti, anche il tribunale sorto sulla base di un'idea di coercizione debba cessare le proprie funzioni. Ma ciò non sembra sostenibile di fronte al principio, non meno generale, per cui ogni comminatoria deve trovare la propria esecuzione ove no sia diversamente stabilito. La istituzione di un tribunale e di un processo rappresentano una misura coercitiva del tutto sui generis, una specie sinora sconosciuta. Se la relativa attività non giungesse a conclusione e si interrompesse per effetto del raggiungimento della pace, la stessa misura coercitiva speciale perderebbe la propria ragion d'essere e rimarrebbe sguarnita di efficacia, probabilmente sin dall'inizio. Pertanto deve ritenersi appropriata la già menzionata apposizione, all'attività del Tribunale, di un termine finale rimesso alla determinazione del Consiglio di Sicurezza dopo il ristabilimento della pace (Risoluzione 827/93 n.29.

E pi, si tratta veramente di una misura coercitiva in senso stretto, come appare dalla traduzione italiana e da analoghe versioni della Carta dell'ONU? Alcuni scrittori di diritto internazionale parlano, genericamente, anche di "sanzioni", sia per le misure previste nell'art. 41 sia per quelle previste nell'art. 42. Il testo inglese della Carta - già lo si è detto incidentalmente - parla nell'art. 2 n. 7 di "enforcement measures", che è termine indubbiamente lato e comprensivo, tale che a nostro avviso può arrivare perfino a contemplare misure che esercitino una funzione di prevenzione generale mediante intimidazione purchè rivolte all'obbiettivo della restaurazione della pace.

Piuttosto la natura coercitiva della misura in questione, e persino la sola sua funzione di dover servire come deterrente per la cessazione delle ostilità, legittimano seri dubbi per quanto concerne la data iniziale dalla quale si fa decorrere (sempre nel punto 2 della risoluzione 827) la commissione dei crimini sottoponibili alla giurisdizione del Tribunale. Il 1° gennaio 1991 è indubbiamente una data molto lontana da quella delle prime risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sull'argomento, anche da quelle precedenti la risoluzione 808 e con le quali si prendeva genericamente posizione sulle ostilità in Jugoslavia e sulle atrocità connesse in tale situazione: la prima, salvo errore, è la 713 del 25 settembre 1991 concernente l'embargo generale su tutte le forniture di armi e di equipaggiamento militare. E questo è un altro degli argomenti che inducono a preferire ai Tribunali ad hoc, anche dal punto di vista della certezza giuridica e del rispetto di principi generali di civiltà giuridica, l'istituzione di una Corte permanente e stabile, con competenza generalizzata.

Toccate le critiche o le perplessità di ordine giuridico sollevate o sollevabili a proposito del Tribunale ad hoc per i crimini commessi nei territori della ex-Jugoslavia (e - come dice il preambolo della risoluzione 827 - "specialmente nella Repubblica di Bosnia-Erzegovina"), non si può tacere - neanche in una disamina di carattere essenzialmente giuridico - di una accusa fatta sin dall'inizio alla istituzione del Tribunale suddetto di essere un "Tribunale alibi". Alibi - è evidente - rispetto alla incapacità che si assume per dimostrata della Comunità internazionale, dell'ONU, della stessa NATO e degli Stati europei in particolare, di risolvere altrimenti il più grave conflitto determinatosi in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Ed evidentemente di risolverlo con il diretto ricorso alle armi, non essendosi mai rinunciato ai negoziati e ai tentativi di negoziato, che anzi ad un certo momento hanno sopraffatto, per la loro intensità, continuità e persino prevaricazione su altre misure, tutta la gestione internazionale della vicenda.

Effettivamente la tragedia dura da ormai quasi quattro anni e non accenna ad aver fine, anche se le maggiori atrocità, almeno per numero, hanno segnato i mesi e gli anni iniziali dei conflitti, quando ancora non si era fatta, nel mondo, sufficientemente luce su talune barbarie, che per la loro sistematicità e per i caratteri comuni (come le deportazioni e gli stupri condotti in nome di una "epurazione etnica") non potevano che derivare da direttive riconducibili a una pianificazione voluta dall'alto (14). E l'impotenza degli Stati europei e delle Nazioni Unite più in generale è stata costellata da una tal serie di episodi e segnata da tali incertezze da raggiungere in certi casi il grottesco, come nell'offensiva recata alle cosiddette "zone di sicurezza" specialmente protette, quali Bihac, nel divieto imposto dai sebi della Krajina al generale Rose, comandante delle United Nations Protection Force (Unprofor) di recarsi a prender diretta cognizione della situazione dei caschi blu intrappolati in quella sacca (10 dicembre 1994), nella ripetuta presa di caschi blu come ostaggi, nel bombardamento di convogli umanitari nelle continue violazioni di tregue appena sottoscritte e infine nella aperta e minacciosa sfida a tutte le forze dell'ONU formulata per iscritto dal generale Ratko Mladic nello scorso mese di novembre.

