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 pubblicato il 27 maggio 2001

La minoranza araba palestinese in Israele: la negazione di un'identità

Tesi di laurea
 
Università degli Studi Padova
Facoltà di Psicologia
 
Majid Kana'na
Relatore: Prof. Patrizio Tressoldi
Anno Accademico 1998 - 1999


Argomenti correlati:
 Il Rapporto Mitchell con le repliche dell'OLP e del Governo d'Israele
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Pubblicazioni Centro Studi per la Pace
Sito Internet - www.studiperlapace.it

 



 

NB: E' disponibile un breve abstract. L'intera tesi può essere scaricata in formato .pdf dalla  mappa del sito (sezione: tesi di laurea).

Indice:

Introduzione

1 La negazione dell'Identità
2 Descrizione dei capitoli

Capitolo 1: Appartenenza e relazione intergruppo

1.1 Le Relazioni intergruppi
1.2 La Teoria dell'Identità Sociale
      1.2.1 La categorizzazione sociale
      1.2.2 Appartenenza e identità sociale
1.3 La Teoria della Deprivazione Relativa
1.4 Pregiudizio e relazione intergruppo
      1.4.1 Definizione di pregiudizio
      1.4.2 L'approccio sociocognitivo al pregiudizio
      1.4.3 Oltre l'approccio sociocognitivo

Capitolo 2: Una minoranza nazionale nello stato etnico: I palestinesi nello stato ebraico

Premessa
2.1 La società arabo-palestinese durante il mandato inglese: 1918-48
2.2 La distruzione della società civile araba: 1947-49
2.3 I palestinesi in Israele
      2.3.1 Il vuoto politico e la costruzione della minoranza: 1948-66
      2.3.2 Il ritorno all'origine e l'affermazione della propria identità: 1967-88
      2.3.3 I palestinesi in Israele e l'accordo di Oslo: 1988-1998
2.4 Le sfide di oggi

Capitolo 3: La Ricerca

3 1 Obiettivi e ipotesi della ricerca
3.2 Soggetti
3.3 Strumento e procedura
3.4 I risultati
      3.4.1 Descrizione generale dei dati e del confronto tra i gruppi
      3.4.2 La distanza sociale
      3.4.3 La gerarchia etnica
      3.4.4 Appartenenza, soddisfazione e cambiamento
      3.4.5 Proposte per la minoranza

Conclusioni

Bibliografia

***

Abstract:

Dall'inizio del secolo, i leader del movimento sionista hanno negato che gli arabi della Palestina costituiscano un gruppo nazionale che abbia diritti in essa.
 
Come afferma Edward Said (1992), il movimento sionista va collocato nel contesto culturale del XIX dell'Europa liberal, come del resto tutti i movimenti nazionalisti europei. In quel clima culturale, era naturale per gli europei negare la presenza dell'Altro, l'indigeno.
 
Nel caso particolare del movimento sionista, la negazione della presenza di un popolo indigeno in Palestina, oltre all'atteggiamento di supremazia europea, aveva anche altri motivi. In particolare, il fatto di riconoscere la presenza di un altro gruppo nazionale in Palestina avrebbe messo in crisi il progetto ideologico - nazionale sionista, cioè la creazione di uno stato focolare ebraico in Palestina, e la sua giustificazione: "terra senza popolo per un popolo senza terra".
 
I palestinesi , come nota E. Said, dopo il '48, scomparvero sia dal punto di vista politico e nazionale che come soggetti giuridici: alcuni riapparvero come "non ebrei", altri divennero "profughi", poi, alcuni hanno preso cittadinanza araba, europea o americana.
 
Con la creazione dello Stato d'Israele, definito stato degli ebrei, la politica di rifiuto di vedere gli arabi come gruppo nazionale, divenne istituzionalizzata. Venendo considerati come delle minoranze religiose, e definiti con termini come "non ebrei", Mussulmani, Cristiani, Drusi e beduini, e "l'ambito arabo".
 
