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 pubblicato il 23 novembre 2000

I princípi. E i fatti

Rossana Rossanda
 
(c) la rivista del manifesto, novembre 1999, n.0

Pubblicazioni Centro Studi per la Pace
Sito Internet - www.studiperlapace.it

 



 

Un anno fa il Dipartimento di stato sceglieva, proprio in questi giorni, di sostenere la guerriglia indipendentista dell'Uck nello scontro che almeno dal mese di marzo la opponeva alle forze serbe in Kosovo. Fino ad allora, la Uck era stata definita una banda l'interlocutore kosovaro sulla scena internazionale era Ibrahim Rugova, leader moderato dei solo partito autonomista della regione.

Il momento era curioso: grazie all'accordo del 12 ottobre fra Hollbrooke e Milosevic, le forze serbe si ritiravano in gran parte dal Kosovo, e sul terreno si installavano circa duemila osservatori dell'Osce. Pareva dunque una tregua dopo la tarda primavera e l'estate, quando s'erano infittiti gli attacchi della Uck, cui i serbi avevano risposto con rappresaglie durissime contro trecento villaggi considerati nidi della banda indipendentista. Si parlava di circa 250.000 kosovari cacciati dalle loro case, 50.000 dei quali restavano senza asilo, vaganti nel territorio. A sua volta la Uck, nei villaggi di cui era riuscita a impadronirsi, aveva proceduto espulsioni di segno opposto, naturalmente in minor misura per la sproporzione fra le popolazioni albanese e serba (circa 80 e 20 per cento). All'inizio d'autunno la Uck però era indebolita, restava poco strutturata, e sconcertata dal fatto che la sua offensiva, ai fini di ottenere un appoggio della comunità internazionale, nulla avesse ottenuto: nel fuoco dell'estate la Nato non aveva deciso di appoggiarla, anche se la campagna contro i ,serbi aveva raggiunto, specie negli Usa e in Gran Bretagna, livelli altissimi.Era venuto invece l'accordo del 12 ottobre, le forze serbe s'erano ritirate da oltre metà del territorio. t in questa fase di apparente maggior calma che matura la scelta dei Dipartimento di Stato di abbandonare Rugova e il suo rappresentante Fehmi Agani e stringe un'alleanza con l'Uck, che riceverà armi e istruttori. Naturalmente non é una scelta esplicita: un conto è incoraggiare una parte, un conto è appoggiarla militarmente; tanto più che non tutte le potenze europee sarebbero d'accordo. La loro richiesta ufficiale resta la stessa: la Rfj restituisca una autonomia effettiva alla regione dentro i confini della Jugoslavia.

Sta di fatto che dopo i contatti e con l'appoggio Usa, la Uck ricomincia gli attacchi, si rinnovano gli scontri, gli osservatori dell'Osce sono impotenti. Non fa scandalo la scoperta di due fosse comuni con una ventina di cadaveri serbi. Lo fa invece la scoperta a Racak, il 15 gennaio, di quarantacinque corpi di albanesi freddati davvicino a colpi d'arma da fuoco e poi mutilati ? non si saprà né quanti appartenessero alla Uck né chi li ha mutilati. La signora Louise Arbour, presidente dei Tribunale dell'Aia, corre sul luogo, fatto mai successo prima. La comunità internazionale è scossa e si imposta in un clima acceso il primo incontro di Rambouillet. Dove la Nato pone la Serbia di fronte a un ultimatum: deve riconoscere l'autonomia al Kosovo in seno alla Rfj. La Serbia firma. Ma per la parte albanese c'é per la prima volta l'Uck, che rifiuta di firmare, vuole l'indipendenza. Richiamata dalla Nato, e probabilmente presa visione di codicilli aggiuntivi insostenibili per la Rfj, in un secondo incontro la Uck firma, la Serbia no. A quel momento l'ultimatum parte e la guerra è innescata.