Sono note le proteste dei ministri di nove paesi dell'ONU formulate il 14 novembre 1994 nei confronti di altre potenze e il motto del cancelliere tedesco Kohl al congresso del suo partito il 28 novembre dello stesso anno, secondo cui il complesso del comportamento omissivo tenuto dalla comunità internazionale nella ex-Jugoslavia è una "vergogna per la civiltà".

E tuttavia non ci sentiremmo di associarci senza riserve a queste condanne e tanto meno di considerare il tribunale dell'Aja un "tribunale-alibi".

Bisogna, a nostro sommesso avviso, considerare un serie di situazioni, tutte particolarmente sfortunate, anche se frutto di errori o della carenza di adeguate previsioni circa gli interventi consentiti all'organizzazione internazionale.

In primo luogo ci sembra da considerare l'errore iniziale della comunità internazionale, e proprio degli Stati europei in particolare, consistente nell'affrettato riconoscimento del disfacimento dell'unità della Repubblica di Jugoslavia e della sovranità degli Stati sorti da tale disfacimento. In Slovenia la popolazione era formata di sloveni quasi al 90%. In Croazia i croati non raggiungevano l'80%. Ma in Bosnia-Erzegovina, la cui indipendenza fu proclamata sei mesi dopo le prime due, i musulmani, rappresentati dal "partito per l'azione democratica" in quel momento al potere, non erano che il 43.7%, a fronte di oltre il 31% di serbi e oltre il 17% di croati, animati, soprattutto i primi, da un antico odio verso tutto ciò che ricordava la loro lunga dominazione ottomana e la successiva appartenenza di quel territorio (nella cui capitale era scoppiata la scintilla che aveva dato origine alla prima guerra mondiale) all'impero austro-ungarico. Era prevedibile che tale odio si sarebbe riversato anche contro quelle potenze che avevano subito riconosciuto un autonomo stato bosniaco, introducendo lo stesso ai privilegi della sovranità e dell'appartenenza a pieno titolo alle grandi organizzazioni internazionali. Su tutto questo le potenze europee non avevano trovato modo e tempo per riflettere. Tuttavia, anche se intempestivamente incoraggiata e con eccessivo automatismo riconosciuta, la Bosnia-Erzegovina avrebbe meritato, sin dall'inizio, una protezione e un'attenzione internazionale maggiori.

In secondo luogo la crisi fu dominata sin dall'inizio da diffidenze ed altre difficoltà tra gli Stati europei, anche se non sempre espresse, da diversità di vedute con la Russia, da un lato, e con gli Stati Uniti d'America dall'altro; al che si aggiungeva la imprevedibilità degli sviluppi internazionali di un conflitto la cui gravità ed estensione aveva colto il resto d'Europa quasi del tutto impreparato.

In terzo luogo vanno considerati i limiti convenzionalmente e statutariamente imposti alle iniziative delle Nazioni Unite e della NATO. Per le Nazioni Unite questi limiti, a dire il vero, consentirebbero vere e proprie azioni belliche di imposizione data la larga formulazione dell'art. 42, che ammette, sia pure come extrema ratio, operazioni di qualsiasi tipo da parte di forze aeree, navali e terrestri di membri delle Nazioni Unite, sempre al fine di ristabilire la pace e la sicurezza internazionali. Tuttavia è comprensibile, dato il grande impegno economico e l'enorme sacrificio di uomini, che un intervento militare comporterebbe per i singoli Stati, che si sia preferito seguire, anche se con risultati, purtroppo, molto modesti, una azione che fu prevalentemente, anche se non esclusivamente, di semplice interposizione. Tutto ciò ha peraltro contribuito ad aumentare il carattere incerto ed ibrido dell'intervento, tanto più dopo che detto tipo di intervento si è trascinato per anni ed anni.