In oltre, la Dichiarazione d'Indipendenza dello Stato d'Israele il 15 Maggio 1948, la Nakba (catastrofe) per i palestinesi, è stato l'evento più drammatico di tutta la storia di questo popolo. Nel caso della mionranza arabo palestinese in Israele, questo evento, che l'ha tagliata fuori dalla storia e l'ha messa in un non - luogo, ha fatto si che questa comunità si sviluppasse in modo anomalo o, come hanno sostenuto Rouhana e Ghanem (1998), seguisse uno "sviluppo critico".
 
Un fattore importante nel definire il volto di questo gruppo, cioè i palestinesi che sono rimasti in Israele dopo il 1948 e che sono diventati cittadini israeliani, lo ha avuto il ruolo dell' "Altro" (lo Stato d'Israele, l'O.L.P, i paesi arabi, ecc.). Infatti, questo gruppo è stato chiamato con tanti nomi, cariche di significati politici, che cambiano a seconda delle parte che lo prende in considerazione: arabi israeliani, arabi d'Israele, gli arabi in Israele, arabi dell'Interno, arabi del '48, palestinesi del '48, palestinesi d'Israel, palestinesi in Israele, ecc.
 
Se prendiamo in considerazione la composizione nazionale dei suoi cittadini, Israele oggi si presenta come uno stato binazionale. Alla fine del 1996, Israele era abitato da circa 992 mila cittadini non ebrei (più del 90% di loro sono arabi, e costituiscono il 16,6% dell'intera popolazione, esclusi i cittadini arabi di Gerusalemme Est e del Golan). Nonostante questo, Israele continua ad essere uno Stato etnico ed è definito come lo Stato degli ebrei, perciò i palestinesi, istituzionalmente, non potrebbero avere gli stessi diritti e la stessa cittadinanza, in quanto sono, appunto, "non ebrei". Uno stato etnico può essere anche democratico?
 
In sintesi, il problema principale della relazione tra il gruppo dei palestinesi in Israele e lo Stato, deriva dal fatto che quest'ultimo è definito come "Stato degli Ebrei", e in quanto tale, la minoranza non fa parte di esso. Di conseguenza, la politica adottata dallo Stoto d'Israele, nei confronti dei suoi cittadini arabi, è caratterizzata essenzialmente dalla negazione della loro Identità Collettiva; nella ricerca sarà esaminato l'effetto di questo sull'appartenenza di gruppo dei palestinesi in Israele. Quindi, sarà indagato il modo in cui l'appartenenza di gruppo influenza i giudizi dei soggetti sulle persone appartenenti ad altri gruppi.
 

 

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Introduzione:

Dall'inizio del secolo, i leader del movimento sionista hanno negato che gli arabi della Palestina costituiscano un gruppo nazionale che abbia diritti in essa1 (Rouhana & Bar-Tal2, 1998; Kimmerling & Migdal, 1993; E. W. Said, 1992).
 
Edward W. Said (1992), nel The Question of Palestine3, conduce una riflessione storico-filosofica del sionismo collocandolo nel più ampio contesto culturale del XIX secolo, dell'Europa liberal, in cui si è sviluppato e da cui ha tratto le sue caratteristiche. In quel clima culturale, secondo l'autore, "l'imperialismo era la teoria e il colonialismo era la pratica che trasformava i territori del mondo inutili e disabitati in nuove utili versioni della società metropolitana europea" (tr. it. 1995, p. 86).
 
Secondo E. W. Said (1992) , "il sionismo si unì in pratica con quegli aspetti della cultura occidentale (nel quale il sionismo si sviluppò) che rendevano normale per gli europei considerare inferiori, marginali o irrilevanti tutti gli uomini nati al di fuori del vecchio continente" (tr. i. 1995, p.81). Così, "il sionismo perciò si sviluppò con una straordinaria coscienza di sé, ma senza lasciare alcuno spazio agli sfortunati nativi" (tr. it. 1995, p. 89). Secondo M. Rodinson (1973) l'indifferenza sionista per i palestinesi era, "… un'indifferenza legata a quella supremazia europea, di cui beneficiarono perfino i proletari e le minoranze oppresse dell'Europa" (in E. W. Said, op. cit., p. 89).
 