L'opinione europea ne prende atto soltanto nel precipitare fra le due conferenze. I presidenti del consiglio, e per la Francia quello della Repubblica, approvano a Bruxelles il piano americano di bombardamenti della Serbia preparato da diversi mesi, e mobilitano ciascuno un proprio contingente. Ma non convocano i parlamenti, come sarebbero tenuti a fare, la decisione di una guerra essendo sottratta agli esecutivi e, dopo il secondo conflitto mondiale e la Carta dell'Onu, sottoposta a vincoli non superabili dagli stessi parlamenti (in Italia art. 11 della Costituzione).

Il problema costituzionale, come nel caso dell'Iraq, è eluso non dichiarando la guerra. La Francia chiamerà sempre l'intervento "la crise du Kosovo" oppure "les frappes au Kosovo". Il nostro più loquace Presidente del Consiglio ammette che "siamo in guerra ma perché una guerra c'era già", ma non rompe le relazioni diplomatiche con la Rfj né questa fa segno di romperle con l'Italia che, oltre a inviare una forza operativa sul suo territorio, funge da pista di lancio, da Aviano e Gioia del Colle, di tutti i bombardieri, eccezion fatta per alcuni di lunghissima autonomia che si alzano dagli Usa.

Inizio dei bombardamenti e loro obiettivo, compreso il passaggio da quelli militari a quelli civili di "importanza strategica" tipo energia, viabilità, trasporti e televisione, sono concertati: Madeleine Albright per il Dipartimento di Stato e Xavier Solana per la Nato consultano tutti i giorni i paesi dell'alleanza e ne sono consultati. L'Eliseo ammetterà per bocca di Hubert Vedrine che nulla, a cominciare dall'identificazione degli obiettivi, è avvenuto senza il suo accordo, su presentazione dei "menu" settimanale del comandante delle operazioni militari Wesley Clark.

Quel che resta in sospeso é la definizione del fine e dei mezzi ultimi: garantire. L'autonomia del Kosovo, strapparne l'indipendenza, abbattere il regime di Milosevic? La maggior parte delle cancellerie europee proferiscono attenersi per il momento al primo punto, con il vantaggio di apparire davanti al proprio paese come moderatrici di intenzioni più drastiche attribuite ora al Dipartimento di stato, ora personalmente alla Albright, ora al generale Clark, ora a Solana.

Il gioco delle parti é reso possibile dal fatto che a marzo, a inizio delle operazioni, era convinzione generale delle cancellerie che la Serbia avrebbe ceduto dopo qualche giorno, cosa che rendeva più agevole presentare l'aggressione come un severo ma parziale ammonimento. Quando la Serbia non cede, e i bombardamenti si prolungano, e sotto il piovere dei missili i serbi si scatenano contro i kosovari, a favore di una invasione terrestre caldeggiata dal comando Nato si esprime soltanto il britannico Robin Cook. Ma la resa di Milosevic sul Kosovo e l'imminenza delle elezioni europee permettono di chiudere i bombardamenti ai primi di giugno, evitando una difficile prova della verità.

Intanto da gennaio a marzo tutto - ultimatum, operazioni aeree e spostamenti di truppe - ha luogo senza consultare il gruppo di contatto dei Balcani, dunque la Russia, e le Nazioni Unite. Non era mai avvenuto prima. Ma nel Consiglio di Sicurezza Russia e Cina sì sarebbero opposte - la Russia emette infatti qualche vociferazione e la Cina protesta con più energia, specie quando la sua ambasciata a Belgrado viene bombardata per intenzione o errore. La scelta di campo per l'Uck e il suo armamento, l'invito dell'Uck a Rambouillet e l'abbandono di Rugova, il ritiro dell'Osce, l'ultimatum e i bombardamenti - tutto deciso in sede Nato - non disegnano soltanto una escalation contro la Rfj ma una, modificazione radicale dei quadro e delle regole, dei rapporti internazionali dopo il 1945. Neppure la guerra dei Golfo li aveva formalmente negati: certo essa sì ora attuata per il venir meno della forza d'interdizione sovietica, ma l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq aveva fornito il pretesto e il "via" dell'Onu.