Infine vi è il fatto, centrale, che alcune tra le principali potenze non hanno mai rinunciato all'idea, di per sé sacrosanta, di arrivare a una pace negoziata tra i contendenti. Ma l'obiettivo - nonostante la creazione di un "gruppo di contatto" tra i più importanti Stati d'Europa - è divenuto sempre più difficile sia perché è difficile, senza esservi materialmente costretti, rinunciare a conquiste belliche già realizzate e alla permanenza su territori conquistati con le armi, sia - soprattutto - perché una vera pace in quella regione potrà, probabilmente, aversi solo con il ripristino di una convivenza etnica e non con tentativi di tracciare confini territoriali per loro natura estremamente precari.

Certamente, non di rado, codesto sforzo per privilegiare la soluzione pacifica, può essersi posto in contrasto con l'impegno per la scoperta dei crimini e per l'identificazione dei responsabili e con l'accelerazione da darsi all'entrata in funzione del Tribunale internazionale. Tuttavia il rallentamento non ha impedito, in definitiva, la costituzione del Tribunale, la messa a punto del suo Statuto e del suo Regolamento così come non ha impedito l'attività, benemerita ed eccezionale, spiegata dalla Commissione d'inchiesta destinata a raccogliere elementi di prova. Né questo interessamento è oggi cessato. Nel settembre 1994 il Consiglio di Sicurezza ha votato altre risoluzioni sui problemi della guerra nella ex-Jugoslavia e tra queste ne figura una che denuncia e condanna il proseguirsi della "epurazione etnica" nella "Repubblica serba di Bosnia".

Cosicché può tuttavia annoverarsi tra le benemerenze dell'ONU - oltre che degli Stati e delle altre entità che ne hanno generosamente sollecitato e seguito l'azione - l'essere riuscita a mettere a punto questo importante segnale di attenzione mondiale ai tragici fatti della ex-Jugoslavia. E ai "caschi blu", pochi o molti che siano stati tra le loro file i caduti, va dato atto di aver cercato di perseguire l'aiuto umanitario e l'interposizione tra i combattenti superando a più riprese grandi difficoltà e incomprensioni. Un loro ritiro dai territori della ex-Jugoslavia sarebbe, a nostro avviso, sotto più aspetti nefasto.





6. Nel novembre 1994 il sistema della creazione di un Tribunale ad hoc per crimini contro l'umanità e di genocidio è stato seguito dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU anche per cercare di mettere termine ai massacri in corso nei territori del Ruanda. Effettivamente in tali territori si sono verificati nell'ultimo anno massacri forse senza precedenti nella storia recente, per numero e per livello di atrocità: tutte le donne incinte dell'etnia avversa furono sventrate, i bambini della stessa etnia massacrati a colpi di machete, tutti i degenti in ospedale assassinati. Stermini in massa si erano avuti in quel paese già nel 1972. Questa volta la comunità internazionale si è svegliata.

Già il 1° luglio 1994, nell'ampia sua risoluzione n. 935, il Consiglio di Sicurezza aveva preso atto, approvandoli, dei risultati dell'indagine affidata alla Commissione per i diritti umani, constatando le denunciate "gravi violazioni del diritto internazionale umanitario". Successivamente aveva preso atto delle analoghe conclusioni di una speciale Commissione di esperti, nominata, seguendo lo schema già adottato per la ex-Jugoslavia, con la suddetta risoluzione 935 (conclusioni trasmesse con lettera del Segretario generale del 1° ottobre 1994, S/1994/1168) statuiva che il protrarsi della situazione costituiva una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali. Ritenuto che "nelle particolari circostanze del Ruanda la persecuzione di persone responsabili di gravi (serious) violazioni del diritto internazionale umanitario contribuirebbe al processo di riconciliazione nazionale e alla restaurazione e al mantenimento della pace" e tenuto anche conto di una richiesta dello stesso Governo del Ruanda, decideva - con l'astensione della sola Cina - di istituire un tribunale internazionale "al solo scopo di perseguire le persone responsabili di genocidio e di altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio del Ruanda, nonché i cittadini del Ruanda responsabili di genocidio e simili violazioni commessi nei territori degli Stati vicini tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1994".

Anche in questa circostanza il Consiglio dichiarava di agire nell'ambito del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e allegava alla propria risoluzione lo Statuto del nuovo Tribunale internazionale. La sede dello stesso restava questa volta riservata a determinazioni ulteriori da adottarsi sulla base di varie considerazioni, tra le quali quelle relative alle esigenze di economia e di spostamento dei testimoni; e non è del tutto da escludere che la scelta possa cadere sullo stesso Ruanda o su uno Stato del continente africano.

