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La guerra e il diritto
Livio Pepino Pubblicazioni Centro Studi per la Pace |
Editoriale Anche questo fascicolo si apre sul tema della guerra. Forse la pace in Kosovo è prossima. Ma questo esito - atteso, costruito, gridato - lascia dietro di sé terra bruciata: nella ex Jugoslavia; ed anche nel diritto e nelle relazioni internazionali. Ciò che è accaduto in questi mesi è, infatti, drammaticamente eversivo: "il potere di delineare l'assetto futuro della comunità internazionale è sfuggito ai luoghi della democrazia e si è concentrato in quella della forza" (così S. Rodotà, Trattare con l'imputato Milosevic, La Repubblica, 6 giugno 1999). Non si può, dunque, voltar pagina, archiviando la vicenda con un sospiro di sollievo perché (almeno) le bombe hanno smesso di cadere e di uccidere, con la speranza che alla "pulizia etnica " delle truppe di Milosevic non seguano rappresaglie e vendette dell'Uck. Ad impedire un'affrettata archiviazione (o rimozione) concorrono molte altre ragioni. C'è, anzitutto, la divisione delle coscienze intervenuta tra i democratici sul tema dei rapporti tra pace e diritti umani, la cui separazione ha travolto una elaborazione ed un impegno culturale fino ad ieri comuni, aprendo scenari di grande incertezza (circostanza, in prospettiva, assai più grave dei contingenti equilibri internazionali per il cui consolidamento altri hanno voluto la guerra). E c'è il fatto che, per la prima volta negli ultimi cinquant'anni, la guerra non è stata solo lo strappo, ad opera di uno o più Stati, a regole riconosciute: l'assenza di una reale opposizione in sede internazionale l'ha trasformata da violazione del diritto in regola, quasi nuova costituzione materiale internazionale. Ancora, l'intervento della Nato ha segnato la consapevole emarginazione dell'Onu come organo dotato di sovranità e di poteri propri per la tutela (anche con l'uso della forza) dei diritti dei popoli(senza neppure, questa volta, averne previamente accertato l'incapacità). Ciò ha dato ulteriore alimento al realismo dell'uomo della strada "generalmente molto pessimista circa la possibilità che il diritto possa imporsi alla volontà degli Stati, e soprattutto a quella delle grandi potenze" (così A. Pizzorusso, Diritto internazionale ed effettività della tutela, in Questione giustizia, 1988, 433) ed ha prodotto asprezze e irrazionalità, da taluno spinte sino alla sciagurata ed irresponsabile affermazione (immemore delle lezioni della storia) di un collegamento tra l'opposizione alla guerra e l'apparente riedizione di un terrorismo feroce e assurdo. Proclamare, "contro la guerra le ragioni del diritto" non è, in questo contesto, una pura testimonianza. È un'opzione culturale e politica nel senso che "a una (perversa) razionalizzazione del reale è preferibile una (corretta) critica dell'esistente, e che sta qui il discrimine tra progresso e conservazione nella storia" (così P. Onorato, La guerra del Golfo tra diritto e politica, in Questione giustizia, 1991, 829).Ed è scelta risalente di Questione giustizia che vi ha dedicato ampia riflessione, tra l'altro negli "obbiettivi" Diritto e giuristi di fronte al tema della pace (con documenti e interventi di N. Bobbio, R. La Valle, V. Accattatis e D. Gallo) e La pace, la guerra e il ruolo dei giuristi (con documenti e scritti di P. onorato, C. F. Grosso, L. Pepino), pubblicati nei fasc. n. 4/1985 e 4/1990. ______top______ 1. Gli accordi per la cessazione della guerra in Jugoslavia (in corso di definizione mentre queste pagine vengono chiuse) prevedono l'intervento diretto dell'Onu e l'invio in Kosovo di una forza militare di interposizione o di pace politicamente ed etnicamente eterogenea (analogamente a quanto avvenuto in Bosnia)(1). Perché, dunque, non si è tentata subito tale strada? Per l'ostinazione e la protervia di Milosevic, ma non solo per questo. L'art. 8 dell'appendice B del trattato di Rambouillet (cioè della proposta di accordo per evitare la guerra) prevedeva per la Nato la possibilità di passaggio libero e senza restrizioni attraverso la Repubblica federale di Jugoslavia" e di "accesso senza ostacoli al suo spazio aereo e fluviale", con inclusione altresì del diritto di bivacco, di manovra, di alloggiamenti e di utilizzazione di aree o di zone necessarie al sostegno, all'addestramento e alle operazioni" militari. Difficile pensare che un paese sovrano potesse accettare una simile clausola di controllo di una alleanza ostile (non su una propria regione ma) su tutto il proprio territorio! Ciò che non è stato possibile a marzo è, invece, avvenuto a giugno. Ma nel mezzo ci sono stati la distruzione