Nel 1999 no. La direzione della strategia mondiale veniva assunta senz'altre mediazioni dagli Stati Uniti, che ne detenevano anche il comando militare operativo, in concerto con tutti i paesi europei, eccezion fatta per la Grecia. La formalizzazione di questo mutamento, che scassa fini e autorità dell'Onu già da tempo minati dagli Usa, annulla il principio, che pareva acquisito con il 1945, d'una partecipazione di tutti i paesi del mondo nelle decisioni concernenti le modifiche degli assetti postbellici.

Ed è portata a termine nel pieno dei bombardarnenti quando Stati Uniti e i paesi dell'Ue firmano a Washington, a metà aprile, in occasione dei cinquantesimo anniversario della costituzione della Nato nel 1949, non già il suo scioglimento, che conseguirebbe al venir meno delle condizioni in cui nacque - alleanza difensiva da una eventuale aggressione dell'Unione Sovietica nel territorio degli stati membri e su chiamata di uno di essi - ma il suo rinnovo e allargamento come alleanza non solo difensiva in grado di intervenire, sotto comando militare americano, in qualsiasi luogo e situazione appaiano in causa gli interessi dell'occidente. Oppure i "diritti umani", che sono stati enunciati una Carta dell'Onu ma al cui Tribunale, che dovrebbe determinare le violazioni e decidere procedure e sanzione, si sono opposti fra gli altri Stati Uniti e Cina appena due anni fa. Adesso, senza mandato alcuno,la Nato se ne erge a garante, giudice ed esecutore.

Di questo mutamento, che introduce stabilmente in Europa un comando atlantico in forme non previste neppure durante la guerra fredda, sono firmatari i governi di sinistra - per quel che la parola può oggi significare - del New Labour, della Spd, dei socialisti e comunisti francesi, dei centrosinistra in Italia. Tutti in violazione della loro Costituzione. Definire l'intervento come operazione di polizia internazionale, perché avviene fra soggetti non alla pari, non ne sminuisce la natura di aggressione a uno stato, e inaugura sotto una forma ipocrita un diritto dell'Occidente tramite Nato di intervenire dove crede con la sua predominante tecnologia militare.

E' un mutamento sostanziale del patrimonio di principi per i quali le sinistre moderate sono arrivate molti decenni al potere. Lo è anche il fatto che nessun governo di sinistra consulti il proprio parlamento. E che nessun parlamento europeo chieda di essere consultato. Gli Stati Uniti e i governanti della Ue chiudono così il vuoto negli equilibri mondiali creato dal venir meno del mondo bipolare con l'implosione dell'Urss. Il mondo occidentale, il cui braccio armato è, per ora, la Nato, si proclama unipolare. E in esso prende parte piena, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, la Germania che, passando oltre sia le decisioni postbelliche sia la sua propria Costituzione, è abilitata dal corpo di spedizione nei Balcani a far la guerra come gli altri.

A guerra dei Balcani finita, le strutture di comando più solide nell'Unione Europea risultano, con la Banca Centrale, l'Alleanza Atlantica e i paesi del G8, che include il Giappone e con qualche limite la Russia. Nessuna delle due corrisponde ai confini dell'Europa in ambedue la leadership è degli Stati uniti.

Giovanni Arrighi [autore di un articolo nella stessa "la rivista del manifesto", novembre 1999, n.0, dal titolo "Miti e realtà del capitalismo globalizzato", n.d.r.] vede anche in questa militarizzazione su scala bicontinentale l'incrinatura dell'egemonia degli Stati Uniti. La sua ipotesi merita di essere discussa nel medio termine. Nel breve, l'attuale politica degli Usa sembra rispondere a una strategia, maturata dopo il 1992 forse anche in risposta all'unificazione monetaria europea. Si può comprenderne la ragione. Più sconcertante è perché, nell'anno dell'euro e della vittoria delle sinistre nei maggiori grandi paesi del continente, l'Europa consenta precipitosamente al disegno americano.