Lo Statuto è meno dettagliato di quello del Tribunale per la ex-Jugoslavia, il cui modello viene tuttavia ricalcato. Tra i crimini che ricadono sotto la giurisdizione del Tribunale figurano tutte le forme di genocidio, conformemente alla omonima convenzione del 1948, nonché i crimini contro l'umanità identificati nell'assassinio, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione, imprigionamento, tortura, stupro, persecuzione per motivi politici, razziali e religiosi ed "altri atti inumani". A questi si aggiungono tutti i crimini di guerra ricavabili dalle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, anche qui peraltro con una elencazione che non è tassativa. Vengono ribaditi il principio della responsabilità individuale, quello della non immunità dei capi di Stato o di Governo e quello della inefficacia discriminante dell'ordine del superiore, motivo tuttavia di possibile attenuazione della pena. L'esclusione della pena capitale, confermata dallo Statuto come già per il Tribunale per l'ex-Jugoslavia, ha portato al voto contrario del governo ruandese, peraltro insoddisfatto anche di altri aspetti della Risoluzione. Sul piano del diritto processuale, viene ribadita la priorità della giurisdizione del Tribunale (ovviamente su richiesta del medesimo rispetto a quella dei singoli Stati, riconfermato il principio del non bis in idem e garantito il rimedio dell'appello. I principi fondamentali della procedura, espressamente elencati uno per uno, sono quelli oramai tradizionali sanciti nella Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali e in convenzioni similari.



7. Sul piano dell'organizzazione giudiziaria, i tribunali internazionali penali ad hoc sono dunque l'unica realtà della giustizia internazionale penale al giorno d'oggi. Il fatto che uno dei due abbia appena cominciato a funzionare, con una prima selezione di casi e produzione di richieste di consegna di detenuti, e l'altro non abbia ancora potuto vedere l'inizio della propria attività, può con uno sforzo di volontà essere riconosciuto come un fatto secondario rispetto al principio internazionalmente stabilito con documenti la cui validità e forza cogente difficilmente potranno essere contestate con un minimo di successo. Sul piano del diritto sostanziale internazionale penale grandi passi sono stati fatti dopo la seconda guerra mondiale, sia attraverso le Convenzioni di Ginevra del 1949 sulle violazioni delle leggi e degli usi della guerra e con i protocolli addizionali del 1977, sia con la convenzione sul genocidio del 1948, sia con la definizione dei crimini contro l'umanità, sia con le numerose convenzioni su fatti pericolosi per l'ordine internazionale o comunque suscettibili di un interesse della comunità internazionale alla loro punizione. Ma fare codici di crimini non è instaurare una giustizia internazionale in grado di giudicarli.

Potrà bastare agli scopi della giustizia internazionale penale la esistenza di tribunali internazionali ad hoc e la possibilità di costituirne altri? Non lo pensiamo assolutamente.

Si tratta, infatti, di una giustizia dichiaratamente limitata, forzatamente parziale, asfittica sin dalle prime fasi del suo funzionamento. Gli sforzi per la Corte internazionale penale dovranno pertanto continuare, sperabilmente senza soste, anche se con fatali ritardi. Tuttavia deve riconoscersi che la messa a punto degli Statuti dei Tribunali ad hoc ha spianato la strada ad alcuni principi che dovranno esser propri dell'auspicata Corte internazionale e che la loro esperienza concreta, se mai vi sarà, potrà essere utile per una messa a punto ulteriore di alcuni problemi. Sono alcuni di quei problemi sui quali si continua intanto a lavorare da parte dell'Assemblea generale, delle Commissioni permanenti dell'ONU, di quelle appositamente costituite. Gli anni 1995 e 1996, come già accennato, potrebbero essere decisivi; ci auguriamo comunque che siano importanti. L'edificio da costruire è, come abbiamo visto, di difficilissima costruzione e, dal punto di vista della politica dei vari Stati, delle grandi potenze come delle piccole, tutto è ancora incerto. Né l'attuale situazione internazionale è fatta per portare chiarezza. Ma poiché si tratta di un grande traguardo di civiltà, e poiché compito dell'organizzazione internazionale è proprio quello di salvaguardare la civiltà in ogni campo, bisogna continuare ad operare e a sperare.



Bibliografia



Sui crimini contro l'umanità mi sembra che l'opera più aggiornata, anche per i completi riferimenti storici sulla formazione della categoria e per la distinzione, non sempre facile, dai crimini di guerra, sia quella del BASSIOUNI, Crimes against humanity in International Criminal Law, Dordrecht - Boston - London, 1992.