In breve, secondo E. W. Said ,"tutte le energie di fondo del sionismo si basavano sulla negazione di una presenza, sull'assenza funzionale di un "popolo indigeno" in Palestina; le nuove istituzioni vennero create escludendone deliberatamente i nativi e, dopo la nascita dello Stato d'Israele, le sue leggi furono progettate in modo che i palestinesi restassero sempre nel loro "non-luogo", gli ebrei al loro posto e così via" (ibiem, pp. 89-90).
 
Dunque, con la creazione dello stato di Israele, definito stato degli ebrei, la politica di rifiuto di vedere gli arabi come gruppo nazionale divenne istituzionalizzata, considerandoli come delle minoranze religiose. Questa negazione dell'Altro (i nativi) e la sua divisione in differenti gruppi non nasce soltanto da una politica di "divide et impera" (d'altronde, Israele non aveva bisogno di dividere questa comunità per dominarla), ma va ben oltre questo motivo. Possiamo ricercare le ragione di questo atteggiamento sia negli aspetti ideologici che in quelli psicologici. Per quanto riguarda gli aspetti ideologici, il riconoscimento della presenza di un altro gruppo nazionale in Palestina metterebbe in crisi l'ideologia sionista, cioè la creazione di uno stato focolare ebraico in Palestina, e la sua giustificazione: "terra senza popolo per un popolo senza terra".
 
Il secondo ci viene dato dalle teorie sociopsicologiche delle relazioni intergruppi. Secondo la Teoria dell'Identità Sociale (Tajfel, 1978; Tajfel & Turner, 1986) la presenza di un altro gruppo minaccia, in certi casi, l'identità sociale dell'ingroup e questo comporterebbe, in accordo con la Teoria del Conflitto Realistico (Campbell, 1965; LeVine & Campbell, 1972), un aumento dell'etnocentrismo.
 
Dopo aver preso in considerazione gli aspetti, ideologici e psicosociali, del perché lo Stato di Israele ha negato, e continua a negare ancora, l'identità palestinese ai suoi cittadini arabi, in questo lavoro, cercheremo di vedere le conseguenze di questo fatto sulla minoranza araba palestinese in Israele.
 
Lo Stato ha concesso le libertà di pratiche religiose e alla lingua araba lo status di lingua ufficiale, sebbene l'ebraico sia la lingua dello Stato, però ha negato loro ogni rapporto con la storia, la tradizione, la cultura e l'identità palestinese.
 
Si può ipotizzare che in Israele due fatti abbiano in qualche modo influenzato il senso di appartenenza al proprio gruppo nazionale da parte dei palestinesi, che sono rimasti nello Stato di Israele: da una parte, la divisione dei palestinesi in gruppi diversi (Musulmani, Drusi , Cristiani e Beduini) che ha comportato, poi, la creazione di sistemi educativi diversi per ognuno dei gruppi, la creazione di sportelli diversi all'interno del Ministero dell'Interno, e, anche, l'obbligatorietà del servizio di leva per i drusi (v. par. 2.3); dall'altra parte, l'attribuzione della cittadinanza israeliana ai palestinesi in Israele.
 
Sembra che il fatto di appartenere ad un gruppo sociale (o a gruppi sociali) non sia sufficiente di per sé per il processo di autocategorizzazione come membro di tale gruppo: nei casi delle minoranze, affinchè questo processo abbia un andamento normale e senza problematiche di identità, c'è bisogno che la maggioranza (lo Stato) attui un riconoscimento istituzionale dell'identità culturale dell'Altro (indigeni, minoranze, immigrati e cosi via) che gli consenta, nella quotidianità, di praticare la propria identità/cultura. La richiesta, o la lotta, per un riconoscimento, avanzati dai gruppi minoritari o svantaggiati, potrebbe essere vista nell'ottica della strategia di cambiamento sociale, descritta da Tajfel (1981), (v. par. 1.2.2).
 
A questo punto, è interessante notare come, "diversi filoni della politica contemporanea hanno al proprio centro il bisogno, e qualche volta la domanda, di riconoscimento" (C. Taylor, 1992, tr. it. 1998, p. 9).
 
L'importanza del riconoscimento dell'identità è, sempre secondo C. Taylor, che "la nostra identità sia plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un'immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia. Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito" (ibidem).
 

 

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