Certo la crisi jugoslava continua a trovarla impreparata, come nei confronti di tutta la sua zona orientale e delle forme che prende il crollo del sistema sociale, statuale e militare dell'est. La sola opzione che essa sembra esprimere è il maggiore smembramento possibile del blocco, senza considerarne le conseguenze. Così dopo l'incoraggiamento alle secessioni croata e slovena, la reazione serba la sorprende. Non è in grado di farvi fronte, né politicamente né militarmente. Che si tratti d'una delle più gravi lacerazioni politiche/sociali dei mondo già socialista, innestata su antichi e disperati nazionalismi che la stagione titina aveva cercato di sanare, né governi né popoli dell'Europa occidentale paiono cogliere. Neanche i movimenti pacifisti misurano l'ampiezza della crisi, né prima dei bombardamenti - hanno partecipato con solidarietà generosa alle sofferenze delle popolazioni durante i conflitti con la Croazia e la Slovenia e nella tempesta bosniaca - né quando essi sono terminati: pace sì, guerra no è uno schema nel quale. non tutta la vicenda jugoslava si tiene.

E' vero che il 1989 ha sconnesso gli assetti politici europei. E' vero che la pressione liberista indotta da Thatcher e Reagan ne ha sommosso le costituzioni materiali e le soggettività. E' vero che negli stessi anni in Italia lo scandalo della corruzione offusca ogni altra attenzione. Ma è un fatto che l'esplosione della Jugoslavia, paese di confine, e d'un confine così poroso, non è colta nella sua portata né dalla destra né dalla sinistra né dai movimenti sociali. Nessuna analisi, dunque nessun intervento politico, nessuna proposta che sposti verso il dialogo le sanguinose carte sul tavolo nei Balcani parte dall'Europa. L'importante è demolire il regime di Milosevic perché sembra in qualche misura ancora "comunista" e se non si può definire dittatoriale in senso pieno, non è neanche democratico. Dunque crolli. Anche il Vaticano lo auspica. E non importa se il crollo fa degenerare lo scenario, lasciando i soggetti, tutti, umiliati, offesi, irriconciliati e vendicativi.

I paesi europei altro non vedono nel 1999 che un intervento che li forzi. Il grimaldello sarà "il diritto di ingerenza in uno stato sovrano in nome dei diritti umani". Nel caso dei Kosovo è la pretesa serba, enunciata fin dalla Accademia delle Scienze di Belgrado, di restituire ai serbi ogni terra che sia stata da loro conquistata, disconoscendo diritti polititi e civili ad altre etnie, ribaltando cioè i principi della Jugoslavia di Tito.

La violazione della Rfj dei diritti del Kosovo, assicurati fino al 1991, è evidente. Ma restaurare una multietnicità dove essa è stata minata non è semplice, e certo una guerra esterna che prendo parte per una delle etnie in gioco mette irreparabilmente in discussione ogni dialogo. E infatti tutte le guerre jugoslave postcomuniste si sono concluse separando le etnie. Quella in Croazia si conclude con la cacciata dei serbi dalla Krajna, oltre mezzo milione di persone, e così quella bosniaca con gli accordi di Dayton. Ma nessuna riflessione su questi esiti arresta i governi europei nel 1999. A oggi, e in capo a sette anni, più d'un milione di profughi serbi si aggira per la Rfj e nei paesi vicini, e non si sa quanti dei mezzo milione di kosovari siano realmente rientrati nelle case dalle quali erano stati cacciati e deportati.

E' l'insipienza che fa oscillare gli europei fra il non far nulla e il ricorrere alla forza americana, pagandone il prezzo. Anche se la chiamata induce gli Usa, dopo alcune esitazioni e sotto una controversa pressione, nella quale si distingue soprattutto Brzezinski ? ma tutta la documentazione è in I. Mortellaro, La Nato verso il XXI secolo, in pubblicazione per la "manifestolibri" ? a decidere di non intervenire più gratis, ma garantendosi formalmente un ruolo nel continente. Sta di fatto che questo è il solo risultato effettivo e di lunga durata della guerra dei 1999, nei Balcani. A posteriori, e in un'ottica razionalizzante, esso può parerne il vero obiettivo.