Il BASSIOUNI, nel primo volume della sua opera International Criminal Law New York 1986 (p. 135 ss.) elenca ben 22 gruppi di International Crimes (che poi analiticamente esamina nel volume stesso): aggressione, crimini di guerra, uso di armi vietate, crimini contro l'umanità, genocidio, discriminazione razziale e apartheid, schiavitù e crimini collegati (inclusi i reati di tratta e di sfruttamento della prostituzione), tortura, sperimentazioni umane illegali, pirateria, pirateria aerea, minaccia ed uso della forza nei confronti di persone internazionalmente protette, presa di ostaggi civili, reati in materia di stupefacenti, traffico internazionale di pubblicazioni oscene, distruzione o furto di tesori nazionali, delitti contro la protezione ambientale, furto di materiale nucleare, uso illegittimo di comunicazioni, interferenze nei cavi sottomarini, falsificazione e contraffazione di carta moneta, corruzione di pubblici ufficiali stranieri.

L'autore individua ben dieci criteri, in forma alternativa o cumulativa, atti a fondare l'enucleazione delle suddette categorie. Comunque, si tratta di casi in cui più sinteticamente può dirsi che strumenti internazionali contemplano momenti di collegamento con il diritto internazionale e pongono conseguentemente a carico degli Stati obblighi di incriminazione, di persecuzione penale, di estradizione o di assistenza. Tra detti momenti figura anche quello della predisposizione di una corte o tribunale internazionale per la loro punizione.

Gli strumenti internazionali puntualmente indicati dal Bassiouni in detto contesto sono ben 312 e vanno dal 1815 (dichiarazione del Congresso di Vienna contro il commercio degli schiavi) al 1984. Successivamente a tale anno il numero degli strumenti internazionali è ancora aumentato.

Basti riflettere alle migliaia di processi instaurati dopo la seconda guerra mondiale, in Europa e fuori d'Europa, contro gli imputati di crimini di guerra, in genere appartenenti ai paesi vinti. Cenni in proposito anche nel citato libro del BASSIOUNI, Crimes against humanity, p. 213 ss..

Sui terribili fatti della ex-Jugoslavia esistono numerose altre documentazioni, non raccolte a fini di inchiesta destinata a servire alle attività della Procura e dell'apposito Tribunale. Tra queste, segnatamente, quelle del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). Su queste ultime cfr., per i fatti fino all'aprile del 1993, il volume dal titolo, purtroppo, molto significativo per il tema di queste note, di M. MERCIER, Crimes sams châtiment. L'action humanitaire en ex-Yougoslavie, 1991-1993, Bruxelles-Paris, 1994.

Questa locuzione risale in Italia, tra gli altri, al DE MARSICO, al QUADRI e soprattutto a N. LEVI (Diritto penale internazionale, postumo, Milano, 1949). Ed è da avvertire che nella dottrina italiana si è fatta strada da tempo la distinzione tra "diritto penale internazionale" (ramo, appunto, del diritto interno relativo ai rapporti con i diritti stranieri e con le giurisdizioni straniere) e "diritto internazionale penale", nel quale la precedenza data all'aggettivo "internazionale" vuole sottolineare che si tratta appunto di un ramo del diritto internazionale, concernente le responsabilità penali degli individui (e secondo alcuni anche degli Stati) di fronte al diritto internazionale. Cfr., in proposito, tra gli altri, G.VASSALLI, In tema di diritto internazionale penale, in Giust. Pen., 1949, I, 257 ss.; e da ultimo il sistema del MANTOVANI, Diritto penale, 3^ ed., Padova, 1992, p. 911 ss., chedistingue la parte quinta del suo manuale, dedicata ai Problemi internazionali del diritto penale, in due capitoli "Il diritto penale internazionale" e il diritto internazionale penale".

Nella dottrina straniera questa rigorosa distinzione è poco conosciuta e in genere non è seguita. Gli scrittori usano spesso il termine "diritto penale internazionale" per indicare quello che noi preferiamo chiamare diritto internazionale e collocano sotto la stessa denominazione di "diritto penale internazionale" sia i problemi propri di questo ramo del diritto sia i "crimini internazionali".

Un esempio perspicuo di tali previsioni si trova ad esempio nel Draft Statute International Tribunal elaborato dal BASSIOUNI per l'Associazione internazionale di diritto penale (n. 10 delle Nouvelles études penales, ed. Erès, Cahors, 1993): v. in particolare gli articoli XII 1, XIX 1 e allegato 1.