di un paese, la crescita di ogni residua speranza di convivenza in Kosovo tra serbi e albanesi. E tutto ciò ha travolto - forse in maniera irreversibile - le regole del diritto internazionale faticosamente costruite negli ultimi cinquant'anni. 2. Il paradosso è che la "inevitabilità" e la "legittimità" dell'intervento della Nato hanno assunto la forza della (apparente) evidenza (2), sino a diventare una sorta di leit motiv autogiustificato, sull'onda della affermazione di D. Cohen Benedit che di "fronte alle deportazioni di centinaia migliaia di persone, di vagoni piombati, alle stragi di innocenti non ha senso discutere ancora sulla legittimità dell'intervento armato". E invece il nodo della questione - oggi e per l'evoluzione del diritto internazionale - sta proprio qui: nella esistenza (o meno) di un rapporto di automatismo tra drammaticità della situazione del Kosovo e la necessità-legittimità dell'intervento della Nato. Questo è il punto di scontro: non certo dell'esistenza in Kosovo di una catastrofe umanitaria, né il diritto-dovere della comunità internazionale di realizzare interventi umanitari tempestivi e conformi allo statuto dell'Onu (se del caso anche armati)(3). È questo intervento che divide: per il suo carattere eversivo dell'ordinamento internazionale (cui, non per caso, ha corrisposto una crescita di ingiustizia e di sofferenza). La questione che si è drammaticamente (ri)aperta in questi mesi - per la politica e per il diritto - riguarda non il giudizio sulla guerra senza motivo o per mere ragioni di egemonia (il cui rifiuto è, almeno in astratto, pacifico), ma quello sulla legittimità del ricorso libero alla guerra per risolvere situazioni o conflitti reali e drammatici (4). E si è (ri)affacciata la concezione della guerra giusta, vera antitesi - a ben guardare - del movimento di tutela dei diritti umani (5) e fonte di marginalizzazione del diritto, nuovamente ridotto a dato meramente sovrastrutturale (pura proiezione dei rapporti di forza). 3. È stata, forse, questa percezione che ha indotto parte della cultura democratica (quella non sedotta da parole d'ordine riecheggianti l'interventismo della prima guerra mondiale) ad esplorare altre strade di interpretazione dei processi in atto. Si è negata, così, la riportabilità dell'intervento della Nato al concetto di guerra, affermandone la natura di "operazione di polizia internazionale" (8); si è escluso il carattere di "conflitto internazionale" della tragedia del Kosovo; si è giustificata l'estromissione del Parlamento dalla decisione sulla guerra con la "limitazione di sovranità" conseguente all'adesione dell'Italia alla Nato. Ma il gioco disinvolto delle parole e dei concetti non fa che perpetuare macabre finzioni simili a quella di definire "effetti collaterali" i morti sotto i bombardamenti... È arduo negare il carattere di guerra ad operazioni militari nelle quali è stata scaricata sulla Jugoslavia, in 32000 uscite aeree, una potenza di fuoco pari a quattro volte quella dei bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki (9) con danni gravissimi per l'intera popolazione e per le strutture civili; una operazione di polizia, nazionale o internazionale, ha come requisiti immancabili (mancanti nel caso specifico) la competenza di chi la pone in essere e la diretta incidenza sull'autore dell'illecito (10); il carattere di conflitto internazionale è riconosciuto dalla dottrina sia all'ipotesi di intervento di uno Stato terzo in una guerra civile a fianco di una delle parti sia a quella di "guerre di liberazione nazionale o di conflitti per l'autodeterminazione" (11); le limitazioni di sovranità cui si riferisce l'art. 11 Cost. (anche a prescindere dalla loro estensione) riguardano esclusivamente la realizzazione di "un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni"... 4. Inutile e fuorviante, dunque, tentare un aggiramento della questione. Il punto che interpella la cultura democratica (non solo giuridica) è, ancora una volta, se l'emergenza autorizza la sospensione delle rego le. Affrontare l'emergenza è un dovere troppo spesso eluso, colpevolmente e nel generale disinteresse, dalla comunità internazionale. Occorre una drastica e rapida inversione di tendenza. Ma, in epoca non sospetta, è stato scritto: "può essere, è certamente realistico pensarlo, che le moderne tecniche belliche non consentano decisioni democratiche riguardo alla guerra. Ma allora la guerra diventa incompatibile con un ordinamento democratico e pluralistico; e allora o la democrazia impedirà la guerra o la guerra distruggerà la democrazia" (12). ______top______ Note |
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