Nella tormentata regione nulla di quanto aveva dato origine alla crisi è risolto. La scelta di bombardare i territori ha esposto i kosovari alla prevedibile vendetta serba: mai la violenza contro di loro, le loro cose e le loro case è stata così selvaggia. Nulla toglie alla reponsabilità morale di Milosevic e della opposizione serba, degli intellettuali e di chiunque poteva parlare e non lo ha fatto, che la comunità internazionale abbia dato mani libere all'esercito e alle milizie serbe. Ma questo ha fatto decidendo quel tipo di intervento, sapendo di non poterle fermare e perfettamente indifferente a quel che ne sarebbe derivato alla popolazione kosovara in ostaggio.

Dopo i bombardamenti, con il ritiro delle truppe serbe, il Kosovo resta una zona di incerta destinazione, dalla quale è chiaro soltanto che la Rfj è messa fuori. La scelta di affidarlo a un protettorato transitorio delle Nazioni Unite, tardivamente scese in campo, sotto l'egida del commissario per l'Onu Bernard Kouchner non ne ha garantito una multietnicità né istituzioni concordate fra serbi e albanesi: lo ha messo di fatto nelle mani della Uck, che invece di sciogliersi funge da forza interna d'ordine, sottoponendo la residua esile minoranza serba a vessazioni di ogni tipo. Le due pulizie etniche hanno radicato per generazioni un odio incancellabile.

Il Montenegro è sull'orlo della secessione e la Macedonia, già separata dalla Rfj nel 1991, resta uno stato nazione incerto e allo sbaraglio. Assieme all'Albania e nel caos della guerra in Kosovo, gli stessi governi di questi paesi sono imbricati nel contrabbando e nell'economia illegale, che falsa ogni confine amministrativo e ogni prospettiva di stabilità.

Quanto alla Serbia, indebolita la Rfj, è uscita dalla guerra devastata nelle strutture, con in più qualcosa come settecentomila profughi da collocare, per i quali non ci sono i mezzi e che il governo sembra utilizzare piuttosto come incandescente materiale di protesta nazionalista. Slobodan Milosevic non é incalzato da sinistra da alcuna riflessione e spinta di rinnovamento in grado di metterne in causa il potere. La percezione di essere bersaglio di tutto il mondo non ha certo Indotto una critica alle degenerazioni nazionaliste. Come nel caso dell'Iraq, la campagna che ha chiesto l'avallo all'opinione internazionale per abbattere un regime non democratico si è rivelata strumentale: né gli Usa né la Ue hanno inteso pagare il prezzo di una guerra terrestre che arrivasse a scardinare Belgrado. Obiettivo peraltro non legittimabile nel quadro di diritto internazionale ancora esistente. La propaganda occidentale, conscia della fragilità in sede di diritto dell' "ingerenza umanitaria", ha tentato di,paragonare la Serbia alla Germania hitleriana. Ma meno ancora dell'Iraq essa costituiva la minaccia espansionistica che ha legittimato la guerra contro il Terzo Reich. Come nell'Iraq è stata dunque messa in atto una guerra aerea a potenziale distruttivo illimitato, costo umano zero per chi bombarda e obiettivi politici limitati.

Infine le conseguenze sull'ex blocco sovietico. Tutti i paesi dell'est a eccezione della Russia hanno appoggiato la Nato, di cui non fanno parte, mettendo a diposizione le loro strutture: l'Ungheria ha offerto il territorio come base per una eventuale invasione della Serbia via terra. La Russia, messa da parte, ha contrastato l'intervento ma non ha avuto la forza di opporsi, sia per la dipendenza dal Fondo Monetario Internazionale sia per lo stato di caos in cui versa. Dall'avventura balcanica della Nato, Eltsin ha tratto il suggerimento di replicare la formula della guerra aerei contro le spinte islamiche nel Caucaso, attaccando per la seconda volta la Cecenia. Ma gli esiti sono incerti. Il nodo russo, che avrà una stretta in un senso o nell'altro nel prossimo dicembre, é più che mai aggrovigliato, E può darsi che la decisione statunitense di darsi una presenza formalizzata in Europa con la Nato venga anche dall'incertezza su questa incognita tempestosa.


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