Non va confusa con codesta giustizia penale transnazionale quel più vasto concetto di una politica criminale auspicabilmente comune a più Stati interessati al contenimento della criminalità e che involge, tra l'altro, l'allineamento delle diverse legislazioni quanto alla formulazione di importanti fattispecie legali del diritto penale sostanziale e quanto alla formulazione di norme processuali penali analoghe (tra le principali quelle sul segreto bancario), i tentativi di creare "norme-standard" eguali per tutti i paesi, i piani di aiuto ai paesi più poveri ed esposti agli attacchi e alle insidie della criminalità organizzata, ecc.

Il progetto elaborato dal BASSIOUNI e citato nella precedente nota 6 (ma non solo esso)contempla la possibilità di un competenza del Tribunale internazionale, sia pure su richiesta di uno degli Stati membri della Organizzazione delle Nazioni Unite, per tutti, o quasi, i crimini internazionali, ivi inclusi i reati contro l'ambiente (evidentemente quelli di impatto internazionale), la distruzione o il furto di tesori nazionali o culturali, il traffico di materiali osceni, il furto di materiali nucleari e persino l'uso di mercenari (art. XIX comma 4 e allegato 1).

In alcuni dei vari progetti elaborati, si suole usare la locuzione "tribunale penale internazionale" per indicare un complesso di organi, quali la Corte giudicante, il pubblico ministero, il Segretariato, il Comitato permanente degli Stati-membri, ecc.; mentre per Corte penale internazionale si intende appunto l'organo al quale è devoluto il giudizio. Nel seguito delle presenti note cercheremo di attenerci a tale terminologia, ma può darsi che ci occorra di usare indifferentemente i termini "corte" e "tribunale".

Può essere utile ricordare, per quanto conosciuta, questa parte dell'art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga ai fini di meglio comprendere quanto si accenna nel testo: "a) Delitti contro la pace: ossia la pianificazione, la preparazione e lo scatenamento di una guerra di aggressione o di una guerra che violi trattati, accordi o garanzie internazionali di qualunque specie, o la partecipazione a un piano comune o associazione a delinquere per l'attuazione di tutto ciò. b) Delitti di guerra: ossia la violazione delle leggi o delle consuetudini di guerra. Tali violazioni includeranno, ma a ciò non si limiteranno, l'uccisione, il maltrattamento o la deportazione alla schiavitù del lavoro o per qualunque altro scopo delle popolazioni civili di un paese occupato o in un paese occupato; l'uccisione o il maltrattamento dei prigionieri di guerra o di passeggeri o di equipaggi di navi da guerra e non; l'uccisione di ostaggi, il saccheggio della proprietà pubblica o privata, la distruzione sistematica di città, borgate, villaggi, o la devastazione non giustificata da necessità militari. c) Delitti contro l'umanità: ossia uccisione, sterminio, deportazione, riduzione in schiavitù e ogni altro atto di inumanità commesso contro popolazioni civili, prima o durante questa guerra; ovvero persecuzioni politiche, razziali o religiose al fine di commettere, o nell'atto di commettere altro delitto di competenza di questa Corte, sia preveduto o no come delitto dal codice del paese ove venne commesso".

United Nations, Report of the International Law Commission on the work of its forthy-six session, 2 may- 22 July 1994, General Assembly Official Records-Forty-ninth Session, Supplement No. 10 (A/49/10).

Notizie interessanti circa la formazione di questa clausola alla Conferenza di San Francisco si trovano in CONFORTI, Le Nazioni Unite, 5^ ed., Padova, 1994, p. 150 ss.; e sull'art. 41 specificamente, ivi, p. 186 ss..

G. VASSALLI, Il Tribunale internazionale per i crimini commessi nei territori dell'ex-Jugoslavia, in Legislazione penale, 1994, p. 335-356.

Pur nella prudenza del linguaggio usato, ciò risulta chiaramente da vari passi della Relazione della Commissione di esperti nominata sulla base della risoluzione 780/92 del Consiglio di Sicurezza e presentata dal Segretario generale al Consiglio stesso il 24 maggio 1994 (S/1994/674: cfr. in particolare ai nn.84-86 e 129-150 per quanto concerne l'attuazione dei programmi di "pulizia etnica", ai nn. 151-182 per quanto concerne il genocidio praticato dai Serbi nella Opstina di Prijedor, ai nn. 192-209 per la pianificazione dei bombardamenti su Sarajevo in relazione a eventi politici, e in genere per tutto riguarda i campi di concentramento creati nelle varie zone del paese).